In campeggio

di
genere
etero

Quando Silvia mi vide, stavo ancora sistemando l’ultimo pezzo del mio zaino. Il telo della canadese era già piegato, il sacco a pelo arrotolato stretto, e il mio zaino tattico chiuso con precisione militare. Avevo preparato il caffè sul fornellino, bevuto lentamente mentre l’aria ancora fresca del mattino mi accarezzava la pelle nuda sotto la t-shirt, e poi fatto colazione con pane, marmellata e un senso leggero di malinconia. Speravo di sgattaiolare via all’inglese, ma lei – Silvia – era già sveglia. Curioso. La sera prima si era fatto tardi, tra vino, chiacchiere e occhiate sottintese. Eppure eccola lì, in shorts e canottiera, con il seno che si muoveva libero sotto il cotone leggero, a fissarmi con uno sguardo tra lo stupito e il curioso.
«Te ne vai?» domandò, con quella voce roca appena sveglia. Sembrava quasi delusa.
Domanda stupida, ma necessaria. Sì, me ne andavo. Quattro giorni in campeggio, circondato da coppiette appiccicate e ragazze che sembravano impermeabili a qualsiasi tentativo di seduzione. Neanche Giulia, che pure mi piaceva davvero. La sua pelle olivastra, il corpo snello da nuotatrice pigra, le unghie smaltate di rosso che contrastavano con quei fianchi pieni, da donna vera. Ma niente. Nessuna scintilla. Lei, come tutte, sembrava sempre sul punto di concedersi ma poi svaniva. Silvia invece mi guardava come se solo adesso si accorgesse della mia esistenza. Forse perché, ora che me ne stavo andando, diventavo interessante. O forse perché – a parte Giulia - era rimasta l’unica “non accoppiata” del gruppo. Rimase in silenzio qualche istante, poi disse:
«Ma... Giulia non ti piaceva?»
La guardai. Aveva un’aria innocente, ma le pupille tradivano qualcosa di più. Un gioco?
«Mi piaceva, certo che sì.» risposi, «Ma non è scattato niente, nessuna scintilla, solo simpatia. E poi ieri pomeriggio sono arrivati gli olandesi». Silvia sorrise appena, un angolo della bocca che si sollevava, come se sapesse già la verità: non era questione di "scintilla", ma di tempismo. E il mio tempo era scaduto. In effetti il gruppo di ragazzi olandesi non era passato inosservato: bei ragazzi biondi e atletici, sempre con la lattina di birra in mano ma appetibili per le ragazze del gruppo. Uno suonava pure la chitarra, quindi legare con loro non era stato difficile. Si, questione di tempismo: se fossi stato meno timido il giorno prima forse ce l’avrei fatta, ma ora la concorrenza mi escludeva dal mercato. Nel frattempo continuai a legare il sacco tenda al mio zaino, ma lei rimase lì, in piedi, scalza, le gambe scoperte, lo sguardo che mi seguiva in ogni movimento. Poi si avvicinò di un passo.
«Se insistessi con Giulia... magari...» fece una pausa, «...o magari ti stai sbagliando persona.»
Le sue parole erano lievi, ma dense. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Silvia era lì, sola, curiosamente sveglia all’alba, e troppo vicina. Forse era lei che mi stava cercando da giorni, in silenzio, tra sguardi rapidi e mezze frasi, e io non l’avevo capito. E’ un classico: quando miri a un obiettivo ideale non ti accorgi di averne già uno a portata di mano. Stavo per dire qualcosa, ma in quel momento la cerniera di una tenda si abbassò rumorosamente. Ne uscì uno degli olandesi arrivati il giorno prima, alto, biondo, in boxer, con gli occhi ancora impastati di sonno. E veniva fuori proprio dalla tenda di Giulia. Silvia rimase senza parole. Anche a me sfuggì un’espressione a metà tra il compiaciuto e lo sconfitto. Così era andata. La "gatta morta" aveva graffiato subito, la sera prima, e non con me. Dalla tenda, la voce di Giulia arrivò chiara, con quell’inconfondibile accento pugliese, mentre rideva con tono intimo. Impossibile sbagliarsi: aveva passato la notte insieme all’olandese.
Mi voltai di spalle e infilai lo zaino. Non avevo più niente da dire. Ma Silvia mi trattenne.
«Aspetta.» La sua voce era un sussurro ora. Non più una domanda. Un invito.
Mi voltai. Lei mi guardava in un modo diverso. L’aria del mattino sembrava più calda, la luce tra le tende più morbida, quasi liquida. Silvia fece un passo avanti. I suoi occhi si piantarono nei miei, senza più esitazione. Fece una pausa, aprendo leggermente le labbra.
«Non voglio che te ne vai senza... salutarmi.» Sottolineò l’ultima parola, quasi gustandola.
Ci fu un silenzio lungo e pieno. Poi, come guidato da qualcosa di istintivo, allungai la mano e la sfiorai sul fianco, sentendo un brivido. Il suo corpo era proporzionato e tonico, i lineamenti quelli classici di una bruna ragazza meridionale. La sua pelle era calda, viva. Lei non si mosse. Solo chiuse gli occhi per un secondo, appena. E poi fu tutto lento e veloce insieme. La presi per la vita, lei si lasciò avvicinare, le nostre bocche si trovarono e si cercarono con fame. La sua lingua era dolce e salata, le mani rapide, curiose. Ci baciammo come se quel momento avesse aspettato giorni per esistere. Come se il campeggio intorno fosse sparito. Silvia mi fece cenno di seguirla dietro la sua tenda, dove l’erba era ancora bagnata di rugiada. Mi tirò giù lo zaino, si abbassò lei stessa, le dita che già si muovevano agili sulla cintura. Le sue mani erano decise, impazienti. E la sua bocca...
Nel frattempo il sole si alzava, e con lui la voglia di restare ancora un po’. Magari solo un giorno. Magari solo per lei. Soprattutto per lei. Tirandosi su la canottiera il seno scoperto mostrava due capezzoli duri, pronti per essere leccati intorno all’areola dalla mia lingua. L’odore della pelle lo respiravo profondamente, anche le ascelle sudate erano un invito all’amore. Gli occhiali se li era levati e mi guardava fissa. Chiusi gli occhi e la baciai con la lingua mentre le sue braccia mi cingevano le spalle nude. Mi fece allora cenno di entrare in tenda, la sua la divideva con un’amica e quindi era più spaziosa della mia. Era il momento di levarsi tutto, io ero ancora bardato per la partenza, lei ci mise poco per buttare da una parte la canottiera, poi gli short e infine gli slip. Scalza lo era da prima, ma le guardavo ora gambe e piedi in modo diverso, neanche mi ero accorto dello smalto rosso sulle unghie e delle caviglie tornite. Respiravo lentamente e non aspettavo altro che me lo prendesse in mano, cosa che fece fissandomi negli occhi. Immaginavo che la sua fica fosse già bagnata, ma aspettavo a metterci la mano. Mi prese allora il polso e mi guidò le dita dentro le grandi e piccole labbra. Dovevo far piano, anche se l’istinto mi spingeva ad essere più energico. Feci bene: voleva che prima gliela leccassi e ci sdraiammo per un lento 69 di fianco. Era più che un lento pompino: le piaceva sentirlo crescere in bocca mentre con la testa stretta fra le sue cosce la mia lingua scorreva delicatamente sulla fica aperta. Per fortuna era poco pelosa, quindi potevo lavorarmela senza dover sputare peli ricci. Aveva un odore forte, intenso, che a qualcuno poteva anche dar fastidio, ma che invece mi eccitava da matti. Quando poi passai la punta della lingua sul clitoride – finora avevo lavorato “di piatto” – capii che era ormai arrivato il momento di accoppiarmi con lei: il bacio intimo era diventato un pompino e, lavorato dalla sua bocca, il timido uccellino era diventato un bastone di carne rossa. La fica era ormai bagnata, praticamente gocciolava. Lei spalancò le gambe e aprì la bocca, aspettando solo che entrassi dentro di lei. Facile, era più che lubrificata e iniziai a scoparla prima lentamente, poi con sempre più ritmo ed energia. Quando iniziò a stringere le dita dei piedi capii che stava per avere un orgasmo, il suo respiro rotto mi eccitava ancora di più- Lei tirò indietro le gambe divaricate fermandole con le braccia e mostrando apertamente l’interno rosa della fica. Era il segnale: voleva colpi duri fino in fondo all’utero e poco importa se eravamo bagnati di sudore, anzi meglio. Per fortuna non urlava, visto che da una tenda si sente tutto. Saremo andati avanti per mezz’ora – chi guarda l’orologio? – incuranti del sole che ormai batteva sulla tenda e degli amici che forse si erano ormai alzati. Nel frattempo le sue pupille si erano rovesciate all’indietro e ansimava a bocca aperta mentre continuavo a scoparla aumentando il ritmo, sempre più veloce. Al momento di venirle dentro – non avevamo profilattici – lo tirai lentamente fuori e lei lo baciò e iniziò a masturbarlo stringendolo con forza e guardandomi negli occhi. Quando le schizzai lo sperma in mezzo al seno – un getto caldo, improvviso - le massaggiai poppe e capezzoli. Da un lato mi vergognavo di aver eiaculato fuori della fica come nei film porno, ma senza protezione non era il caso di rischiare di metterla incinta, almeno per ora. Silvia era giovane e doveva ancora laurearsi e non credo prendesse la pillola: nel suo gruppo di campeggiatori ero entrato da tre giorni e quindi la conoscevo poco. In ogni caso rimandai la mia partenza: in fondo avevo trovato quello che cercavo e non era il caso di recitare la parte del cavaliere della valle solitaria. Se sei timido e trovi una ragazza che ti vuole bene e te la dà pure, tienitela stretta e costruisci un futuro insieme a lei, fosse anche per una breve, intensa settimana.
scritto il
2025-05-31
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