Sonia & Tommaso - Capitolo 10 L'Abisso della Cascina Lercia
di
Sonia e Tommaso
genere
dominazione
Mario ed Enzo scesero, e io li seguii, le gambe ancora tremanti per quello che era appena successo sul sedile posteriore. Tommaso, il povero Tommaso, rimase in macchina, la testa ciondolante.
«Per sicurezza,» disse Enzo, con un sorriso che non prometteva nulla di buono, «lo leghiamo come un salame.» E così fecero. Lo tirarono fuori dall'auto senza alcuna delicatezza, lo adagiarono a terra e, con delle corde che sembravano avere già uno scopo preciso, lo immobilizzarono. Lo legarono con cura, assicurandolo all'unico albero solitario del cortile. Tommaso era completamente fuori gioco, un peso morto, e la sua inerme presenza mi fece sentire un misto di colpa e una perversa, innegabile eccitazione. Il mio fidanzato, ridotto a un oggetto inanimato, era l'ultimo, osceno tocco di quella notte.
Una volta dentro la cascina, la luce fioca illuminava il divano che ormai conoscevo fin troppo bene. Era lì che ero stata usata, lì che avevo iniziato la mia discesa nel piacere proibito. E ora, sapevo che sarebbe successo di nuovo.
«Ora è il mio turno, puttanella,» mi disse Enzo, il suo sguardo che mi spogliava. Sentii un brivido freddo e al tempo stesso rovente percorrermi la schiena.
Mi spinse senza delicatezza sul divano, e io mi misi a quattro zampe, le mani che affondavano nel tessuto consunto. Enzo si avvicinò, e sentii il suo respiro caldo sul mio culetto. Poi, come la volta scorsa, un odore forte, quasi rancido, mi invase le narici. Era lo strutto animale. Lo sentii spalmarsi sulla mia carne, freddo e unto, preparandomi per l'invasione. La sensazione era disgustosa, eppure la mia fica si bagnò ancora di più, anticipando il dolore e il piacere che avrebbero seguito.
«Apri bene il culetto, cagna che non sei altro,» mi ordinò, e io obbedii, sentendo i muscoli che si rilassavano quasi da soli. Senza alcun preambolo, senza pietà, Enzo mi penetrò. Il suo cazzo entrò con forza, un dolore acuto che si trasformò subito in una fitta di piacere. Era una violenza, sì, ma una violenza che la mia anima perversa desiderava. Gemevo, le mie unghie che si conficcavano nel divano, mentre lui mi inculava senza ritegno, spingendo a fondo, tirandomi i capelli per farmi inarcare la schiena. Ogni affondo mi faceva godere, mi portava più a fondo in quel baratro di libidine.
Poi, sentii la voce di Mario. «Ora tocca a me, voglio provare anch'io il tuo culetto.» Un brivido mi percorse. Il suo cazzo era molto più grosso di quello di Enzo. Ma non mi importava. Anzi, il pensiero di quella dimensione, di quella pienezza, mi eccitava da morire. Enzo si sfilò, lasciandomi la sensazione di vuoto e pienezza al tempo stesso. E Mario prese il suo posto.
Sentii il suo cazzo massiccio premere contro il mio ano, poi spingere, lentamente, dolorosamente, ma con una determinazione che mi fece gemere. La mia carne si lacerava, ma il dolore era un preludio a un piacere ancora più intenso. «Avanti, spingi!» incitai, la mia voce roca, quasi irriconoscibile. «Fallo entrare tutto, Mario! Inculami, ti prego! Fatela godere questa puttana!» Ero io ad incitarlo, a chiedere di più, a implorare quella violenza che mi stava portando all'estasi.
La mia libidine era esplosa, una marea inarrestabile che mi travolgeva. In quel momento, dimenticai tutto. Dimenticai Tommaso, legato come un salame, dimenticai Luca, il suo sguardo deluso. Dimenticai la mia vita, la mia facciata da brava ragazza. Esisteva solo Mario, il suo cazzo dentro di me, il piacere che mi lacerava e mi riempiva. Ero una puttanella, completamente abbandonata al suo destino, e non volevo altro.
Mario mi possedeva con la furia di una bestia, le sue spinte mi strappavano gemiti che non riuscivo a contenere. Sentivo il suo cazzo massiccio affondare e ritirarsi, riempiendomi e svuotandomi in un ritmo che mi faceva impazzire. Ogni affondo era un'ondata di piacere, un dolore dolce che mi spingeva sempre più a fondo in quell'abisso di libidine. Poi, con un ultimo spasmo violento, sentii il suo seme caldo e denso inondarmi, riempiendo il mio culetto fino all'orlo. Il suo bacino premette forte contro il mio sedere, segno che aveva svuotato tutto dentro di me.
Si sfilò, lasciandomi intorpidita, il mio ano pulsante, mentre un rivolo tiepido mi scivolava tra le gambe. Il respiro di Mario era affannoso, il suo viso imperlato di sudore, ma i suoi occhi brillavano di una soddisfazione malvagia. Mi tirò su, facendomi mettere seduta, e non ebbi neanche il tempo di riprendermi che Enzo era già lì.
«Ora tocca a me rivendicare il mio posto, puttana,» mi disse, il suo tono scherzoso ma con una durezza che mi fece venire i brividi. Senza indugio, il suo cazzo, più slanciato ma ugualmente implacabile, premette contro la mia entrata già dilatata. Sentii un po' di resistenza, ma la mia carne, già violata e desiderosa, si arrese quasi subito. Mi inculò con una foga diversa, meno brutale di Mario, ma altrettanto penetrante, come se volesse accertarsi che ogni angolo del mio culetto fosse stato riempito. Gemevo ancora, alternando il mio piacere tra la sensazione di essere penetrata così a fondo e le sue parole sporche che mi sussurrava.
Andarono avanti così, alternandosi, i loro cazzi che entravano e uscivano dal mio culetto, riempiendomi di sborra finché non sentii di esplodere, la mia carne ormai intorpidita ma la mia anima in piena estasi. Quando finalmente si fermarono, esausti, ci lasciammo andare tutti e tre in sorrisi liberatori. Mario ed Enzo erano distesi sul divano, il fiato corto, mentre io ero sdraiata tra loro, con le gambe aperte, il mio culetto che grondava.
«Non vedevo l'ora, stronzetti,» dissi, la mia voce roca, intrisa di una sincerità che mi sorprese persino. «Non vedevo l'ora di tutto questo. Di essere la vostra puttanella.»
Fu allora che Mario tirò fuori una piccola bustina di plastica trasparente. All'interno, la polverina bianca scintillava alla luce fioca della lampada. Un sorriso ancora più astuto gli si allargò sul viso. «Che ne dici di un po' di questo, Sonia?» mi chiese, porgendomela. «Per farti volare ancora più in alto. Per annullare gli ultimi freni.»
Il mio cuore fece un balzo. La cocaina. Sapevo cosa faceva, come annullava ogni limite, come amplificava ogni sensazione. La mia mente, già annebbiata dal sesso e dalla sottomissione, era pronta per il passo successivo, per il vero abbandono.
«Sì, Mario,» risposi, la mia voce quasi un sussurro eccitato, mentre allungavo la mano per afferrare la bustina. «Voglio tutto. Voglio volare. Fino in fondo.» I miei occhi, velati di desiderio e perversione, erano fissi sulla bustina, la promessa di un'estasi ancora più profonda.
La polverina bianca mi bruciò le narici, un sapore amaro che presto divenne dolce mentre il mio cervello si inondava. L'euforia mi travolse, una scarica elettrica che mi fece fremere. Non bastava, non poteva bastare. «Ancora,» dissi, la voce rauca, allungando una mano tremante. E loro acconsentirono, come burattinai che assecondano la loro marionetta. Ancora e ancora, la polverina spariva, e io mi sentivo volare, le mie inibizioni annullate, i miei desideri amplificati all'ennesima potenza.
Ero una gatta vogliosa, una vera puttana in preda a una fame inarrestabile. Non aspettavo che mi cercassero, ero io a cercarli, a strisciare verso di loro sul divano. Con le mie mani afferravo i loro cazzi, sentivo la pelle calda e le vene pulsare. Li prendevo in bocca, li succhiavo con foga, con una brama che non avevo mai conosciuto. Sentivo il sapore salato, l'odore di sesso che mi inebriava, e li facevo tornare duri, rigidi, pronti per me.
«Scopami! Inculami, ti prego!» gemevo, la mia voce un lamento disperato. «Voglio i vostri cazzi, voglio sentirli dentro di me!» L'orgia andò avanti, un vortice di corpi, gemiti e respiri affannosi, interrotto solo dal fruscio della bustina che si apriva per un'altra sniffata. Mi davano quello che volevo, e io prendevo tutto, insaziabile, fino a che non li prosciugai completamente, i loro cazzi ormai molli, svuotati di ogni goccia di piacere.
Ero andata, completamente andata. La cocaina mi aveva rapita, la realtà era un lontano ricordo. Forse avevo esagerato, ma loro... loro non mi lasciavano tregua. Me la mettevano a forza sulla gengiva, per tenermi su, per alimentare quella fame inarrestabile che mi divorava. Io volevo i loro cazzi, ne avevo bisogno, era un'urgenza che mi bruciava dentro.
Fu allora che mi presero, strattonandomi. Non capii subito dove mi stessero portando, ero in un altro mondo. Attraversammo un corridoio buio, l'aria pesante e fredda. Poi, salii una scala di legno cigolante, ogni passo un lamento delle assi sotto il mio peso. La mente annebbiata, ma il corpo ancora teso, pronto a ricevere, a dare. Mi spinsero dentro una camera lercia. L'odore di muffa e sporco mi colpì, ma non mi importava. Ero solo la loro puttanella, pronta per quello che sarebbe venuto dopo.
La stanza era buia, un antro freddo e dimenticato. La poca luce che entrava filtrava a stento da finestre rotte o dai vetri così sporchi da essere quasi opachi. L'aria era pesante, intrisa di odore di muffa, polvere e abbandono, ma la cocaina mi aveva resa insensibile a tutto. Mi spinsero sul bordo di un letto che scricchiolò sotto il mio peso. Mi lasciarono lì, le mie gambe aperte in una posa che era ormai diventata naturale, e poi sentii le corde legarsi intorno ai miei polsi e alle mie caviglie, immobilizzandomi completamente.
Io li lasciai fare, anzi, ridevo. Una risata isterica, priva di controllo, pensando che fosse un nuovo gioco, un'altra perversione per farmi godere ancora di più. La mia mente era distorta, affamata di sensazioni. Immobilizzata, sentii uno straccio, lurido e puzzolente, premere sui miei occhi. Mi bendavano. Non vedevo più nulla, solo il buio assoluto che inghiottiva la poca luce filtrante.
Ero lì, nel silenzio della stanza, la mia fica ancora pulsante, il mio culetto dolorante ma desideroso. Non sentivo nessuno, non vedevo, non potevo muovermi. Il tempo passava, lento, opprimente. E loro? Dove erano finiti? Mi sentivo come una puttanella abbandonata, ma la mia mente drogata non riusciva a preoccuparsi davvero.
Poi, all'improvviso, un rumore ruppe il silenzio. Il suono inconfondibile di un'auto che si fermava. E poi un'altra. Il mio cuore diede un sussulto, questa volta non per eccitazione, ma per una sottile, strisciante preoccupazione. Sentii le portiere sbattere con violenza, e poi le risate. Voci, tante voci, euforiche, estranee. Poi un'altra auto, e ancora il rumore sordo delle portiere che sbattevano. La mia gola si strinse. Quanti erano? Un nodo di ansia cominciò a farsi strada attraverso la nebbia della cocaina.
I rumori si fecero più vicini, i passi pesanti risalivano la scala cigolante. Poi, le voci irruppero nella stanza, un'esplosione di suoni che mi fece sobbalzare. E lì, chiara e inconfondibile, la voce di Mario, che risuonò come un'eco nel buio: «Eccola la troia, è tutta vostra! Forza, maiali!»
Non vedevo. Il buio era denso, opprimente, uno straccio lurido che mi negava ogni immagine. Ma sentivo. Sentivo le voci, tante, troppe, che si mescolavano in un coro di risate euforiche. Erano lì, tutti intorno a me, la mia carne esposta, la mia fica pulsante, in attesa. Sentivo il loro respiro, il fruscio dei vestiti, l'odore acre del loro sudore, un misto di alcol e nicotina che mi faceva venire la nausea e, al tempo stesso, mi accendeva.
Poi, il primo. Non sentii nessun preavviso, nessuna carezza, solo una pressione improvvisa. Il suo cazzo, non particolarmente grosso, si scontrò con la mia fica, spingendo con forza in una sola, decisa, affondo. Era dentro. Sentii la sua pancia premere contro il mio bacino, un peso sconosciuto che si muoveva sopra di me. Fu una scopata veloce, quasi brutale, un corpo estraneo che mi riempiva e mi svuotava in pochi, rabbiosi movimenti. Sentii solo un rantolo, un grugnito rauco, ma non mi sentii bagnata come avrei voluto. Era venuto con il preservativo. Una piccola delusione, ma il brivido del primo mi aveva comunque colpita.
Mentre quello si toglieva da me, lasciando un vuoto improvviso ma momentaneo, il rumore di altre auto si fece sentire giù in cortile. E poi altre portiere che sbattevano, altre voci, altre risate euforiche. La stanza si stava riempiendo di presenze, l'aria diventava ancora più densa. Il mio cuore batteva forte, un tamburo impazzito nel petto. Quanti erano? Ero una cagna in pasto a un branco di lupi.
Sentivo le mani su di me, diverse. Non c'era delicatezza, solo impazienza. Qualcuno mi tirava un seno, qualcun altro mi afferrava una coscia. Voci indistinte si sovrapponevano, commenti volgari, risate grasse.
«Ora la figa è mia!» gridò una voce roca, e subito un nuovo corpo mi coprì. Questo era più grosso, più pesante del precedente. Il suo cazzo premette contro la mia entrata, e poi entrò, lento ma inesorabile. Era più grosso, sentii la mia carne stirarsi, e un gemito mi sfuggì. Anche lui era protetto da un preservativo, il cui lattice scivolava contro le mie pareti. Questo mi scopava con più lentezza, assaporando ogni spinta, e le sue dita mi torturavano i capezzoli, facendoli diventare duri e doloranti. Mi venne dentro con un lungo fremito.
Appena si fu tolto, un altro prese il suo posto. «Io voglio il culo! Sentiamo che dice la cagna!» disse una voce più giovane, quasi squillante. Sentii le mie natiche venire divaricate con forza, e un dito che mi entrava nell'ano, allargando l'apertura. Non c'era strutto, questa volta, solo la sua saliva e la mia tensione. Il dolore fu più acuto quando il suo cazzo, non enorme ma insistente, premette e poi si fece strada. Gemetti, un lamento che si trasformò in un rantolo quando iniziò a muoversi. Mi inculava con una foga quasi infantile, un ragazzo impaziente che scopriva un nuovo giocattolo. Mi chiamava puttana, e io, con le lacrime agli occhi per il dolore misto a piacere, mi sforzavo di stringere i muscoli intorno a lui. Venne con un grido, svuotandosi nel mio culetto, senza preservativo.
Dopo quello che mi aveva inculata con furia giovanile, sentii un altro che si fece avanti. Era più anziano, lo sentivo dal suo respiro pesante, dall'odore di stantio che emanava. Non parlò, si limitò a spingere il suo cazzo dentro la mia fica. Era di dimensioni medie, e mi scopava con una lentezza metodica, quasi annoiata, ma ogni spinta era profonda, come se volesse riempire ogni mio vuoto.
Mentre questo si sfilava, un altro, più magro, prese il suo posto. «Dai, aprì la bocca, troia,» mi ordinò, e sentii la sua mano afferrarmi la mascella, costringendomi ad aprire. Un getto caldo mi riempì la bocca. Non era seme, era saliva, densa e amara. «Pulisci, brava puttana,» mi sibilò. E io, obbediente, la ingoiai, sentendo il sapore disgustoso scivolarmi in gola. Poi, mi penetrò la fica, con una furia nervosa, quasi frettolosa. Era veloce, impaziente. Venne subito, con un gemito di sollievo, e si ritirò.
E poi un altro, con un odore forte di sigaretta. Mi tirò su per i capelli. «Voglio il culo, zoccola. È bello stretto, vero?» Sentii il suo cazzo premere contro il mio ano. Era grosso, e sentii la mia carne urlare mentre mi spingeva dentro. Il dolore fu lancinante, nonostante la cocaina che in parte ne attenuava la sensazione, trasformandola in una fitta pulsante di piacere. Mi inculava con forza, le sue mani che mi schiaffeggiavano le natiche ad ogni spinta. Venne con un ringhio, non aveva il preservativo, e sentii il suo sperma riversarsi copioso nel mio ano.
Ero un oggetto, una bambola di carne che veniva usata e abusata, e ogni violenza, ogni penetrazione, ogni umiliazione mi portava a un orgasmo diverso, più profondo, più liberatorio. Ero la loro troia, la loro cagna, e lo desideravo con ogni fibra del mio essere.
Non vedevo, ma sentivo. Ogni tocco, ogni odore, ogni penetrazione era un'ondata che mi travolgeva. Erano tantissimi, una fila infinita di corpi maschili che si alternavano su di me, la mia carne esposta, un'offerta silenziosa nel buio.
La mia carne abusata da decine di uomini, la mia fica ormai un pozzo senza fondo, il mio ano dilatato e dolente. Ogni poro del mio corpo gridava per altro, per una sborrata in più, per un insulto più crudele. La cocaina mi faceva volare, annullando il dolore, amplificando la perversione.
Altre macchine. Il suono si faceva più insistente, più caotico. Alcune arrivavano, altre se ne andavano, un via vai incessante che scandiva la mia condanna. Persino il rumore inconfondibile dei motorini, striduli e veloci, mi raggiungeva nel buio. Quella camera era diventata una vera e propria sala d'aspetto, e io, la loro puttana, ero l'unica attrazione, inerme, pronta a soddisfare ogni desiderio.
Li sentii arrivare. Erano in tanti, troppo chiassosi, le loro voci molto giovani, quasi imberbi. Ragazzi, sì. Potevo sentirli eccitati, nervosi, spavaldi. Erano lì per me. Per molti di loro, o tutti, rappresentavo forse la loro prima scopata. Il mio cuore, o quel che ne restava, ebbe un sussulto perverso. Essere la loro prima volta, la loro iniziazione, mi eccitava in modo indicibile.
Questi lo fecero tutti senza preservativo. Sentivo i loro cazzi, alcuni piccoli e incerti, altri già promettenti, entrare e uscire dalla mia fica e dal mio culetto. Le loro spinte erano più goffe, meno esperte, ma la loro foga era palpabile, quasi disperata. Incitati dagli uomini presenti, venivano dentro di me, uno dopo l'altro, con un misto di timore e gioia, e ogni getto di sperma mi riempiva, bruciava, macchiava.
Anche alcuni di quelli che li avevano preceduti, i più furbi, avevano fatto a meno del preservativo. Avevo sentito il sapore dei loro cazzi direttamente in bocca, senza la protezione della gomma. Oppure la mia fica, il mio ano, inondarsi di sperma, senza filtri, senza barriere. Sotto il mio sedere, il materasso scricchiolava e si affossava, ormai fradicio, intriso del loro seme e dei miei umori. Sentivo il calore, l'umidità appiccicosa, l'odore acre che si mescolava al mio, alla cocaina, al puzzo della stanza. Ero un ricettacolo, un buco nero che inghiottiva tutto.
Le ore passavano. Non le contavo, ma lo capivo dal diminuire delle voci, dal rumore delle macchine che andavano via, sostituite solo dal silenzio della notte. La camera si stava pian piano svuotando. I ragazzi, lo sentivo dai loro schiamazzi finali, erano al settimo cielo, entusiasti, soddisfatti della loro prima volta, della loro puttana. Vedevo anche il bagliore di alcuni flash, lampi bianchi nel buio. Erano i selfie, certo, i trofei della loro conquista. Mi sentii la loro preda, la loro vittoria.
Quando finalmente mi slegarono, le mie gambe erano intorpidite, doloranti per essere rimaste in quella posizione così a lungo. Mi tolsero la benda, e i miei occhi, abituati al buio denso, faticavano a mettere a fuoco la poca luce che entrava. Rimasi seduta su quel letto, la mia carne scoperta, il sedere e la fica che affondavano in una pozza tiepida e appiccicosa. Sperma. Era il loro sperma, una miscela di fluidi che ora era la mia realtà.
Accanto a me, sul pavimento lurido, c'era un secchio di metallo. Lo guardai, e il mio stomaco si rivoltò: era pieno fino all'orlo di preservativi usati e fazzoletti di carta sporchi, intrisi di sperma e chissà cos'altro. Mario ed Enzo mi guardarono con un sorriso soddisfatto. «Pulisci, troia,» disse Mario, indicando il secchio con un cenno del capo. Non avevano altro. Ero costretta a usare gli scarti per ripulirmi. La vergogna mi bruciava, ma la mia mente, ancora confusa, obbedì.
Con le mani tremanti, afferrai un fazzoletto usato, sentendo la carta umida e il suo odore penetrante. Mi passai tra le gambe, cercando di togliere lo sporco, di raschiare via i fluidi che mi incollavano. Era una pulizia futile, ma era un tentativo di riprendere un briciolo di dignità. Il mio piccolo orologio da polso, un regalo di Tommaso, segnava le 3 e venti. Tante ore erano passate, ore di violenza, di umiliazione, di un piacere che ora mi sembrava lontano.
L'effetto della droga stava svanendo. La confusione mi stava abbandonando, lasciando il posto a una lucidità amara e a una stanchezza profonda che mi pervadeva ogni osso. Mario ed Enzo mi guardavano, i loro sorrisi erano ancora lì, a ricordarmi ciò che ero stata, ciò che ero diventata. E io, seduta in quella pozza di sperma, mi sentivo svuotata, usata, ma allo stesso tempo una parte di me, la più oscura, provava una strana, incomprensibile, soddisfazione.
«Per sicurezza,» disse Enzo, con un sorriso che non prometteva nulla di buono, «lo leghiamo come un salame.» E così fecero. Lo tirarono fuori dall'auto senza alcuna delicatezza, lo adagiarono a terra e, con delle corde che sembravano avere già uno scopo preciso, lo immobilizzarono. Lo legarono con cura, assicurandolo all'unico albero solitario del cortile. Tommaso era completamente fuori gioco, un peso morto, e la sua inerme presenza mi fece sentire un misto di colpa e una perversa, innegabile eccitazione. Il mio fidanzato, ridotto a un oggetto inanimato, era l'ultimo, osceno tocco di quella notte.
Una volta dentro la cascina, la luce fioca illuminava il divano che ormai conoscevo fin troppo bene. Era lì che ero stata usata, lì che avevo iniziato la mia discesa nel piacere proibito. E ora, sapevo che sarebbe successo di nuovo.
«Ora è il mio turno, puttanella,» mi disse Enzo, il suo sguardo che mi spogliava. Sentii un brivido freddo e al tempo stesso rovente percorrermi la schiena.
Mi spinse senza delicatezza sul divano, e io mi misi a quattro zampe, le mani che affondavano nel tessuto consunto. Enzo si avvicinò, e sentii il suo respiro caldo sul mio culetto. Poi, come la volta scorsa, un odore forte, quasi rancido, mi invase le narici. Era lo strutto animale. Lo sentii spalmarsi sulla mia carne, freddo e unto, preparandomi per l'invasione. La sensazione era disgustosa, eppure la mia fica si bagnò ancora di più, anticipando il dolore e il piacere che avrebbero seguito.
«Apri bene il culetto, cagna che non sei altro,» mi ordinò, e io obbedii, sentendo i muscoli che si rilassavano quasi da soli. Senza alcun preambolo, senza pietà, Enzo mi penetrò. Il suo cazzo entrò con forza, un dolore acuto che si trasformò subito in una fitta di piacere. Era una violenza, sì, ma una violenza che la mia anima perversa desiderava. Gemevo, le mie unghie che si conficcavano nel divano, mentre lui mi inculava senza ritegno, spingendo a fondo, tirandomi i capelli per farmi inarcare la schiena. Ogni affondo mi faceva godere, mi portava più a fondo in quel baratro di libidine.
Poi, sentii la voce di Mario. «Ora tocca a me, voglio provare anch'io il tuo culetto.» Un brivido mi percorse. Il suo cazzo era molto più grosso di quello di Enzo. Ma non mi importava. Anzi, il pensiero di quella dimensione, di quella pienezza, mi eccitava da morire. Enzo si sfilò, lasciandomi la sensazione di vuoto e pienezza al tempo stesso. E Mario prese il suo posto.
Sentii il suo cazzo massiccio premere contro il mio ano, poi spingere, lentamente, dolorosamente, ma con una determinazione che mi fece gemere. La mia carne si lacerava, ma il dolore era un preludio a un piacere ancora più intenso. «Avanti, spingi!» incitai, la mia voce roca, quasi irriconoscibile. «Fallo entrare tutto, Mario! Inculami, ti prego! Fatela godere questa puttana!» Ero io ad incitarlo, a chiedere di più, a implorare quella violenza che mi stava portando all'estasi.
La mia libidine era esplosa, una marea inarrestabile che mi travolgeva. In quel momento, dimenticai tutto. Dimenticai Tommaso, legato come un salame, dimenticai Luca, il suo sguardo deluso. Dimenticai la mia vita, la mia facciata da brava ragazza. Esisteva solo Mario, il suo cazzo dentro di me, il piacere che mi lacerava e mi riempiva. Ero una puttanella, completamente abbandonata al suo destino, e non volevo altro.
Mario mi possedeva con la furia di una bestia, le sue spinte mi strappavano gemiti che non riuscivo a contenere. Sentivo il suo cazzo massiccio affondare e ritirarsi, riempiendomi e svuotandomi in un ritmo che mi faceva impazzire. Ogni affondo era un'ondata di piacere, un dolore dolce che mi spingeva sempre più a fondo in quell'abisso di libidine. Poi, con un ultimo spasmo violento, sentii il suo seme caldo e denso inondarmi, riempiendo il mio culetto fino all'orlo. Il suo bacino premette forte contro il mio sedere, segno che aveva svuotato tutto dentro di me.
Si sfilò, lasciandomi intorpidita, il mio ano pulsante, mentre un rivolo tiepido mi scivolava tra le gambe. Il respiro di Mario era affannoso, il suo viso imperlato di sudore, ma i suoi occhi brillavano di una soddisfazione malvagia. Mi tirò su, facendomi mettere seduta, e non ebbi neanche il tempo di riprendermi che Enzo era già lì.
«Ora tocca a me rivendicare il mio posto, puttana,» mi disse, il suo tono scherzoso ma con una durezza che mi fece venire i brividi. Senza indugio, il suo cazzo, più slanciato ma ugualmente implacabile, premette contro la mia entrata già dilatata. Sentii un po' di resistenza, ma la mia carne, già violata e desiderosa, si arrese quasi subito. Mi inculò con una foga diversa, meno brutale di Mario, ma altrettanto penetrante, come se volesse accertarsi che ogni angolo del mio culetto fosse stato riempito. Gemevo ancora, alternando il mio piacere tra la sensazione di essere penetrata così a fondo e le sue parole sporche che mi sussurrava.
Andarono avanti così, alternandosi, i loro cazzi che entravano e uscivano dal mio culetto, riempiendomi di sborra finché non sentii di esplodere, la mia carne ormai intorpidita ma la mia anima in piena estasi. Quando finalmente si fermarono, esausti, ci lasciammo andare tutti e tre in sorrisi liberatori. Mario ed Enzo erano distesi sul divano, il fiato corto, mentre io ero sdraiata tra loro, con le gambe aperte, il mio culetto che grondava.
«Non vedevo l'ora, stronzetti,» dissi, la mia voce roca, intrisa di una sincerità che mi sorprese persino. «Non vedevo l'ora di tutto questo. Di essere la vostra puttanella.»
Fu allora che Mario tirò fuori una piccola bustina di plastica trasparente. All'interno, la polverina bianca scintillava alla luce fioca della lampada. Un sorriso ancora più astuto gli si allargò sul viso. «Che ne dici di un po' di questo, Sonia?» mi chiese, porgendomela. «Per farti volare ancora più in alto. Per annullare gli ultimi freni.»
Il mio cuore fece un balzo. La cocaina. Sapevo cosa faceva, come annullava ogni limite, come amplificava ogni sensazione. La mia mente, già annebbiata dal sesso e dalla sottomissione, era pronta per il passo successivo, per il vero abbandono.
«Sì, Mario,» risposi, la mia voce quasi un sussurro eccitato, mentre allungavo la mano per afferrare la bustina. «Voglio tutto. Voglio volare. Fino in fondo.» I miei occhi, velati di desiderio e perversione, erano fissi sulla bustina, la promessa di un'estasi ancora più profonda.
La polverina bianca mi bruciò le narici, un sapore amaro che presto divenne dolce mentre il mio cervello si inondava. L'euforia mi travolse, una scarica elettrica che mi fece fremere. Non bastava, non poteva bastare. «Ancora,» dissi, la voce rauca, allungando una mano tremante. E loro acconsentirono, come burattinai che assecondano la loro marionetta. Ancora e ancora, la polverina spariva, e io mi sentivo volare, le mie inibizioni annullate, i miei desideri amplificati all'ennesima potenza.
Ero una gatta vogliosa, una vera puttana in preda a una fame inarrestabile. Non aspettavo che mi cercassero, ero io a cercarli, a strisciare verso di loro sul divano. Con le mie mani afferravo i loro cazzi, sentivo la pelle calda e le vene pulsare. Li prendevo in bocca, li succhiavo con foga, con una brama che non avevo mai conosciuto. Sentivo il sapore salato, l'odore di sesso che mi inebriava, e li facevo tornare duri, rigidi, pronti per me.
«Scopami! Inculami, ti prego!» gemevo, la mia voce un lamento disperato. «Voglio i vostri cazzi, voglio sentirli dentro di me!» L'orgia andò avanti, un vortice di corpi, gemiti e respiri affannosi, interrotto solo dal fruscio della bustina che si apriva per un'altra sniffata. Mi davano quello che volevo, e io prendevo tutto, insaziabile, fino a che non li prosciugai completamente, i loro cazzi ormai molli, svuotati di ogni goccia di piacere.
Ero andata, completamente andata. La cocaina mi aveva rapita, la realtà era un lontano ricordo. Forse avevo esagerato, ma loro... loro non mi lasciavano tregua. Me la mettevano a forza sulla gengiva, per tenermi su, per alimentare quella fame inarrestabile che mi divorava. Io volevo i loro cazzi, ne avevo bisogno, era un'urgenza che mi bruciava dentro.
Fu allora che mi presero, strattonandomi. Non capii subito dove mi stessero portando, ero in un altro mondo. Attraversammo un corridoio buio, l'aria pesante e fredda. Poi, salii una scala di legno cigolante, ogni passo un lamento delle assi sotto il mio peso. La mente annebbiata, ma il corpo ancora teso, pronto a ricevere, a dare. Mi spinsero dentro una camera lercia. L'odore di muffa e sporco mi colpì, ma non mi importava. Ero solo la loro puttanella, pronta per quello che sarebbe venuto dopo.
La stanza era buia, un antro freddo e dimenticato. La poca luce che entrava filtrava a stento da finestre rotte o dai vetri così sporchi da essere quasi opachi. L'aria era pesante, intrisa di odore di muffa, polvere e abbandono, ma la cocaina mi aveva resa insensibile a tutto. Mi spinsero sul bordo di un letto che scricchiolò sotto il mio peso. Mi lasciarono lì, le mie gambe aperte in una posa che era ormai diventata naturale, e poi sentii le corde legarsi intorno ai miei polsi e alle mie caviglie, immobilizzandomi completamente.
Io li lasciai fare, anzi, ridevo. Una risata isterica, priva di controllo, pensando che fosse un nuovo gioco, un'altra perversione per farmi godere ancora di più. La mia mente era distorta, affamata di sensazioni. Immobilizzata, sentii uno straccio, lurido e puzzolente, premere sui miei occhi. Mi bendavano. Non vedevo più nulla, solo il buio assoluto che inghiottiva la poca luce filtrante.
Ero lì, nel silenzio della stanza, la mia fica ancora pulsante, il mio culetto dolorante ma desideroso. Non sentivo nessuno, non vedevo, non potevo muovermi. Il tempo passava, lento, opprimente. E loro? Dove erano finiti? Mi sentivo come una puttanella abbandonata, ma la mia mente drogata non riusciva a preoccuparsi davvero.
Poi, all'improvviso, un rumore ruppe il silenzio. Il suono inconfondibile di un'auto che si fermava. E poi un'altra. Il mio cuore diede un sussulto, questa volta non per eccitazione, ma per una sottile, strisciante preoccupazione. Sentii le portiere sbattere con violenza, e poi le risate. Voci, tante voci, euforiche, estranee. Poi un'altra auto, e ancora il rumore sordo delle portiere che sbattevano. La mia gola si strinse. Quanti erano? Un nodo di ansia cominciò a farsi strada attraverso la nebbia della cocaina.
I rumori si fecero più vicini, i passi pesanti risalivano la scala cigolante. Poi, le voci irruppero nella stanza, un'esplosione di suoni che mi fece sobbalzare. E lì, chiara e inconfondibile, la voce di Mario, che risuonò come un'eco nel buio: «Eccola la troia, è tutta vostra! Forza, maiali!»
Non vedevo. Il buio era denso, opprimente, uno straccio lurido che mi negava ogni immagine. Ma sentivo. Sentivo le voci, tante, troppe, che si mescolavano in un coro di risate euforiche. Erano lì, tutti intorno a me, la mia carne esposta, la mia fica pulsante, in attesa. Sentivo il loro respiro, il fruscio dei vestiti, l'odore acre del loro sudore, un misto di alcol e nicotina che mi faceva venire la nausea e, al tempo stesso, mi accendeva.
Poi, il primo. Non sentii nessun preavviso, nessuna carezza, solo una pressione improvvisa. Il suo cazzo, non particolarmente grosso, si scontrò con la mia fica, spingendo con forza in una sola, decisa, affondo. Era dentro. Sentii la sua pancia premere contro il mio bacino, un peso sconosciuto che si muoveva sopra di me. Fu una scopata veloce, quasi brutale, un corpo estraneo che mi riempiva e mi svuotava in pochi, rabbiosi movimenti. Sentii solo un rantolo, un grugnito rauco, ma non mi sentii bagnata come avrei voluto. Era venuto con il preservativo. Una piccola delusione, ma il brivido del primo mi aveva comunque colpita.
Mentre quello si toglieva da me, lasciando un vuoto improvviso ma momentaneo, il rumore di altre auto si fece sentire giù in cortile. E poi altre portiere che sbattevano, altre voci, altre risate euforiche. La stanza si stava riempiendo di presenze, l'aria diventava ancora più densa. Il mio cuore batteva forte, un tamburo impazzito nel petto. Quanti erano? Ero una cagna in pasto a un branco di lupi.
Sentivo le mani su di me, diverse. Non c'era delicatezza, solo impazienza. Qualcuno mi tirava un seno, qualcun altro mi afferrava una coscia. Voci indistinte si sovrapponevano, commenti volgari, risate grasse.
«Ora la figa è mia!» gridò una voce roca, e subito un nuovo corpo mi coprì. Questo era più grosso, più pesante del precedente. Il suo cazzo premette contro la mia entrata, e poi entrò, lento ma inesorabile. Era più grosso, sentii la mia carne stirarsi, e un gemito mi sfuggì. Anche lui era protetto da un preservativo, il cui lattice scivolava contro le mie pareti. Questo mi scopava con più lentezza, assaporando ogni spinta, e le sue dita mi torturavano i capezzoli, facendoli diventare duri e doloranti. Mi venne dentro con un lungo fremito.
Appena si fu tolto, un altro prese il suo posto. «Io voglio il culo! Sentiamo che dice la cagna!» disse una voce più giovane, quasi squillante. Sentii le mie natiche venire divaricate con forza, e un dito che mi entrava nell'ano, allargando l'apertura. Non c'era strutto, questa volta, solo la sua saliva e la mia tensione. Il dolore fu più acuto quando il suo cazzo, non enorme ma insistente, premette e poi si fece strada. Gemetti, un lamento che si trasformò in un rantolo quando iniziò a muoversi. Mi inculava con una foga quasi infantile, un ragazzo impaziente che scopriva un nuovo giocattolo. Mi chiamava puttana, e io, con le lacrime agli occhi per il dolore misto a piacere, mi sforzavo di stringere i muscoli intorno a lui. Venne con un grido, svuotandosi nel mio culetto, senza preservativo.
Dopo quello che mi aveva inculata con furia giovanile, sentii un altro che si fece avanti. Era più anziano, lo sentivo dal suo respiro pesante, dall'odore di stantio che emanava. Non parlò, si limitò a spingere il suo cazzo dentro la mia fica. Era di dimensioni medie, e mi scopava con una lentezza metodica, quasi annoiata, ma ogni spinta era profonda, come se volesse riempire ogni mio vuoto.
Mentre questo si sfilava, un altro, più magro, prese il suo posto. «Dai, aprì la bocca, troia,» mi ordinò, e sentii la sua mano afferrarmi la mascella, costringendomi ad aprire. Un getto caldo mi riempì la bocca. Non era seme, era saliva, densa e amara. «Pulisci, brava puttana,» mi sibilò. E io, obbediente, la ingoiai, sentendo il sapore disgustoso scivolarmi in gola. Poi, mi penetrò la fica, con una furia nervosa, quasi frettolosa. Era veloce, impaziente. Venne subito, con un gemito di sollievo, e si ritirò.
E poi un altro, con un odore forte di sigaretta. Mi tirò su per i capelli. «Voglio il culo, zoccola. È bello stretto, vero?» Sentii il suo cazzo premere contro il mio ano. Era grosso, e sentii la mia carne urlare mentre mi spingeva dentro. Il dolore fu lancinante, nonostante la cocaina che in parte ne attenuava la sensazione, trasformandola in una fitta pulsante di piacere. Mi inculava con forza, le sue mani che mi schiaffeggiavano le natiche ad ogni spinta. Venne con un ringhio, non aveva il preservativo, e sentii il suo sperma riversarsi copioso nel mio ano.
Ero un oggetto, una bambola di carne che veniva usata e abusata, e ogni violenza, ogni penetrazione, ogni umiliazione mi portava a un orgasmo diverso, più profondo, più liberatorio. Ero la loro troia, la loro cagna, e lo desideravo con ogni fibra del mio essere.
Non vedevo, ma sentivo. Ogni tocco, ogni odore, ogni penetrazione era un'ondata che mi travolgeva. Erano tantissimi, una fila infinita di corpi maschili che si alternavano su di me, la mia carne esposta, un'offerta silenziosa nel buio.
La mia carne abusata da decine di uomini, la mia fica ormai un pozzo senza fondo, il mio ano dilatato e dolente. Ogni poro del mio corpo gridava per altro, per una sborrata in più, per un insulto più crudele. La cocaina mi faceva volare, annullando il dolore, amplificando la perversione.
Altre macchine. Il suono si faceva più insistente, più caotico. Alcune arrivavano, altre se ne andavano, un via vai incessante che scandiva la mia condanna. Persino il rumore inconfondibile dei motorini, striduli e veloci, mi raggiungeva nel buio. Quella camera era diventata una vera e propria sala d'aspetto, e io, la loro puttana, ero l'unica attrazione, inerme, pronta a soddisfare ogni desiderio.
Li sentii arrivare. Erano in tanti, troppo chiassosi, le loro voci molto giovani, quasi imberbi. Ragazzi, sì. Potevo sentirli eccitati, nervosi, spavaldi. Erano lì per me. Per molti di loro, o tutti, rappresentavo forse la loro prima scopata. Il mio cuore, o quel che ne restava, ebbe un sussulto perverso. Essere la loro prima volta, la loro iniziazione, mi eccitava in modo indicibile.
Questi lo fecero tutti senza preservativo. Sentivo i loro cazzi, alcuni piccoli e incerti, altri già promettenti, entrare e uscire dalla mia fica e dal mio culetto. Le loro spinte erano più goffe, meno esperte, ma la loro foga era palpabile, quasi disperata. Incitati dagli uomini presenti, venivano dentro di me, uno dopo l'altro, con un misto di timore e gioia, e ogni getto di sperma mi riempiva, bruciava, macchiava.
Anche alcuni di quelli che li avevano preceduti, i più furbi, avevano fatto a meno del preservativo. Avevo sentito il sapore dei loro cazzi direttamente in bocca, senza la protezione della gomma. Oppure la mia fica, il mio ano, inondarsi di sperma, senza filtri, senza barriere. Sotto il mio sedere, il materasso scricchiolava e si affossava, ormai fradicio, intriso del loro seme e dei miei umori. Sentivo il calore, l'umidità appiccicosa, l'odore acre che si mescolava al mio, alla cocaina, al puzzo della stanza. Ero un ricettacolo, un buco nero che inghiottiva tutto.
Le ore passavano. Non le contavo, ma lo capivo dal diminuire delle voci, dal rumore delle macchine che andavano via, sostituite solo dal silenzio della notte. La camera si stava pian piano svuotando. I ragazzi, lo sentivo dai loro schiamazzi finali, erano al settimo cielo, entusiasti, soddisfatti della loro prima volta, della loro puttana. Vedevo anche il bagliore di alcuni flash, lampi bianchi nel buio. Erano i selfie, certo, i trofei della loro conquista. Mi sentii la loro preda, la loro vittoria.
Quando finalmente mi slegarono, le mie gambe erano intorpidite, doloranti per essere rimaste in quella posizione così a lungo. Mi tolsero la benda, e i miei occhi, abituati al buio denso, faticavano a mettere a fuoco la poca luce che entrava. Rimasi seduta su quel letto, la mia carne scoperta, il sedere e la fica che affondavano in una pozza tiepida e appiccicosa. Sperma. Era il loro sperma, una miscela di fluidi che ora era la mia realtà.
Accanto a me, sul pavimento lurido, c'era un secchio di metallo. Lo guardai, e il mio stomaco si rivoltò: era pieno fino all'orlo di preservativi usati e fazzoletti di carta sporchi, intrisi di sperma e chissà cos'altro. Mario ed Enzo mi guardarono con un sorriso soddisfatto. «Pulisci, troia,» disse Mario, indicando il secchio con un cenno del capo. Non avevano altro. Ero costretta a usare gli scarti per ripulirmi. La vergogna mi bruciava, ma la mia mente, ancora confusa, obbedì.
Con le mani tremanti, afferrai un fazzoletto usato, sentendo la carta umida e il suo odore penetrante. Mi passai tra le gambe, cercando di togliere lo sporco, di raschiare via i fluidi che mi incollavano. Era una pulizia futile, ma era un tentativo di riprendere un briciolo di dignità. Il mio piccolo orologio da polso, un regalo di Tommaso, segnava le 3 e venti. Tante ore erano passate, ore di violenza, di umiliazione, di un piacere che ora mi sembrava lontano.
L'effetto della droga stava svanendo. La confusione mi stava abbandonando, lasciando il posto a una lucidità amara e a una stanchezza profonda che mi pervadeva ogni osso. Mario ed Enzo mi guardavano, i loro sorrisi erano ancora lì, a ricordarmi ciò che ero stata, ciò che ero diventata. E io, seduta in quella pozza di sperma, mi sentivo svuotata, usata, ma allo stesso tempo una parte di me, la più oscura, provava una strana, incomprensibile, soddisfazione.
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