Cronache di Anna IV – Il battesimo del desiderio
di
Marcello Callisto
genere
etero
Anna non si mosse. Rimase lì, stretta a lui, respirando piano, come se fosse ancora innocente. Ma dietro il sorriso segreto, sapeva. Aveva vinto. Aveva fatto esplodere l’uomo normale. Aveva inginocchiato la sua fame davanti alla sua finta innocenza.
E sapeva che lui non avrebbe mai più potuto dimenticarla. Lui restò immobile, schiacciato contro lo schienale del divano, il cazzo ancora duro dentro i jeans inzuppati, il respiro spezzato, il cuore che picchiava forte nelle orecchie. Provò a parlare. Provò a dire qualcosa. Ma dalla gola gli uscì solo un rantolo. «Mi dispiace…» sussurrò alla fine, abbassando gli occhi, vergognoso come un bambino sorpreso a masturbarsi.
Anna sollevò il viso dal suo ventre, lentamente. Lo guardò con quegli occhi grandi, ancora pieni di finta dolcezza. Poi sorrise. Un sorriso piccolo, tenero, che lo trafisse più di qualsiasi accusa. «Non devi scusarti…» mormorò. La sua voce era dolce come una carezza sulla ferita. «È colpa mia… sono stata io…» E mentre parlava, si mosse. Con la lentezza morbida di un gatto che striscia sul corpo addormentato del padrone, salì a cavalcioni su di lui. La gonna arrotolata in vita, il sesso caldo e umido che sfiorava i jeans bagnati, i seni piccoli che premevano contro il suo petto.
«Sei tutto sporco…» sussurrò, mentre le mani gli slacciavano il bottone dei jeans. Le dita tremavano appena, come se stesse facendo qualcosa di proibito. Lui non si mosse. Non poteva. Era in suo potere. Anna abbassò la zip, tirò fuori il cazzo ancora duro, madido di seme, e lo guardò. Come una bambina che scopre un giocattolo proibito. Poi abbassò la testa. E senza dire nulla iniziò a leccarlo. Lenta. Devozione sporca che spezzava ogni logica. La lingua scivolava sull’asta sporca, raccogliendo il seme, pulendolo come si lecca una ferita. Ogni tocco una carezza bagnata, ogni passaggio una promessa di dannazione.
Lui si aggrappò al divano, stringendo i pugni, cercando di non urlare. Anna leccava lenta, amorosa, succhiando a tratti la punta, tirandogli via ogni residuo di volontà. Ogni tanto sollevava gli occhi verso di lui. Occhi grandi, occhi umidi, pieni di una finta innocenza che lo distruggeva. Lo stava pulendo. Lo stava adorando. E lo stava facendo a pezzi. Ogni colpo di lingua un altro chiodo nel suo petto. E lui… lui non era più nulla. Solo carne, fiato, vergogna e piacere.
Anna si prese tutto. Ogni goccia. Ogni gemito. E quando fu sicura che non gli restava più niente da dare, si sollevò, si sistemò piano la gonna e gli sorrise. Un sorriso dolce, maledetto. Come se nulla fosse accaduto. Si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo l’ultimo sapore dalla bocca. Poi scese dal suo grembo con un piccolo movimento goffo, come una bambina che ha giocato troppo. Si sedette accanto a lui, le ginocchia raccolte sul divano, gli occhi lucidi, strani.
«Te l’ho pulito…» disse piano, come raccontando un segreto. «Come mi fa fare mio cugino…» Lui sussultò. Il cuore gli mancò un battito. Anna sorrise timida, guardandolo dal basso verso l’alto. «Ma tu… tu sei più gentile di lui.» Fece una piccola pausa. «Mio cugino… lui… mi spinge la testa… forte…» Portò le mani sulla nuca, mimando il gesto, spingendo la propria testa verso il basso, verso un grembo immaginario.
«E poi mi fa… altre cose…» abbassò la voce fino a un sussurro. «A volte mi fa male… mi mette in certe posizioni… vuoi vedere…?» Si girò sul divano, a quattro zampe, la gonna che scivolava su, lasciando il culo esposto, il triangolo bianco degli slip tirato sulla figa gonfia. Voltò appena la testa, come un gattino che gioca a nascondersi. «Mi mette così… e poi… mi prende. Mi prende fino a che può… e quando non può più… prende certi oggetti grossi… e mi fa certe cose…» La voce era dolce. Innocente. Come se stesse raccontando una favola sporca imparata troppo presto.
«Io… mi sono abituata, sai?» Un sorriso triste le piegò le labbra. «A volte mi piace pure…» Tornò a sedersi sulle ginocchia, la gonna arrotolata, la figa umida che premeva contro la stoffa bagnata degli slip. Lo guardò negli occhi. Sincera. Sporca. Disarmante. «Ma tu… tu non sei come lui. Tu sei gentile… Con te… potrei provare, se vuoi…» Un filo di voce. Una lama infilata nel cuore.
Lui restò inchiodato dallo sguardo di Anna. Sentiva il cazzo, ancora madido, pulsare come se volesse tornare duro solo per lei. Sentiva l’odore della sua eccitazione nell’aria, come un veleno dolce. E sapeva che non sarebbe stato più un uomo normale. Mai più.
Anna si inginocchiò accanto, le mani sulle sue cosce, il viso basso, la bocca a un soffio dal cazzo stanco. «Posso farti vedere come mi tocca?» chiese piano, come una bambina che chiede di mostrare un gioco proibito. Lui annuì, incapace di parlare.
Anna si sdraiò sul divano di lato, piegando una gamba, sollevando la gonna. La figa tesa contro gli slip bagnati si mostrava piena, viva. Prese la mano di lui, lentamente, la guidò sulle sue cosce. «Prima… mi accarezza così…» La voce tremava, come se si vergognasse. Fece scorrere la mano di lui sulla pelle calda, morbida. La portò all’interno delle cosce, dove la carne vibrava di calore.
«Poi…» fece scivolare le dita sotto l’elastico degli slip, guidandole lungo la piega bagnata. «Mi tocca qui… con un dito solo… e poi…» Un piccolo fremito la scosse. Il bacino si mosse appena contro la mano di lui. Anna gemette piano, un suono soffocato.
Si voltò. Si mise a carponi, le mani appoggiate allo schienale del divano, il culo sollevato, la gonna arrotolata sui fianchi. Gli slip tesi tra le labbra gonfie della figa, che luccicava sotto la stoffa. Voltò il viso verso di lui. «Poi mi fa mettere così…» sorrise, timida. «Mi apre le gambe… e mi tocca ancora… più forte…» Spalancò appena le ginocchia, mostrando tutto.
La stoffa degli slip era lucida di umidità. Lui tremava. Il cazzo, incredibilmente, stava tornando duro. Anna si rialzò in ginocchio, avvicinandosi. Prese la sua mano ancora, la fece scivolare tra le labbra gonfie. «A volte…» abbassò lo sguardo. «A volte usa delle cose… tipo… un cetriolo…» Si morsicò il labbro. «Se vuoi… possiamo provarlo…»
Guardò verso la cucina. Poi tornò a fissarlo. «Se vuoi… puoi prenderlo tu… e io ti faccio vedere tutto…» Un soffio. Un veleno dolce. Lui non si mosse subito. Il cervello arrancava dietro il corpo.
E sapeva che lui non avrebbe mai più potuto dimenticarla. Lui restò immobile, schiacciato contro lo schienale del divano, il cazzo ancora duro dentro i jeans inzuppati, il respiro spezzato, il cuore che picchiava forte nelle orecchie. Provò a parlare. Provò a dire qualcosa. Ma dalla gola gli uscì solo un rantolo. «Mi dispiace…» sussurrò alla fine, abbassando gli occhi, vergognoso come un bambino sorpreso a masturbarsi.
Anna sollevò il viso dal suo ventre, lentamente. Lo guardò con quegli occhi grandi, ancora pieni di finta dolcezza. Poi sorrise. Un sorriso piccolo, tenero, che lo trafisse più di qualsiasi accusa. «Non devi scusarti…» mormorò. La sua voce era dolce come una carezza sulla ferita. «È colpa mia… sono stata io…» E mentre parlava, si mosse. Con la lentezza morbida di un gatto che striscia sul corpo addormentato del padrone, salì a cavalcioni su di lui. La gonna arrotolata in vita, il sesso caldo e umido che sfiorava i jeans bagnati, i seni piccoli che premevano contro il suo petto.
«Sei tutto sporco…» sussurrò, mentre le mani gli slacciavano il bottone dei jeans. Le dita tremavano appena, come se stesse facendo qualcosa di proibito. Lui non si mosse. Non poteva. Era in suo potere. Anna abbassò la zip, tirò fuori il cazzo ancora duro, madido di seme, e lo guardò. Come una bambina che scopre un giocattolo proibito. Poi abbassò la testa. E senza dire nulla iniziò a leccarlo. Lenta. Devozione sporca che spezzava ogni logica. La lingua scivolava sull’asta sporca, raccogliendo il seme, pulendolo come si lecca una ferita. Ogni tocco una carezza bagnata, ogni passaggio una promessa di dannazione.
Lui si aggrappò al divano, stringendo i pugni, cercando di non urlare. Anna leccava lenta, amorosa, succhiando a tratti la punta, tirandogli via ogni residuo di volontà. Ogni tanto sollevava gli occhi verso di lui. Occhi grandi, occhi umidi, pieni di una finta innocenza che lo distruggeva. Lo stava pulendo. Lo stava adorando. E lo stava facendo a pezzi. Ogni colpo di lingua un altro chiodo nel suo petto. E lui… lui non era più nulla. Solo carne, fiato, vergogna e piacere.
Anna si prese tutto. Ogni goccia. Ogni gemito. E quando fu sicura che non gli restava più niente da dare, si sollevò, si sistemò piano la gonna e gli sorrise. Un sorriso dolce, maledetto. Come se nulla fosse accaduto. Si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo l’ultimo sapore dalla bocca. Poi scese dal suo grembo con un piccolo movimento goffo, come una bambina che ha giocato troppo. Si sedette accanto a lui, le ginocchia raccolte sul divano, gli occhi lucidi, strani.
«Te l’ho pulito…» disse piano, come raccontando un segreto. «Come mi fa fare mio cugino…» Lui sussultò. Il cuore gli mancò un battito. Anna sorrise timida, guardandolo dal basso verso l’alto. «Ma tu… tu sei più gentile di lui.» Fece una piccola pausa. «Mio cugino… lui… mi spinge la testa… forte…» Portò le mani sulla nuca, mimando il gesto, spingendo la propria testa verso il basso, verso un grembo immaginario.
«E poi mi fa… altre cose…» abbassò la voce fino a un sussurro. «A volte mi fa male… mi mette in certe posizioni… vuoi vedere…?» Si girò sul divano, a quattro zampe, la gonna che scivolava su, lasciando il culo esposto, il triangolo bianco degli slip tirato sulla figa gonfia. Voltò appena la testa, come un gattino che gioca a nascondersi. «Mi mette così… e poi… mi prende. Mi prende fino a che può… e quando non può più… prende certi oggetti grossi… e mi fa certe cose…» La voce era dolce. Innocente. Come se stesse raccontando una favola sporca imparata troppo presto.
«Io… mi sono abituata, sai?» Un sorriso triste le piegò le labbra. «A volte mi piace pure…» Tornò a sedersi sulle ginocchia, la gonna arrotolata, la figa umida che premeva contro la stoffa bagnata degli slip. Lo guardò negli occhi. Sincera. Sporca. Disarmante. «Ma tu… tu non sei come lui. Tu sei gentile… Con te… potrei provare, se vuoi…» Un filo di voce. Una lama infilata nel cuore.
Lui restò inchiodato dallo sguardo di Anna. Sentiva il cazzo, ancora madido, pulsare come se volesse tornare duro solo per lei. Sentiva l’odore della sua eccitazione nell’aria, come un veleno dolce. E sapeva che non sarebbe stato più un uomo normale. Mai più.
Anna si inginocchiò accanto, le mani sulle sue cosce, il viso basso, la bocca a un soffio dal cazzo stanco. «Posso farti vedere come mi tocca?» chiese piano, come una bambina che chiede di mostrare un gioco proibito. Lui annuì, incapace di parlare.
Anna si sdraiò sul divano di lato, piegando una gamba, sollevando la gonna. La figa tesa contro gli slip bagnati si mostrava piena, viva. Prese la mano di lui, lentamente, la guidò sulle sue cosce. «Prima… mi accarezza così…» La voce tremava, come se si vergognasse. Fece scorrere la mano di lui sulla pelle calda, morbida. La portò all’interno delle cosce, dove la carne vibrava di calore.
«Poi…» fece scivolare le dita sotto l’elastico degli slip, guidandole lungo la piega bagnata. «Mi tocca qui… con un dito solo… e poi…» Un piccolo fremito la scosse. Il bacino si mosse appena contro la mano di lui. Anna gemette piano, un suono soffocato.
Si voltò. Si mise a carponi, le mani appoggiate allo schienale del divano, il culo sollevato, la gonna arrotolata sui fianchi. Gli slip tesi tra le labbra gonfie della figa, che luccicava sotto la stoffa. Voltò il viso verso di lui. «Poi mi fa mettere così…» sorrise, timida. «Mi apre le gambe… e mi tocca ancora… più forte…» Spalancò appena le ginocchia, mostrando tutto.
La stoffa degli slip era lucida di umidità. Lui tremava. Il cazzo, incredibilmente, stava tornando duro. Anna si rialzò in ginocchio, avvicinandosi. Prese la sua mano ancora, la fece scivolare tra le labbra gonfie. «A volte…» abbassò lo sguardo. «A volte usa delle cose… tipo… un cetriolo…» Si morsicò il labbro. «Se vuoi… possiamo provarlo…»
Guardò verso la cucina. Poi tornò a fissarlo. «Se vuoi… puoi prenderlo tu… e io ti faccio vedere tutto…» Un soffio. Un veleno dolce. Lui non si mosse subito. Il cervello arrancava dietro il corpo.
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