La cure della zia Gioia 2

di
genere
incesti

Capitolo 2 – Il cinema, la mano e la lezione
Dopo quella colazione, Mario ha evitato di incrociare il mio sguardo per un paio di giorni. Faceva finta di non sentire quando passavo nuda dal bagno alla mia camera, coi capezzoli duri e la fica rasata sotto la vestaglia aperta. Ma il cazzo non mente. Lo vedevo gonfiarsi anche se lui cercava di nasconderlo col libro sulle ginocchia.
E allora ho deciso che era il momento di alzare il tiro.
Una sera, mentre eravamo a tavola, lui con la solita pasta in bianco e io in reggicalze sotto la camicetta trasparente, gli ho detto:
«Mario, mi porti al cinema domani sera? Non esco da settimane. Voglio vedere un film, magari tenero… o magari uno dove si scopa.»
Ha deglutito, come se avesse ingoiato un osso.
«Certo… va bene, Gioia. Cosa vuoi vedere?»
«Non m’importa il titolo. Mi importa con chi lo guardo.»
Il giorno dopo si è presentato puntuale, camicia stirata, jeans nuovi. Profumo dolce. Nervoso come un chierichetto al primo sabba. Quando mi ha vista scendere le scale, con quel vestito corto, nero, senza reggiseno e le tette libere che ballavano sotto il tessuto leggero, ha perso il respiro per un attimo. E io me ne sono accorta.
«Non fissarmi le tette, Mario. Non ancora.»
Al cinema ho scelto un film francese, lento, noioso, pieno di silenzi e primi piani. La sala era quasi vuota. Ci siamo seduti in fondo, ultima fila. Apposta. Dopo dieci minuti, ho fatto scivolare la mia mano sulla sua coscia.
Lui si è irrigidito.
«Tranquillo», gli ho sussurrato all’orecchio. «Non ti sto violentando. Sto solo insegnando.»
Con le dita ho accarezzato la stoffa dei suoi jeans. Il cazzo era già mezzo duro. Bastava sfiorarlo. Sembrava che avesse aspettato tutta la vita quel tocco.
Ho abbassato la zip e infilato la mano. Era caldissimo. Grosso. E io bagnata fradicia.
«Non muoverti», gli ho detto. E ho iniziato a masturbarlo lentamente, nella penombra, con la musica del film a coprire il suono della mia mano bagnata sulla sua pelle.
Lui mordeva le labbra, tratteneva il respiro.
«Bravissimo», gli ho sussurrato, «non venire ancora… voglio che duri, capito?»
Mi sono alzata un po’, senza togliere la mano, e ho poggiato la mia bocca sul suo collo.
«Sai cosa succede dopo il cinema, Mario? Mi porti a casa. Ma prima… prima mi fai venire. E poi tocca a te.»
Mi ha guardata. Gli occhi lucidi, il respiro corto.
«Va bene», ha detto. Ma sembrava una preghiera.

Quando siamo tornati a casa, non ho nemmeno aspettato che spegnesse il motore.
«Saliamo», gli ho detto. «E non fare il bravo ragazzo. O ti metto in punizione.»
Aveva ancora la patta slacciata e il cazzo duro che gli premeva contro i boxer. Era teso come un cane davanti alla ciotola, ma ancora troppo educato per affondare il muso. L’ho fatto entrare per primo, chiudendo la porta dietro di noi.
Senza dire niente, mi sono sfilata le mutandine e gliele ho tirate addosso.
«Annusale», ho detto.
Lui le ha prese con due dita, come fossero radioattive.
«Leccale, Mario.»
Mi ha guardata. Ho incrociato le braccia sotto il seno, gliele ho sbattute davanti.
«Sono il tuo primo comando. O lo fai, o te ne vai nella tua stanzetta a farti le pugnette.»
Ha obbedito. Ha portato il pizzo alla bocca, incerto, poi la lingua è uscita. Una leccatina timida. Ma io lo vedevo: gli piaceva. Quel profumo acido e dolce, il mio umore ancora fresco, lo stava mandando fuori di testa.
«Bravo. Ora siediti sul divano e togliti tutto.»
Si è spogliato lentamente. Aveva un corpo asciutto, nervoso, da ragazzo che non ha mai avuto chi gli insegna a usarlo. Ma quel cazzo… era lì, duro e gonfio, come se mi stesse chiamando per nome.
Mi sono messa in ginocchio davanti a lui.
«Niente baci, niente carezze. Oggi impari solo a restare duro mentre ti insegno a dare piacere.»
Gli ho preso il cazzo in mano. Era bollente, pulsava nelle dita.
«Guarda come lo faccio io. Questo non è un lavoro da suore. Qui si sbava, si stringe, si scivola…»
E l’ho fatto. Ho iniziato a pomparglielo con la mia mano destra mentre la sinistra gli stringeva le palle. Gli occhi chiusi, la bocca semiaperta.
«Non venire, Mario. Te lo dico adesso. Non hai il permesso.»
La testa gli tremava.
«Resisti», ho sibilato, «o ti faccio vergognare come un ragazzino davanti alla maestra.»
Poi mi sono alzata. Ho sfilato il vestito. Nuda. Fiera. La figa depilata, lucida, pronta.
«Adesso tocchi tu. Vieni dietro di me. In ginocchio. Guarda come si adora una figa, Mario.»
Mi sono messa a carponi sul divano, le gambe larghe, la figa e il culo ben aperti.
«Leccami. Ma non da porco inesperto. Piano. Parti dalla fessura. Risali. Scendi. Fai il giro. Spingiti dentro. Respira. Devi volerla più dell’aria.»
E lui… lui ha fatto come gli dicevo. La lingua impacciata, ma affamata. Il respiro corto. Le mani tremanti.
«Così. Bravissimo. Ora metti due dita. Lentamente. Senti quanto sono calda? Ti voglio dentro, Mario. Ma non con quel cazzo. Non ancora. Prima impari a farmi godere come una troia.»
L’ho fatto leccare, infilare, succhiare. Mi sono venuta contro il suo viso, affondando le dita nei suoi capelli, spingendogli la bocca sulla figa bagnata.
E poi, mentre ancora tremavo, mi sono girata e l’ho guardato negli occhi.
«Hai studiato bene, Mario. Ma da domani, le lezioni si fanno ogni sera. E se sbagli… te lo succhio senza farti venire. Capito?»
Ha annuito. Sudato. Con il cazzo ancora in tiro.
E io ridevo, soddisfatta. Finalmente, un allievo con qualcosa di grosso da imparare.
scritto il
2025-05-22
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