La visita…proibita! - parte 1

di
genere
prime esperienze

La porta dello studio medico si chiuse alle spalle di Sofia con un click definitivo, isolandola dal rumore ovattato della sala d’attesa. L’odore asettico di disinfettante e cotone sterile le solleticò le narici, mescolandosi al profumo legnoso del dopobarba del dottore. Lo studio era immerso in una luce calda, filtrata dalle tende beige che coprivano la finestra, e l’unico suono era il ticchettio lento dell’orologio a parete. Al centro della stanza, il lettino ginecologico, rivestito di pelle nera lucida, sembrava attendere con una presenza quasi minacciosa.

Sofia esitò un istante, un nodo di ansia che le stringeva lo stomaco. Le dita, leggermente umide, si attorcigliavano nervose e incessantemente intorno all’orlo slabbrato della maglietta. Era arrivata di corsa, direttamente dalla sessione di allenamento, e indossava ancora i leggings neri, un tessuto tecnico che si tendeva aderente sulle linee muscolose delle sue cosce toniche, frutto di anni di disciplina sportiva. La parte superiore era coperta solo da una canottiera bianca in cotone leggero, che si sollevava appena con il respiro rapido, lasciando intravedere le spalline più scure del reggiseno sportivo che sosteneva il suo seno con fermezza.

L’aria nell’ufficio del dottor Moretti era densa, satura di un misto di disinfettante e odore di carta vecchia. La luce fluorescente del soffitto illuminava impietosamente ogni granello di polvere sospeso.

Il dottor Moretti era seduto composto e immobile dietro la sua ampia scrivania di legno scuro. Non c’era nulla di superfluo sul piano: solo un portapenne ordinato e una cartella clinica aperta. Le sue mani, che sembravano incredibilmente grandi e forti, erano intrecciate con precisione sul bordo della scrivania, formando una specie di barriera silenziosa. I suoi occhi, di una tonalità nocciola profonda e indefinibile, erano fissi su di lei con un’intensità che andava oltre la semplice osservazione clinica. Quello sguardo, penetrante e privo di giudizio, le fece salire un improvviso e inaspettato calore alle guance, un rossore che si estese fino alla base del collo, tradendo il suo disagio interiore. Era lì per una consulenza, ma la formalità della situazione e la serietà dell’uomo le rendevano difficile persino articolare un saluto.

«Prego, Sofia, accomodati», disse lui, la voce bassa e vellutata, quasi un sussurro. «Abbiamo poco tempo, e tua madre aspetta fuori.»

Le parole le ricordarono il motivo per cui era lì: un controllo di routine, niente di più. Eppure, lo sguardo del medico le scivolò addosso come una carezza, indugiando un secondo troppo a lungo sulle sue gambe, sul modo in cui i muscoli si tendevano sotto il tessuto stretto. Sofia deglutì, sentendo il battito del cuore accelerare. Si avvicinò al lettino, le scarpe da ginnastica che scricchiolavano leggermente sul pavimento pulito.

«Devo… spogliarmi?» chiese, la voce appena un filo tremante.
Il dottor Moretti si alzò, la sedia che strusciò indietro con un rumore secco. Era alto, imponente, la camicia bianca impeccabile che aderiva al torace scolpito, i bottoni delle maniche arrotolati fino ai gomiti per rivelare avambracci muscolosi cosparsi di una peluria scura. Si avvicinò con passi misurati, il profumo del suo dopobarba—qualcosa di speziato, mascolino—che si faceva più intenso.

«Solo la parte inferiore», rispose, la voce carica di una calma professionale che strideva con il fuoco nei suoi occhi. «Puoi tenere la maglietta. Per ora.»

Per ora. Quelle parole le risuonarono nella testa mentre si sfilava i leggings, sentendo l’aria fresca della stanza accarezzarle la pelle nuda. Si sdraiò sul lettino, i talloni che affondavano nei supporti metallici freddi, le ginocchia che si aprivano lentamente, esponendola. Il camice di carta che le avevano dato prima le scricchiolava addosso, troppo largo, troppo impersonale. Si sentiva vulnerabile. Esposta. E, in un angolo remoto della sua mente, eccitata.

Il dottor Moretti si lavò le mani nel lavandino d’acciaio, il sapone che schiumava tra le dita lunghe e affusolate. Sofia non riuscì a distogliere lo sguardo dal modo in cui i muscoli delle sue braccia si flettevano sotto la camicia, dal modo in cui la luce giocava sul neo scuro appena sotto il lobo dell’orecchio sinistro. Quando si voltò verso di lei, aveva già indossato i guanti in lattice, che scricchiolarono leggermente mentre si avvicinava.

«Relax, Sofia», mormorò, la voce così vicina che lei sentì il suo respiro caldo sul ginocchio. «È solo un esame di routine.»


Le sue mani si posarono sull’interno delle sue cosce, la pressione ferma, possessiva. Sofia trasalì, un brivido che le percorse la schiena. Le dita del medico erano calde anche attraverso il lattice, la pelle ruvida che contrastava con la morbidezza dei guanti. Lui non si mosse subito. Rimase lì, a osservarla, come se stesse memorizzando ogni dettaglio della sua reazione.
«Hai mai fatto un esame così prima d’ora?» chiese a voce bassa, la sua voce ridotta a un sussurro roca che sembrava vibrare nell'aria tesa. Le dita, lunghe e affusolate, che avevano iniziato la loro esplorazione con una leggerezza quasi eterea, ora intensificavano la loro pressione e il loro intento, disegnando un percorso lento e deliberato.

Risalivano, abbandonando la morbidezza del fianco per avventurarsi oltre, tracciando la linea sottile e sensibile che conduceva inesorabilmente verso il centro del suo corpo, il luogo dove l'attesa e il desiderio si condensavano. Ogni tocco sembrava misurato, un’interrogazione silenziosa che non richiedeva una risposta immediata, ma piuttosto una reazione fisica, un fremito che le percorreva la schiena. L'aria nella stanza era densa di un’elettricità palpabile, e la domanda, apparentemente innocua, era in realtà un invito implicito, una sfida sussurrata tra il professionista e il paziente, o forse qualcosa di molto meno formale e molto più intimo.

Sofia scosse la testa, le labbra secche. «No.»

«Allora lascia che ti guidi.» La sua voce era un sussurro roco, quasi un ordine. Le dita raggiunsero il suo sesso, e Sofia trattenne il fiato quando lui premette leggermente, esplorando. Non era doloroso. Non era nemmeno scomodo. Era… intimo. Troppo intimo. Le sue labbra erano già umide, il corpo che rispondeva senza il suo permesso.

«Vedo che sei già… preparata», commentò il dottor Moretti, la voce carica di un sottinteso che le fece contrarre lo stomaco. «È normale, sai. Il corpo sa cosa vuole.»

Le sue dita scivolarono più in profondità, separando le pieghe della sua figa con una precisione clinica che non aveva nulla di clinico. Sofia gemette, un suono soffocato, le mani che si aggrappavano ai bordi del lettino. Il camice di carta le sembrò improvvisamente troppo stretto, i capezzoli duri che premevano contro il tessuto sottile, doloranti.

«Dottore, io…» cominciò, ma le parole le morirono in gola quando lui trovò il suo clitoride, già gonfio e sensibile. Un dito—no, due—si mossero in cerchi lenti, tortuosi, la pressione perfetta, implacabile.

«Sssh», la zittì lui, la voce un ordine vellutato. «Non parlare. Senti.»

E Sofia sentì. Oh Dio, sentì ogni cosa. Il modo in cui le sue dita scivolavano dentro di lei, affondando nella sua umidità bollente, il lattice che frusciava ad ogni movimento. Il modo in cui il suo pollice premeva sul clitoride, disegnando cerchi sempre più stretti, sempre più insistenti. Il modo in cui il suo respiro si faceva affannoso, i muscoli delle cosce che tremavano per lo sforzo di rimanere aperti, esposti, sottomessi.

«Sei così stretta», mormorò lui, la voce rauca, quasi meravigliata, un suono profondo che vibrava nell'aria carica di desiderio. Il suo respiro era caldo contro la pelle sensibile di lei, una carezza che non faceva che accendere ulteriormente la fiamma che già ardeva tra loro. Le sue dita si muovevano con una lentezza calcolata, esplorando con delicatezza e sapienza ogni curva e ogni reazione.

«E così bagnata», continuò, un sorriso appena accennato che lei non poteva vedere, ma che sentiva nel tono trionfante e soddisfatto della sua voce. «Dolce e abbondante. Una cascata che non accenna a diminuire. Riesco a sentirla fluire, Sofia».

La mano di lui era ferma e allo stesso tempo incredibilmente sensibile, ogni movimento un'onda di piacere crescente che la travolgeva. Sofia, con gli occhi chiusi, trattenne il respiro, la testa inclinata all'indietro contro i cuscini, in balia di quelle sensazioni. Non riusciva a parlare, solo un piccolo, strozzato gemito le sfuggì dalle labbra, una melodia sommessa e inequivocabile che confermava ogni sua parola.

Lui si chinò ancora di più, il suo viso vicino al suo orecchio. «È per me, Sofia?» sussurrò, la domanda un soffio caldo e intimo, un invito, una provocazione. «È per le mie dita che sei così? È la mia presenza, il mio tocco, che ti fa ardere a questo modo?»

Le sue dita si mossero ancora, un ritmo sapiente e incalzante che la portò sull'orlo del baratro. Sentiva il calore, l'umidità, la stretta prepotente che la sua intimità esercitava intorno alla sua mano. Era una risposta muta, ma chiara, una confessione senza bisogno di parole. E la consapevolezza del suo potere, il fatto di essere la causa di quel piacere così intenso, lo eccitava oltre ogni misura. Voleva sentirlo dire, voleva che lei ammettesse, a parole, che era suo, completamente sua, in quel momento.

«Dimmi di sì, piccola», la esortò, il suono rauco della sua voce quasi una supplica. «Dimmi che sono io la ragione di tutto questo».

Lei non rispose. Non poteva rispondere. Le parole erano intrappolate in gola, sostituite da gemiti soffocati, da respiri spezzati. Le sue unghie graffiavano la pelle sintentica del lettino, il corpo che si inarcava verso di lui, disperato, affamato.

«Dottore, io… non credo di poter… resistere», ansimò, le parole che le sfuggivano a scatti.

Il dottor Moretti emise un suono basso, gutturale, che a malapena superava il rumore ritmico e ovattato della strumentazione nella stanza, un suono che a Sofia parve più un ringhio di soddisfazione che un semplice sospiro. I suoi occhi scuri, solitamente professionali e distaccati, ora brillavano di un'intensità quasi febbrile, fissi su di lei con una possessività che le fece contrarre lo stomaco.

«Non devi resistere, Sofia», sussurrò, e la sua voce non era più quella rassicurante e clinica a cui era abituata. Ora era diversa, un filo di seta nero, sottile e pericoloso, che si avvolgeva attorno alla sua volontà, stringendosi. Era un comando mascherato da incoraggiamento, una direttiva che le ordinava di abbassare le difese, di cedere. «Lascati andare. Hai fatto abbastanza. Non c'è nulla di sbagliato in quello che provi.»

La mano di Moretti si mosse, lenta e deliberata, i polpastrelli esperti che le tracciavano i contorni interni della coscia, risalendo con una pressione che non era dolorosa, ma decisamente invasiva. La punta delle sue dita sfiorò il punto più sensibile, e Sofia emise un gemito strozzato che le morì in gola.

«Voglio vederti venire sulle mie dita», continuò Moretti, la sua voce ora poco più di una vibrazione roca e profonda che le arrivava direttamente al centro dell'essere. Era una dichiarazione esplicita, cruda, che distruggeva ogni residuo di formalità tra loro. Il suo respiro le sfiorava l'orecchio, caldo e pesante. «Mostrami quanto sei brava, Sofia. Mostrami che sei mia.»

E fu quello a spezzarla. Le sue parole. Il suo tono. La promessa oscura nei suoi occhi mentre aumentava il ritmo, le dita che si muovevano dentro di lei con una precisione crudele, il pollice che schiacciava il suo clitoride fino a farle vedere le stelle.

«Oh Dio—» Il grido le sfuggì dalle labbra, un gemito strozzato che non avrebbe mai dovuto lasciare la sua gola, soffocato all'istante dal cuscino di piume d'oca che lui le premette con una forza sorprendentemente dolce contro la faccia. L'aria le si bloccò nei polmoni, ma non le importava. In quel momento, l'unica cosa che contava era la pressione crescente, la scarica elettrica che le stava attraversando il corpo. Le anche si inarcarono con una volontà propria, sollevandosi dal lettino di fredda pelle con un piccolo thump, i muscoli che si contorcevano e si contraevano come un nodo attorno alle sue dita. Stringevano, pulsavano, e poi, con uno spasmo finale, inondavano.

L'orgasmo la travolse non come una singola onda, ma come un tsunami, violento, inarrestabile e totalizzante. Era un'esplosione, il piacere che le deflagrava tra le gambe con la potenza di un interruttore generale che si stacca. Sentiva le dita conficcarsi nella pelle dei palmi chiusi, il corpo scosso da tremiti incontrollabili, una scossa tellurica che la lasciava bagnata di sudore e umori, completamente indifesa e, in quel momento, irrimediabilmente sua. Ogni fibra del suo essere gridava il suo nome in silenzio, mentre il mondo si riduceva al ritmo accelerato del suo cuore e al profumo della sua pelle. Era finita. Ed era solo l'inizio.

Il dottor Moretti non si fermò subito. L'intensità del momento era palpabile, un filo teso tra il piacere e l'esaurimento. Continuò a muovere le dita dentro di lei con un ritmo sapiente, una miscela di dolcezza e pressione che prolungava l'agonia estatica. Il mondo si era ridotto alla sensazione delle sue carezze, al calore che si irradiava dal loro punto di contatto. Moretti era un maestro nell'arte di allungare l’orgasmo, di tirare la corda fino al punto di rottura, ma senza mai spezzarla del tutto.

Sofia era intrappolata in quella morsa di piacere prolungato. Ogni spinta, ogni sfregamento, la spingeva più a fondo in un baratro di sensazioni inebrianti. Le lacrime premevano agli angoli dei suoi occhi chiusi, non di dolore, ma per l'eccesso di una gioia così intensa da rasentare la sofferenza. La sua volontà era ormai dissolta, lasciando spazio solo alla pura reazione fisica.

Moretti la tenne così, al culmine, fino a quando Sofia non fu ridotta a un tremito inerte. Il suo corpo, prima rigido per la tensione, si abbandonò, scosso da piccoli spasmi involontari che le percorrevano la schiena e le gambe. Le sue mani, che avevano stretto le lenzuola con forza, si aprirono mollemente. Il respiro era affannoso, un ansimare spezzato che riempiva il silenzio della stanza, testimone muto della violenza emotiva e fisica che l'aveva travolta.

Solo allora, quando fu certo di averla svuotata di ogni energia e resistenza, il dottor Moretti si ritirò. Lo fece lentamente, con una deliberazione quasi crudele, come se stesse assaporando ogni ultimo istante, ogni ultimo sussulto della sua sottomissione. Le sue dita scivolarono via, lasciando dietro di sé una scia di calore umido e un vuoto incolmabile, ma anche la quiete che segue una tempesta perfetta. La soddisfazione nei suoi occhi, mentre la osservava riprendersi, era innegabile, la firma di un lavoro ben eseguito.

Si sfilò i guanti con uno snap elastico e perentorio, il suono secco che rompeva il silenzio denso di una tensione appena allentata. Gli occhi, scuri e penetranti, erano fissi su di lei, assorbendo ogni dettaglio della sua reazione, ogni minimo tremore o sospiro. Il lattice, ora appallottolato e lucido di una sostanza che non lasciava dubbi sulla natura del loro scambio, si contorceva tra le sue dita con un'aria quasi liquida e maliziosa. Il suo sguardo non era solo di apprezzamento, ma di un possesso profondo, una tacita rivendicazione di quel trionfo.

«Brava ragazza», mormorò, e la sua voce non era una carezza, ma un comando velato, un'affermazione. Era roca, bassa, risuonando con l'eco di una soddisfazione intensa e quasi cupa. Non era la lode di un amante, ma il riconoscimento di un padrone che ha ottenuto la perfetta sottomissione. «Molto brava.» Le parole erano piene di un piacere oscuro, un'oscura gioia nel constatare che lei aveva superato le sue aspettative, raggiungendo quel limite dove il piacere si fonde con la resa. La sua espressione era un misto di trionfo e di una quieta, predatrice aspettativa per il prossimo atto, e lei capì che quella lode, per quanto breve, era il sigillo di un vincolo che si era appena rafforzato.

Sofia lo guardò, le palpebre pesanti, il corpo ancora scosso da brividi post-orgasmici. Lui era lì, sopra di lei, il petto che si alzava e abbassava con un respiro appena accelerato, gli occhi che bruciavano di un desiderio che non faceva nulla per nascondere. Si chinò, le labbra a un soffio dal suo orecchio.

«Ora», sussurrò, la voce un filo di fumo nero che le avvolgeva la mente, «vediamo cosa altro possiamo fare per te.»

Nella sala d'attesa, la madre di Sofia gettò un'altra occhiata all'orologio – la terza in cinque minuti – senza minimamente sospettare cosa stesse succedendo al di là di quella porta chiusa, erano passati solo cinque dei quarantacinque minuti previsti della visita standard.
scritto il
2025-12-22
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