L’amore; un abisso

di
genere
saffico

Yuko riattaccò il telefono senza eccessiva delusione. Non aveva voglia di chiamare altri amici, sarebbe andata in grotta da sola. Da tempo aspettava una buona occasione per starsene in grotta un po' sola. Poi aveva qualche esplorazione da finire. Non sarebbe stata una gran punta esplorativa, ma più di tutto voleva starsene in pace nella sua grotta.
Si infilò in macchina sorbendo passivamente il traffico per uscire dalla città ed infilarsi in autostrada, poi su per la valle fino al bosco, fuori dal paese. Sulla strada sterrata rallentò e aprì il finestrino. Una ventata di aria fresca le colpì il volto. Spense la radio e si fermò un attimo. Non c'era fretta. Ascoltò i rumori che, ovattati, salivano dalla vallata, tra le tremolanti luci di case e strade lontane nella penombra dell’incipiente tramonto. Lasciò che i profumi della terra umida, delle foglie e dei tronchi scuri ed antichi le accarezzassero i sensi, aspirando voluttuosamente, come per purificarsi dei fumi della città, delle sciocche preoccupazioni di tutti i giorni, degli annosi problemi del mondo “esterno” e chissà di quant’altro forse più inconscio.
Voleva gustarsi ogni momento di quella fuga dalla civiltà. Non doveva raggiungere nulla, dimostrare niente a nessuno. Voleva solo godersi qualche momento a tu per tu con la grotta che sentiva tanto sua.
Poi proseguì fino al terrazzo davanti all’ingresso della miniera, girò già la macchina e scese sgranchendosi le membra. Si avvicinò al bordo del ghiaione rimirando il paesaggio a valle, assecondando un rituale consolidato da anni di punte in quella grotta.
Il secondo ingresso della cavità era lì sotto, già da qualche anno, eppure ancora così ridicolmente giovane rispetto ai millenni che misuravano le gallerie della grotta.
“Potrei anche rifarmi la traversata… In solitaria!” Si ritrovò a pensare.
La grotta era tutta armata, le corde erano già sistemate sui tratti verticali. Poteva andare ovunque.
Con calma e scrupolo si preparò l’attrezzatura e si vestì.
Dovendo procedere da sola, qualunque avventatezza poteva costarle cara e non doveva dimenticare di raddoppiare le misure di sicurezza.
Sapeva che questa puntigliosa e precisa preparazione, altro non era che la scusa per prepararsi psicologicamente alla solitaria, e quando, psicologicamente, si sentì pronta, concluse rapidamente tutto il resto e chiuse l'auto, salutandola con lo spirito dell’ultimo commiato ad un amico, ad un baluardo della civiltà che stava per lasciare, come se stesse partendo per un altro continente o una lunga traversata oceanica.
Infatti la principale difficoltà di una uscita solitaria in grotta, l’ostacolo più grande, non è tecnico, bensì psicologico. Tutta la tecnica, l’impegno fisico, i tempi, si agevolano enormemente da soli, specie se il compagno che manca ha bisogno di appoggio, che sia fisico, tecnico o psicologico.
Assaporò le ultime sensazioni del mondo esterno, quelle che stava per lasciare per un tempo indeterminato, visto che in grotta le ore ed i minuti hanno un valore enormemente differente da quello che hanno sotto il cielo; le ultime luci al tramonto, le opere della civiltà, anche la semplice sensazione di compagnia che queste davano, la fresca brezza delle ultime ore del giorno, carica di odori, la vastità del cielo che cominciava a punteggiarsi di stelle. In grotta non aveva più significato la distinzione tra giorno e notte. Si rizzò in piedi distendendosi: là sotto avrebbe dovuto piegare il capo, rialzandolo solo dopo aver sondato l’altezza del soffitto.
Poi entrò in miniera.
Ora cominciava un’altra storia, un’altra avventura, con nuovi personaggi, ambienti e situazioni. Tutto il resto era alle sue spalle.
Durò poco quella situazione di transizione, che a volte si carica di dispiacere o malinconia, a volte di eccitazione e di impazienza, a volte solo di insicurezza e disagio.
Fu subito rapita dalla pienezza dell’avventura d’amore che stava per vivere con la sua grotta. In fondo, a questo stava andando, un appuntamento d’amore con la fidanzata, nota e familiare, eppure con ancora tanti segreti da svelare. A poco contavano le ingenue scuse di esplorazioni, rilievi ed exploit. Ogni solitaria era per lei solo un’avventura di amore.
Ed il tempo cessò di esistere.
Rumorosamente, gagliardamente, piena di attrezzatura tintinnante, percorse il breve tratto di miniera fino al primo pozzo, la prima verticale, come una fidanzatina che si fa bella e sensuale in vista dell’incontro, e mostra le proprie grazie alle amiche, si ravviva i capelli, solleva il seno, muove le labbra in modo sensuale e sculetta vezzosa.
Ma in vista del primo pozzo la spavalderia lasciò il posto al fascino e al delicato rispetto per ciò che stava incontrando.
Umilmente si riaffacciava di fronte a quel monto segreto, esclusivo e generoso nel suo donarsi dall’immensità dei tempi, dei luoghi e dei significati, alla limitatezza e grettezza di una misera profanatrice con velleità scientifiche per il bene ed il progresso dell’umanità.
Si mise ancora più in rispettoso silenzio, in umile ascolto, aprendo recettivamente i sensi e la mente alle nuove meraviglie che la grotta ancora le avrebbe narrato, a lei sola, come rappresentante di un’umanità evoluta e responsabile.
Come una sacerdotessa che effettua un rituale di iniziazione, accurato e meticoloso, fissò le placchette ai chiodi di ingresso, infilò i moschettoni, poi la corda e ad essa il discensore e si affacciò ai bordi del pozzo, che con un impercettibile alito caldo, la invitava, quasi volendola inghiottire in avvolgenti, soffici coperte di velluto nero.
Fissò i due anelli sulla parete a soffitto, compose il nodo che infilò nei due lucenti moschettoni, e gettò la corda che si dipanò per i 25 metri della verticale col familiare fruscio crescente ed il secco colpo finale.
Lasciò l’animo ondeggiare nelle sensazioni che avvolgono chi sta per staccarsi dal pavimento per appendersi sul nulla, prima di iniziare il gioco del volteggi sul vuoto, spavaldamente incurante delle decine di metri che cercavano di risucchiarla di sotto.
Guardò ancora bene il bordo del pozzo. Lo conosceva millimetro per millimetro. Da lì entrava l’acqua quando il torrente esterno era in piena. L’aveva già presa sulla testa qualche volta. Un sottile strato di concrezione lattescente si depositava sulle più consistenti forme di erosione. Più sotto sapeva esserci qualche delicata stalattite, piccola e fragile, sul grigio della roccia metallifera. Pensò a quante persone si erano affacciate con lei da quel pozzo negli ultimi anni, e quanti metri di grotta inedita e inesplorata si erano portati faticosamente a casa dopo ogni nuova esplorazione, a quanto fango e sudore.
Ma a questa grotta aveva dato tanto. E tanto aveva ricevuto. Non preso o rubato. Era la grotta che aveva dato, consenziente, in risposta al loro primo gesto.
Cominciò a far scorrere la corda nel discensore. Non troppo rapidamente. Oggi non c’era la fretta, oggi non si ululava scendendo a picco nei pozzi per fermarsi di colpo a pochi centimetri dalla fine.
La corda scorreva nel discensore con un sottile fruscio e la grotta prendeva vita al di sotto, man mano che veniva illuminata dal suo impianto di luce ad acetilene.
In alto l’oscurità si rimpadroniva dei luoghi ove poco prima era passata, disegnando il contorno esatto della sezione del pozzo. La verticale scampanava e presto atterrò con elastica leggerezza sui sassi del pavimento.
Il silenzio regnava sovrano e lei non voleva infrangerlo se non con gli ovattati rumori del suo passaggio.
Là, sopra di lei, si allontanava il ramo a monte, teatro di arrampicate e avventure alla ricerca di un’altra uscita. Altri volti, altri tempi, altre sensazioni.
Ricordava gli amici, la fatica, gli scherzi e le immagini di quel tempo passato. Le sensazioni ed i ricordi erano rimasti nell’aria, impregnavano l’atmosfera, parevano scolpiti sulla roccia; le figure scorrevano ai suoi occhi con vivida realtà.
La solitudine ed il silenzio, anche interiore, facilitavano l’evocazione di antiche gesta, slegate dalle zavorre del tempo, e le emozioni si riaffacciavano alla coscienza come se non fosse passata neanche una frazione di tempo.
“La fatica, la sofferenza, quando sono strumento di scoperta o di nuove emozioni, creano sensazioni ed emozioni, stati d’animo, che restano vivi ed immortali in questi luoghi in cui il tempo si ferma; solo ripercorrendo le dimore del buio si possono rivivere intatte e genuine come appena sgorgate dai cuori e dalle menti, come in un film immaginario nei meandri che dall’inconscio si affacciano alla realtà del pensiero cosciente” pensò mentre, staccandosi dalla prima corda, si avvicinava al successivo saltino scavato nella roccia pulita e finemente ruvida.
Accarezzò il calcare apprezzandone la consistenza e la microscopica porosità.
Attaccandosi alla corda si lasciò scivolare nel meandro sottostante, per poi assicurarsi alla corda successiva che si affacciava sul secondo pozzo.
Appesa al canapo riassaporava la sensazione di vuoto e quasi librandosi discese il secondo pozzo roteando lentamente per poi infilarsi nella strettoia della finestra più sotto, tirandosi con la corda di servizio. Ora l'aspettava un tratto molto intenso.
Fuori intanto il sole era calato e le tenebre dal fondovalle risalivano inghiottendo tutto, emissarie di freddo ed incertezza.

Dentro alla grotta, come in un ventre materno, tutto era stabile, immutabile, insensibile ad ogni fenomeno e perturbazione esterna, dando un profondo senso di stabilità e sicurezza.
Scavalcò agilmente la grossa lama depositando il proprio peso in uno scivolo, poi raggiunse la prima corda nel pozzo meandro profondo 34 metri.
In questa calata strettissima tanti erano passati e tutti a denti stretti, masticando insulti, sudando e sputando rabbia, incastrandosi e lacerando tute ed imbragature, scalciando rudemente i sacchi che si bloccavano ad ogni spuntone.
Oggi no.
Non era qui per lottare, ma piuttosto per capire, apprezzare e con umiltà imparare.
Con padronanza si calò nella strettoia calibrando l’equilibrio con i piedi, evitando i contatti ed adattandosi alla morfologia della grotta, senza violenza e brutalità, ma in buona armonia, impersonandosi acqua che scorre, temporanea passeggera e testimone di un mondo antico ed ancora in lenta ed epocale evoluzione, rispettosa di ogni colata di fango o sottile striatura della roccia.
Quasi non si era ancora infangata la tuta, tanto bene conosceva quelle strettoie.
Affrontò con serenità la sequenza: saltino strapiombante, scivolo di fango, la corda che passa in un moschettone deviatore, strapiombo in strettoia, pendolo sotto il tetto, discesa di 4 metri, traversino all’indietro, discesa in spaccata stretta, frazionamento a distanza ravvicinata.
La grotta pareva che annuisse ad ogni metro, assecondando e facilitando il passaggio, ammirata, stupita dal rispetto che questa intrusa umilmente le manifestava.
Qui era il vero incontro delle due personalità, qui nasceva veramente un sentimento di reciproco affetto. E senza sudore, senza nubi di vapore, senza imprecazioni strozzate, senza tonfi e stridori, la speleologa entrava con dolcezza nell’affascinante mondo che le si offriva nuovamente, ancora come la prima volta, virginale ed incontaminato nonostante le decine di passaggi precedenti.
Si stupiva della facilità di quel passaggio, tante volte affrontato con timore e fatica. Forse era solo questione di atteggiamento. Ora era ad un appuntamento d’amore e tutto era diverso, trasformato.
Con leggerezza si mosse sulle lame instabili all’ultimo frazionamento ed il successivo saltino nel vuoto che la depositò dolcemente sul fondo della galleria.
Quanto poteva essere passato? Un minuto? Forse una settimana? Il tempo rimaneva a guardare là sotto, solo temporaneamente risvegliato dalla luce di una tremolante fiammella di acetilene in silenzioso e rapido transito.
Fuori, sotto l’atmosfera aperta, nere nubi si addensavano minacciose. Un freddo vento sollevava le foglie avvolgendole in vortici nell’oscurità rotta solo da sporadici lampi.
Le persone si rinchiudevano in casa sbirciando mestamente dalle finestre, le ultime auto si affrettavano sui ripidi tornanti per non farsi cogliere per strada dal temporale imminente. Il vento imperversava per le vie deserte e tra gli alberi del bosco scacciando ogni calore, ogni luce ed ogni ricordo del tiepido pomeriggio.

Alla base della galleria si mise a scrutare le pareti, alla ricerca di fossili. In quel punto la grotta ne era piena, ma da lì si passava sempre di fretta, lieti di aver superato l’ostacolo in discesa, desiderosi di liberarsene in salita.
Non c’era mai il tempo di dedicarsi alle bellezze intime della grotta, troppo impegnati in desideri di conquista e prevaricazione, pieni di sé, in quello che, anche lì sotto, stava diventando uno sport troppo antropocentrico.
La grotta, dapprima timida e timorosa, schiudeva le sue bellezze, come se fosse stata stimolata nel proprio intimo orgoglio. Lumachine con gusci a spirale di tutte le forme e dimensioni occhieggiavano ovunque, come tanti occhi ciechi che si aprissero per la prima volta intorno allo spettacolo di una luce. Una storia millenaria veniva narrata nell’arcaico linguaggio delle rocce; echi e fugaci immagini di onde e di mari tropicali, di scogliere coralline e di pesci variopinti riapparivano come ombre, sprigionando l’antica energia racchiusa da un sole sbiadito nei ricordi.
Con le sue dita Yuko lambiva questi ricordi incastonati nel tempo, senza sfiorarli, come carezzando fragili ali di farfalle, con profondo stupore.
Poi, come risvegliatasi, sospinta dall’alito della grotta, riprese il cammino chinandosi nella bassa galleria per infilarsi tra le concrezioni; con facile arrampicata si calò da un piccolo salto, in opposizione sulla ruvida roccia, poi tra i blocchi fino alla “sala da Tea”.
Con espressione di rimprovero considerò i resti del carburo di calcio che erano ancora visibili, sebbene ad ogni passaggio cercasse ancora di più di nascondere nel fango i residui di calce spenta. Chi aveva osato sporcare quella grotta che sarebbe sopravvissuta alla memoria dei temporanei visitatori a caccia di gloria? Chi aveva calpestato il capolavoro della natura e del tempo?
Si ricordò poi di quella volta con la grotta in regime di piena, attraversata dalle acque impietose delle piogge esterne, quando l'ambiente, solitamente silenzioso, era loro apparso estremamente vivo, minaccioso nel frastuono del torrente, collerico per l’intrusione, mobile e plastico, in attiva evoluzione.
Erano fuggiti intimoriti lasciando materiale e coraggio appesi ai chiodi, buscandosi una gelida doccia sui due pozzi di ingresso. Non era posto per esseri umani, non quella notte. La grandiosità degli eventi aveva mostrato loro la pochezza e la presunzione del genere umano.
Discese il saltino da 8 metri, un rapido saluto a piccole stalattiti lattescenti e si infilò sinuosamente nella strettoia, senza neanche toccare le pareti. Poi con leggerezza proseguì lungo il meandro che poco a poco sprofondava, risucchiando nell’oscurità anche la poca luce ed i lievi rumori che provocava lei con la leggera progressione, alternando spaccate e piccoli volteggi, studiati e sperimentati molte volte.
Finalmente entrava nella profonda gola in cui continuava la grotta. Con rinnovata emozione superò uno stretto passaggio, cercando di non pensare ai 77 metri di vuoto sotto i suoi stivali lisci. Si appese alla corda con il discensore, godendosi ancora la sensazione di sicurezza che quel capo da 10 mm le dava pur appesa nel vuoto più insondabile, poi si lasciò andare, giù, velocemente nel buio, illuminando le sezioni a forma di mandorla, accompagnata dagli stillicidi che brillavano fugaci al passaggio vicino alla sua fiammella.
Si infilò nella finestra che si apriva nella roccia oltre la metà del pozzo, ondeggiando elasticamente sulla corda. Una fitta pioggia di ghiaia mossa dal suo atterraggio sulla cengia proseguì la sua corsa in fondo alla verticale, ricordandole quanti metri mancavano, con un cupo lontano rimbombo.
Là fuori, intanto, il temporale imperversava. Rombi di tuono si rincorrevano sui versanti della valle preceduti da accecanti bagliori. Cortine di pioggia si abbattevano sulle ghiaie e sul bosco; come artigli graffiavano i fianchi della montagna di calcare e fluorite. Il torrente rombava nella valletta prima deserta, bianco di schiuma e di rabbia, mentre gli alberi, stancamente, chinavano le fronde spogliate dalle foglie.

Dentro la grotta il silenzio era rotto da qualche lontano stillicidio. Yuko attraversò la base del pozzo successivo, la parete di roccia era inghirlandata da migliaia di piccole colonnine luccicanti. Era prossima al ramo attivo, dove scorre perennemente il torrente, e procedendo su un pavimento lucido di concrezioni madreperlacee entrò nella sala della cascata.
Stalattiti grigie e bianche, cerea trasparenza, da secoli vegliavano su quel passaggio, incuranti degli eventi della storia. Il pavimento era lacerato dall’erosione di un profondo meandro che andava verso il fondo, con un torrente che sembrava ingrossato. Con la luce giocò con le concrezioni e le cortine di roccia, sorridendo e scherzando come con dei bambini. Il soffitto si alzava in quel punto in cui due antichi torrenti sotterranei si erano un giorno incontrati per proseguire insieme la loro corsa verso una luce lontana e misteriosa.
Nel ramo attivo il torrente era ingrossato. “Fuori piove” sussurrò nel pensiero, ma le parole presero quasi corpo nella sua immaginazione. Scherzi della solitudine. Gemiti e pianti lontani risuonavano a valle nello stretto meandro, come un intero asilo nido animato dai giochi sonori che l’acqua si concedeva nel regno della tenebra e del silenzio.
Bevve voluttuosamente la fresca acqua, sedendosi ad osservare il continuo fluire nell’eterna opera di dissoluzione e deposizione che le acque governavano in quel tratto di grotta. Lì davanti a lei sedeva una volta Andrea. Una parte di lui rimaneva ancora viva e palpitante in quella grotta ed anche in quel punto. La stessa espressione sicura, il caschetto calato sugli occhi. I ricordi rimanevano intatti.
Ritrovò il laghetto alla base del saltino da 5 metri, scavato in vaschette nel calcare. Ogni centimetro aveva la sua storia. Bevve ancora. Il freddo le scendeva dalla gola fino allo stomaco. Anche lei si sentiva una parte della grotta, ora che era attraversata dalla stessa acqua.
Al paese, fuori, i torrenti invadevano le strade uscendo furibondi dai tombini, nessuna anima in giro. La potenza della natura sferzava le inconsistenti opere dell’uomo. Un paese fantasma subiva passivamente l’ira della natura.

Yuko si infilò nello stretto meandro a valle. Per attraversare quel tratto ci si poteva impiegare poco tempo oppure un’eternità, ci si divertiva o si sudava imprecando, tutto a seconda delle condizioni.
Oggi lei era leggera e passò rapidamente, con divertente progressione, adattando il proprio corpo alla morfologia della grotta. Alla fine salì fino al terrazzino della partenza del pozzo da 30 metri.
Assicurata ai moschettoni, in spaccata aerea raggiunse la corda di discesa e si lasciò calare nell’ampia sala.
Sulla parete opposta trovò la galleria in risalita che voleva esplorare.
Con qualche tentennamento risalì sulla corda infangata, infilandosi in un meandro.
Qui non era mai stata e misurava con lo sguardo ogni centimetro che ora vedeva per la prima volta. Trovò una calata su un pozzetto da 10 metri: un fittone ed una placchetta verde di ruggine era stata lasciata là dalla prima volta che qualcuno si era infilato in quel posto. La sala sottostante era ampia, asciutta ed accogliente. Un buon riparo lontano dalle fredde acque del ramo attivo.
Individuò subito la risalita da esplorare. Un meandro chiuso da una lama strapiombante. Ora, dopo i preliminari di rito, si entrava nel vivo del suo rapporto con quella grotta.
Accarezzò delicatamente la roccia a mani nude, come per chiedere una specie di consenso, sincerandosi nel contempo della tenuta e della consistenza della roccia stessa, con cui stava per misurarsi.
Poi, con naturalezza, in opposizione si sollevò di qualche metro fino alla lama cui si appese. Alzò ancora i piedi spingendosi in alto affacciandosi ad un terrazzino. Con gesti plastici vi montò sopra. Non era stato difficile, chissà come mai i suoi predecessori si erano fermati lì sotto. Non si curò minimamente del fatto che stava arrampicandosi in grotta a 200 metri di profondità, da sola e senza assicurazione e che in caso di incidente sarebbero stati grossi guai. La grotta l'aveva invitata e lei aveva risposto. Forse la cavità stessa le aveva facilitato il transito. Una sequenza di tenerezze reciproche. Salì nella saletta soprastante, ma la galleria chiudeva miserabilmente. Anche uno stretto passaggio in discesa portava solo ad un’altra saletta chiusa. Ben magra esplorazione, ma andava ancora bene così. Di più, da sola, non avrebbe potuto fare. Era tutto alla sua portata ed era soddisfatta del piccolo dono ricevuto. Non le importava molto di trovare chilometri di gallerie nuove. Almeno non quella volta. Riportò su un block notes le misure degli ambienti appena esplorati. Ogni nuovo metro meritava la massima considerazione. Era un piccolo gioiellino a lei sola riservato. Di lì non ci sarebbe passato più nessuno e la memoria di quei momenti e di quei gesti sarebbe rimasta impregnata su quelle pareti, e nella sua mente soltanto, criptica ed indecifrabile per altri. Risalì recuperando corde e moschettoni ritornando alla sala della cascata. La sua amante la stava aspettando per condividere altre emozioni. Acqua fresca di grotta la dissetava, mentre lo sguardo risaliva sulla cascata preparando la mente alla risalita della galleria del ramo attivo.
Fuori il fortunale era passato trascinandosi dietro rumori e paura. Le ultime nubi si dileguavano lasciando squarci di cielo stellato.

Con gli attrezzi da risalita sulla corda raggiunse il chiodo, pendolò incastrandosi nella strettoia e si issò atleticamente sulla corda a monte. Poi su in arrampicata libera nel meandro candidamente concrezionato.
Il tratto che l'aspettava era uno spettacolo di arrampicata libera, ancora di più ora, che era senza i soliti pesanti sacchi. Si arrampicò in alto fino a non scorgere più il torrente, seguendo un immaginario filo di Arianna scolpito nei ricordi di anni, nelle parti più antiche e silenziose del meandro.
Con scioltezza alternava spaccate a passi in opposizione, sgusciando dalle strettoie. La grotta giocava insieme a lei, con anse, restringimenti, concrezioni, improvvisi slarghi, provvide cenge su cui riposare i piedi.
Fuori le stelle ad est sbiadivano, mentre una sfumatura arancione andava delineandosi nella limpida e frizzante aria del mattino imminente.

150 metri più sotto la nipponica seguiva col dito gli strati di diverso colore attraverso cui l’acqua aveva trovato il modo di passare verso le profondità della montagna. Roccia dura, grigia, roccia rossa fossile, friabile, strati grigio-verdi, saponosi, fango secco, una colata di concrezione giallo dorata, sabbie abbandonate da un torrente in un’epoca remota.
Era tempo di scendere a livello del torrente. Aveva ora un appuntamento speciale.
Di soppiatto la scrutò, prima che lei potesse accorgersene.
Voleva vederla come era realmente, quando pensava che nessuno la vedesse. Il flusso di acqua stava diminuendo.
Una profonda pozza del colore dell’acquamarina si stava facendo bella.
Lo stillicidio gocciolava al suo centro, cantando monotonamente; circondato da uno strato di concrezione d’avorio, saldamente ancorato alla roccia grigia, il piccolo specchio d’acqua turchese si godeva la doccia di acqua fresca, accarezzato teneramente dal torrente che lo attraversava.
Yuko guardò a lungo quella macchia di colore, appassionatamente. Il verde turchese sprofondava insondabile e puro dentro alla pozza cilindrica.
Un enorme limpido cristallo di berillo varietà acquamarina fluiva liquidamene riempiendo la profonda sacca nel calcare. Yuko sarebbe rimasta a rimirare quella pozza per ore, senza mai stancarsi, immaginandosi di vederla crescere ed approfondirsi lì sotto ai suoi occhi.
Un gioiello nel gioiello, il cuore profondo della grotta.
Là fuori, all’esterno, nel resto del mondo, la follia umana esplodeva dilagando, ebbra di odio e di rabbia.
La limpida trasparenza della nuova giornata era stata offuscata da fumi di esplosioni; mezzi cingolati avanzavano seminando distruzione, il cielo era percorso da rombi ed aerei, punteggiato dalle macchie di fumo nero della contraerea e dalle scie dei missili terra-aria.
Cosa fosse successo, nessuno realmente lo sapeva. Come al solito non esisteva una ragionevole spiegazione a tutto il disastro che andava consumandosi.
La verde vallata perdeva i suoi connotati, irriconoscibile, profondamente ferita dagli stupidi strumenti di distruzione.

Molto più sotto, dentro alla montagna, come in un universo parallelo, il silenzio era rotto dal monotono fluire del torrente e da qualche stillicidio lì vicino.
La giapponese risalì la corda che la aspettava poco oltre la pozza. Anche lì c’era una galleria da esplorare.
Si appese ad un chiodo per aiutarsi su un gradino esposto e un po’ troppo friabile e presto si trovò su un terrazzino. Proseguì in arrampicata lungo una grossa lama che terminò presto a soffitto. Anche da lì non si proseguiva più. La grotta pareva non voler concedere più metri nuovi.
Yuko capì che doveva accontentarsi. Il messaggio era chiaro. La soddisfazione non si misura in nuovi metri, ma dallo stato d’animo con cui ci si avvicina alla grotta. Bisogna prendere quello che è dato. In fondo c’è solo da ringraziare. Unica testimone anche di quel tratto mai visto da essere umano, rimosse corde e chiodi dalle pareti con serenità interiore. La progressione in solitaria le dava un’atavica forza di spirito, una sorta di sapienza per cui ogni sensazione le appariva come un dono sincero e profondo della sua grotta.
Tornata alla pozza di smeraldo, la salutò affettuosamente e, percorsi pochi metri, si concesse un po’ di riposo nella ampia sala lì vicina, che dalla pozza aveva preso il nome.
Il torrente descriveva alcune anse; sulla spiaggetta di fine ghiaia fluiva dolcemente, indifferente, dopo essere precipitato da una cascata 14 metri. L'esploratrice bevve un po’ di quell’acqua fresca, purificata dalle profondità della terra. Sulla parete oltre il torrente stavano, come in perpetua attesa, decine di fossili color ocra, alcuni incredibilmente conservati. Bastava solo cercarli, avere il tempo di spiare con attenzione la parete, per vederla incredibilmente viva, sentirla narrare la sua storia antica. Quelle conchiglie erano state vive, si erano mosse, avevano respirato. Un’acqua limpida le aveva cullate. Poi per millenni erano rimaste sepolte all’oscuro. Come poteva, lei, ignorare tutto questo? Dopo tutto quel tempo, quegli esseri che erano stati vivi erano di nuovo in contatto con un altro vivente; trasmettevano un segnale, un disperato messaggio di qualcosa dimenticato per millenni e che ora riemergeva, comprensibile, scolpito inequivocabilmente in solida roccia. Come si poteva scappare via da tutto questo per la sola motivazione dell'esplorazione degli spazi? Non si doveva forse esplorare una grotta, un’entità complessa, nella sua interezza, senza trascurare nulla di questa realtà nuova? C’è gente che considera tutto solo con il parametro dei metri nuovi di esplorazione.
Dopo un tempo indeterminato prese la corda che le penzolava di fronte e salì lentamente lungo la verticale successiva, scrutando ancora una volta la parete bagnata dalla cascata dove tempo prima si era arrampicata senza assicurazione sotto la doccia. L’acqua le era colata nelle braccia fino alle ascelle, mentre azzardava spaccate su spuntoni incerti, nell’intento di tenersi fuori dall’acqua per alzarsi verso un disperato appiglio. La grotta l’aveva accolta senza punire la dissolutezza, forse apprezzando il rapporto schietto, senza gli intermediari delle sicure protezioni. In cima al pozzo, arrampicando come a memoria pose i piedi sulle minuscole tacchette, traversando a sinistra per ritornare nel meandro, ben concrezionato.
Fuori finalmente il cannone taceva. Non c’era più nessuno che sparava, più nessuno a cui sparare. L’evidenza della stupidità della guerra era così lampante quanto inutile, senza testimoni.
Un debole vento tentava di cacciare la puzza di bruciato e di polvere da sparo. Ben poche tracce di vita erano rimaste sotto la terra rivoltata e ferita. I cieli erano silenziosi, disabitati, le acque avvelenate.

Yuko percorse un breve tratto finché alcuni rapidi salti le riportarono il torrente sotto gli stivali. Allora risalì ancora due o tre metri fino al pavimento di un’ampia sala dal soffitto insondabile.
Un magnifico posto da bivacco, la confluenza dei due rami attivi, così diversi tra loro. Il ramo stretto che si buttava nel centro della montagna ed il ramo più attivo che dalla montagna scappava con pozzi e lunghi meandri già visitati oltre una risalita da 30 metri nel vuoto.
“Un posto in cui passare volentieri del tempo, in cui meditare un po’, in cui liberare la mente per lasciarla permeare dalle sensazioni e dai suggerimenti dell’ambiente” le venne da pensare. Le sue precedenti emozioni aleggiavano nell’aria, soprattutto lì dove aveva affrontato in risalita, chiodo dopo chiodo, la parete strapiombante, per inseguire in esplorazione l'andamento della grotta che si mostrava e si celava, invitante e suadente, come una ninfa nel bosco al crepuscolo.
“Le arrampicate in artificiale sono sempre delle solitarie, anche quando c’è qualcuno che ti fila le corde” pensò, o forse sussurrò a bassa voce, “sei sempre e comunque da sola a sbucciarti le nocche, a sudare, a pendolare sulle staffe”. In cima era uscita in arrampicata libera, mani e piedi sulla roccia, trascinata nel vuoto dal sacco con il trapano, piena di cordini e di pendagli, e si era sentita abbracciata da morbide braccia, tiepide mani. Lei, lassù per prima, in un tratto di grotta mai visto: un meandro che le si offriva senza veli, la invitava, la corteggiava, lei, da sola, fradicia di fango e sudore, la schiena dolorante, le gambe ancora incredule di poggiare su una superficie dura e stabile. E l’aria fresca le era penetrata nei polmoni quasi dolorosamente, mentre qualche brivido di freddo e di emozione le scorreva lungo la schiena. Una principessa pietrificata, la sua grotta, che aspettava un bacio per ritrovare le sue sembianze perdute; e ora una specie di samurai donna si era presentata ad uno strano appuntamento. La grotta la incantava, la seduceva, mentre Yuko con occhi di bimba la scorgeva per la prima volta, coglieva un fiore non meritato, abbracciandola con lo sguardo velato da lacrime di fatica, fumi di acetilene ed emozione.
Ogni volta sarebbe stata come la prima volta. Lo sapeva ad ogni passaggio. Per questo ci tornava volentieri, soprattutto da sola. Non doveva spiegare a nessuno. Probabilmente non avrebbe potuto. Sarebbe rimasta incompresa, forse derisa.
Dopo aver risalito sulla corda la verticale da 30 metri, percorso un breve meandro, come uno stretto abbraccio, eccola al laghetto sotto il pozzo da 21 metri.
Porose concrezioni arancioni tappezzavano le pareti di fronte a lei, mentre risaliva sulle nuove corde, avvolta dal rumore della cascatella che precipitava dalla sala soprastante. Una specie di grosso esofago rugoso. Un posto ancora pieno di mistero; il pozzo continuava ancora al di sopra della sala per altrettanti metri. Un giorno sarebbe ritornata anche lì. Dopo il frazionamento si affacciò finalmente in una graziosa sala dal pavimento concrezionato. Le pareti erano candide. Il torrentello scorreva a lato, tranquillo e silenzioso, inconsapevole delle grosse verticali che l’attendevano ed in cui si sarebbe buttato. La speleologa si sedette, per guardare, rimirare, ricordare ed apprezzare. In quel posto ci si fermava di ritorno dalle dure punte esplorative, si mangiava e si beveva, commentando i metri nuovi. Chiuse gli occhi immaginandosi di trovarsi in un posto sicuro, come nella propria stanza o nel proprio letto. Passò un tempo inquantificabile.
Fuori la natura si ribellava, stravolgendo i crinali delle montagne, i terreni feriti ed inquinati. Terremoti ed inondazioni cancellavano le deturpazioni umane spazzando con furia i veleni ed i residui bellici. Venti e piogge lavavano i cieli, con saette e vortici, purificando ed inghiottendo i segni dell’umana follia. Finalmente il dominio ed il sopravvento erano ritornati alle forze naturali, che ora rivoltavano e contorcevano la superficie terrestre in una drastica opera purificatrice.

Yuko si rialzò, misurando i gesti con studiata lentezza. Le pareti pulite della sala la avvolgevano come una coltre protettrice. Tornò a vedere i minuti particolari che arricchivano la sala: il piccolo scheletro concrezionato, la candida colata di calcite da un arrivo secondario, le pietre saldate al pavimento che contornavano il torrente, le cortine di roccia che davano un aspetto quasi labirintico alla sala, il laghetto alla base del salto successivo. Poi proseguì appesa alle corde, risalì velocemente un breve salto, affrontando con plasticità i successivi saltini che portavano sotto un pozzetto cilindrico. Con un’agile spaccata fu presto al di sopra, infilandosi in un lungo meandro che, alternando strettoie, anse e salti, con entusiasmante progressione, la portò ad una zona riccamente concrezionata. Le stalattiti occhieggiavano al di sopra di lei. Sembrava che volessero nascondersi quando le illuminava, scomparendo rapidamente come in un gioco di bambini. Subito dopo arrivò all’ultima sala, con il pozzo da 14 metri raggiunto per la prima volta sotto i siderali auspici di una elegante cometa.
Nel mondo esterno era ritornata la pace e una tenera erbetta ricominciava a popolare i pendii delle montagne, troppo a lungo devastati da agenti avversi. Qualche animale scampato al terribile olocausto si riaffacciava timido, abbeverandosi al fiume, mentre una nuova generazione di uomini, armoniosamente riedificava piccole abitazioni.

Salita sulla verticale, la speleologa arrivò alla cima del pozzo inoltrandosi in arrampicata libera sui due saltini successivi. Cominciava a percepire l’aria che arrivava fresca dall’esterno, dal secondo ingresso, trovando con sicurezza la strada nella zona labirintica, invasa dai sassi arrotondati di un antico torrente. Un paio di strettoie da affrontare senza fretta e si trovò ancora in piedi dopo gli ultimi metri a gattoni. Ormai era prossima all'uscita e non aveva fretta di finire questa splendida avventura; sentiva già quasi una specie di nostalgia ed il desiderio di rimanere ancora un po’ in quegli spazi così grandiosamente indifferenti agli eventi esterni, ritagliati in una diversa dimensione di spazio e tempo, con un metro ed un orologio a sé stanti. La sua avventura d’amore volgeva però alla fine e sarebbe rimasta non conclusa se non fosse uscita di nuovo sotto il cielo soleggiato. Si sentiva rinnovata e ricca di sensazioni che non poteva contenere solo per sé. Doveva in qualche modo esprimerle, raccontarle, o forse anche semplicemente reinvestirle in uno stato d’animo più ricco e disponibile, aprendosi agli altri.
Con leggerezza si arrampicò sui ripidi gradoni che offrivano ancora una progressione divertente e rilassata. Si avvicinava il momento in cui sarebbe stata come partorita dalla grotta, verso una nuova luce, una nuova vita. Sdraiata nelle strettoie del secondo ingresso si lasciò sferzare dall’aria frizzante che arrivava vigorosa da fuori. La fiammella sul suo caschetto tentennò lamentandosi, ma ormai era questione di poco.
La luce ormai filtrava abbagliante dall'ingresso. Anche questa volta, come ogni volta, qualunque cosa fosse successa nel mondo esterno durante la sua permanenza in grotta, grazie allo stato d’animo rigenerato e purificato, avrebbe trovato un mondo migliore.

Dedicato a tutti coloro per cui l’andare in grotta non è strumento della propria affermazione, ma una commuovente avventura emotiva.
di
scritto il
2021-04-10
2 . 4 K visite
Segnala abuso in questo racconto erotico

commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.