Le cure della zia Gioia 1
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
Capitolo 1 – Il topo di biblioteca e il cazzo da stallone
Non avevo nessuna voglia di tornare in quella casa. La sua casa. O meglio, la casa della mia vecchia amica Marina. Quella donna sempre perfettina, col marito morto troppo presto e quel figlio che sembrava uscito da un laboratorio per topi da biblioteca.
Mario. Ventisette anni, ma sembrava ancora un adolescente con la faccia da brufoloso represso e la voce che non riusciva a scegliere se essere da uomo o da corista. Me lo ricordavo ragazzino, con le mani sudate e gli occhi bassi ogni volta che mi vedeva. Era uno di quelli che, se li sfiori, si eccitano e vanno in crisi.
Quando Marina mi propose di stare da loro per un po’, dopo il casino del mio divorzio, pensai che fosse solo un parcheggio comodo finché non trovavo casa. Ma dopo tre giorni passati lì, con lui che sgusciava tra corridoi e libri come un topo impaurito, avevo già voglia di scappare.
Poi arrivò quella sera.
Era estate. Caldo schifoso, zanzare ovunque, l’aria ferma come un alito marcio. Marina era fuori per il fine settimana. Io ero in canottiera e mutande, mezza sudata, e volevo solo andare a prendere una bottiglia d’acqua in cucina. La porta della sua camera era socchiusa. E lui… lui era lì, nudo. Di spalle. Illuminato dalla luce fioca della lampada sul comodino. Mi bastò un secondo.
Quel cazzo.
Un cazzo enorme, dritto, appeso a due palle pesanti. Roba da stallone, roba che non ti aspetti da uno che vive con la mamma e legge Kant. Mi fermai sulla soglia. Non mi aveva vista. Si stava grattando le palle con la calma di chi non ha niente da perdere. E lì qualcosa è scattato.
Mi sono leccata le labbra, senza nemmeno accorgermene. Mi si è bagnata la figa, subito. All’improvviso. Come se quel cazzo avesse premuto un interruttore.
Da quella sera ho cominciato a studiarlo. A provocarlo. A vestirmi più leggera. Mutandine trasparenti, vestaglie senza reggiseno, tette libere sotto le camicie. Lo guardavo mentre cercava di non guardarmi. Gli occhi che gli scappavano sempre sul mio culo, sulle mie cosce. E io gli sorridevo. Come una puttana esperta con un cliente impacciato.
Una mattina, mentre faceva colazione, ho deciso di iniziare davvero.
Mi sono seduta davanti a lui. Senza mutande. Gambe accavallate. E gliel’ho detto.
«Mario, lo sai che hai un cazzo da film porno, vero?»
È diventato paonazzo, ha tossito, ha cercato di cambiare discorso.
Io ho riso. «Se vuoi, posso insegnarti a usarlo. Ma non gratis. Mi devi obbedire.»
Lui non ha risposto. Ma non serviva. Il cazzo gli premeva già contro i pantaloni.
Non avevo nessuna voglia di tornare in quella casa. La sua casa. O meglio, la casa della mia vecchia amica Marina. Quella donna sempre perfettina, col marito morto troppo presto e quel figlio che sembrava uscito da un laboratorio per topi da biblioteca.
Mario. Ventisette anni, ma sembrava ancora un adolescente con la faccia da brufoloso represso e la voce che non riusciva a scegliere se essere da uomo o da corista. Me lo ricordavo ragazzino, con le mani sudate e gli occhi bassi ogni volta che mi vedeva. Era uno di quelli che, se li sfiori, si eccitano e vanno in crisi.
Quando Marina mi propose di stare da loro per un po’, dopo il casino del mio divorzio, pensai che fosse solo un parcheggio comodo finché non trovavo casa. Ma dopo tre giorni passati lì, con lui che sgusciava tra corridoi e libri come un topo impaurito, avevo già voglia di scappare.
Poi arrivò quella sera.
Era estate. Caldo schifoso, zanzare ovunque, l’aria ferma come un alito marcio. Marina era fuori per il fine settimana. Io ero in canottiera e mutande, mezza sudata, e volevo solo andare a prendere una bottiglia d’acqua in cucina. La porta della sua camera era socchiusa. E lui… lui era lì, nudo. Di spalle. Illuminato dalla luce fioca della lampada sul comodino. Mi bastò un secondo.
Quel cazzo.
Un cazzo enorme, dritto, appeso a due palle pesanti. Roba da stallone, roba che non ti aspetti da uno che vive con la mamma e legge Kant. Mi fermai sulla soglia. Non mi aveva vista. Si stava grattando le palle con la calma di chi non ha niente da perdere. E lì qualcosa è scattato.
Mi sono leccata le labbra, senza nemmeno accorgermene. Mi si è bagnata la figa, subito. All’improvviso. Come se quel cazzo avesse premuto un interruttore.
Da quella sera ho cominciato a studiarlo. A provocarlo. A vestirmi più leggera. Mutandine trasparenti, vestaglie senza reggiseno, tette libere sotto le camicie. Lo guardavo mentre cercava di non guardarmi. Gli occhi che gli scappavano sempre sul mio culo, sulle mie cosce. E io gli sorridevo. Come una puttana esperta con un cliente impacciato.
Una mattina, mentre faceva colazione, ho deciso di iniziare davvero.
Mi sono seduta davanti a lui. Senza mutande. Gambe accavallate. E gliel’ho detto.
«Mario, lo sai che hai un cazzo da film porno, vero?»
È diventato paonazzo, ha tossito, ha cercato di cambiare discorso.
Io ho riso. «Se vuoi, posso insegnarti a usarlo. Ma non gratis. Mi devi obbedire.»
Lui non ha risposto. Ma non serviva. Il cazzo gli premeva già contro i pantaloni.
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