Il dovere del padre
di
Panny
genere
incesti
Sono Khalid, un muratore di quarantacinque anni, nato e cresciuto in questa terra dura dell’Iran, dove il sole brucia la pelle e il lavoro forgia l’anima. Ogni giorno, nei cantieri di Teheran, alzo muri di mattoni sotto il peso della tradizione, della fede in Allah e delle leggi che governano la nostra vita. La mia casa è modesta, un appartamento al secondo piano in un quartiere popolare, con tappeti persiani logorati dal tempo e il profumo costante di tè nero e spezie che aleggia tra le pareti. Mia moglie è partita tre settimane fa per il villaggio natale in Turchia, a curare sua madre malata e il vecchio suocero che agonizza. Ha lasciato un vuoto nel letto, un silenzio opprimente, e un desiderio che mi consuma come una febbre. In Islam, l’astinenza è una prova di fede, ma il corpo è debole, e io sono un uomo, non un santo. Mia figlia Layla, ventidue anni, è l’unica che rimane con me. È una brava ragazza, obbediente come deve essere una donna nella nostra cultura: indossa sempre il velo, anche in casa, per pudore e rispetto. Lavora in un mini market, ma sa che il suo dovere è servire la famiglia prima di tutto. Non tollero disordini; la severità è l’unico modo per mantenere l’ordine, come ci insegna la nostra religione. Una donna deve essere pura, preparata per un marito che la proteggerà e la guiderà, altrimenti è persa nel peccato.
Quel pomeriggio tornai dal cantiere con i muscoli indolenziti, la polvere di calce incrostata nelle mani callose e il sudore che mi appiccicava la camicia al petto. Il sole tramontava dietro i palazzi grigi, e la chiamata alla preghiera echeggiava dalle moschee vicine, un richiamo che mi ricordava di inginocchiarmi più tardi per il Maghrib. Entrai in casa, gettai gli stivali all’ingresso e andai dritto in bagno. L’acqua calda della doccia mi lavò via la fatica della giornata, scorrendo sui miei muscoli tesi, sui peli folti del petto. Pensai a mia moglie, al suo corpo familiare che mi mancava da settimane, e il desiderio si agitò dentro di me, un peccato che combattevo con preghiere silenziose. Ma Allah sa quanto sia difficile per un uomo solo. Uscii dal bagno avvolto in un asciugamano, mi infilai i pantaloni della tuta e una canottiera, e mi sedetti in cucina ad aspettare Layla. Lei sapeva le regole: prima cucina, poi i lavori domestici. Una donna non si lava finché non ha servito l’uomo di casa. È così che si mantiene l’armonia familiare, come ci insegnano i nostri imam.
Sentii la porta d’ingresso aprirsi, il fruscio del suo chador verde che sfiorava il pavimento. Layla entrò, il velo ben sistemato sui capelli neri, il grembiule del mini market ancora addosso, odorante di caffè e detersivi. Non mi guardò negli occhi – segno di rispetto – e andò dritta ai fornelli, affettando cipolle e mescolando il riso con lo zafferano. Le dissi: “Ciao, sono contento che tu ti sia messa già al lavoro. Mi raccomando, cucina bene.” La mia voce era ferma, autoritaria, come deve essere quella di un padre. Lei rispose piano, senza voltarsi: “Certo, papà.” Finì di preparare il khoresht, un pollo speziato che profumava l’aria, e mi allungò il piatto con entrambe le mani, un gesto di sottomissione che approvai. “Ecco, papà. Buon appetito. Posso andarmi a lavare o hai bisogno di altro?” Le ordinai: “Versami un bicchiere d’acqua e poi vai pure a lavarti.” Bevvi, osservando il suo collo sudato sotto il velo, una goccia che scivolava verso la clavicola. Era una donna ormai, con curve morbide sotto i vestiti larghi, ma la sua obbedienza mi rassicurava: era pura, come deve essere per un futuro marito.
Mentre mangiavo da solo, il silenzio della casa mi opprimeva. Tre settimane senza mia moglie, e il mio corpo urlava per un sollievo che la fede mi negava. Sentii l’acqua scorrere in bagno, la porta che si chiudeva. Una curiosità malsana mi assalì: era sbagliato, lo sapevo, ma come padre avevo il dovere di controllare la sua crescita, di assicurarmi che fosse pronta per la vita. Mi alzai, i piedi nudi sul pavimento freddo, e mi avvicinai alla porta. L’aprii appena, una fessura di pochi centimetri, coperta dal rumore dell’acqua che aspettava di scaldarsi. La vidi di spalle, mentre si toglieva le vesti: prima il velo, lasciando cadere i capelli folti e neri sulle spalle; poi la tunica, il grembiule, i pantaloni larghi. Il suo corpo emerse, leggermente robusto, con fianchi larghi e cosce piene, la pelle marrone dorato, liscia come seta persiana, calda sotto la luce fioca. I seni prosperosi, pesanti, con capezzoli grandi e scuri come datteri maturi. E l’intimità: curata ai lati per igiene, ma folta al centro, un triangolo nero e selvaggio che copriva le labbra, segno di una vergine non ancora preparata per un uomo. Il mio cuore accelerò; era sbagliato, ma in quella cultura dove il padre è il guardiano, dove la purezza è sacra, mi dissi che stavo solo vigilando.
Non resistetti. Spalancai la porta, il vapore mi investì come una nuvola calda. Layla sobbalzò, mani che coprivano i seni, l’acqua che le bagnava la schiena. “Papà, ma che fai?” disse, tono imbarazzato, voce tremante. Risposi secco: “Faccio pipì, non vedi. Continua a lavarti.” La casa è mia, faccio quello che voglio – è il mio diritto, come capofamiglia. Mi avvicinai al water, abbassai i pantaloni, il mio pene grande e peloso, i testicoli pesanti, che uscì semi-eretto. Feci pipì, ma i miei occhi la divoravano: il corpo bagnato, uno splendore sotto il getto, la pelle scura che brillava, i seni che ondeggiavano. Mi girai verso di lei, il membro che si induriva. “È casa mia. Faccio quello che voglio.” Lei girò la testa, mani tra le cosce, coprendo il pube folto. Aggiunsi: “Sbrigati con questa doccia, che l’acqua la pago io.” Annuì, testa bassa. Uscii, lasciando la porta spalancata, per ricordarle chi comanda.
L’astinenza mi tormentava, un fuoco che la vista di lei nuda aveva ravvivato. Vedere mia figlia così mi risvegliava voglie sepolte da settimane, un peccato che combattevo, ma Allah sa che un uomo ha bisogni. Aspettai che finisse la doccia, sentendo l’acqua fermarsi, i suoi passi leggeri. La chiamai in salotto: “Layla, vieni qui quando sei pronta.” Entrò con un abito lungo verde, il velo sistemato, capelli umidi. Mi sedetti sul divano, lei di fronte, occhi bassi. “Hai ventidue anni, Layla. Devi tenerti bene, devi essere brava per un futuro marito. Ma ho visto una cosa che non va per niente bene: hai la figa pelosa.” Usai quella parola cruda apposta, per farle capire che quella parte serve a una cosa sola – soddisfare un uomo – e deve essere curata, pronta. Arrossì, un filo di voce: “Scusa… non mi sono mai depilata completamente. Di solito parlo di queste cose con la mamma.” Risposi severo: “Ora tua madre non c’è, e io devo occuparmi di te. Questa situazione non può andare avanti così. Chi vuoi che ti prenda come moglie se sei così? Non sei per niente appetibile per un uomo.”
Le ordinai: “Vammi a prendere la mia schiuma da barba, la lametta, un asciugamano e una tinozza d’acqua.” “Perché, papà?” chiese, incerta. “Fallo e non fare altre domande. Devi ascoltarmi.” Andò in bagno, imbarazzata, impaurita – lo vedevo nei suoi occhi – ma obbediente, come deve essere. Tornò con tutto, mani tremanti. “Togliti il pantalone e l’intimo, alza la veste fino all’addome e siediti sulla poltrona.” Rimase pietrificata, arrossendo. “Non fare storie, spogliati.” Ancora immobile. “Non farmi perdere la pazienza, se no vengo lì, ti do due schiaffi in faccia e poi faccio quello che devo fare lo stesso. O con le buone o con le cattive.” Tentennò, ma alla fine obbedì: pantaloni e intimo a terra, asciugamano sotto il sedere, gambe chiuse, mani a coprirsi.
Le diedi un colpetto brusco al ginocchio: apri. Arrossì, ma adagiò le gambe sui braccioli, mani ancora lì. La guardai severo, e lei capì: tolse le mani, girò la testa di lato. Bagnai la zona con l’acqua calda, ammorbidendo i peli. Prima di applicare la schiuma, allargai le labbra con due dita: vidi l’imene intatto, piccolo e rosa, e mi eccitai, il pene che si induriva nella tuta. Inserii leggermente un dito, sentendo quanto fosse stretta, calda, vergine. Lo tolsi subito. Spalmai la schiuma, odore di mentolo, e rasai con attenzione, tirando la pelle per una rasatura perfetta. Lei guardava altrove, imbarazzata, ma era giusto: nessuno l’avrebbe presa con quei peli. Finii: vagina liscia, morbida, labbra paffute e scure. La toccai qua e là, controllando – perfetto.
Il mio pene era durissimo, scoppiava nella tuta. “Ok, ho finito. Ora almeno sei presentabile. Spostandoti le labbra ho visto che sei vergine, sei stata una brava ragazza. La tua purezza è importante. Ma di sicuro non hai esperienza, e non va bene.” Abbassai la tuta, avvicinai il pene al suo viso. Silenzio. “Dai, sarà una cosa veloce.” Ignorava, viso girato. Le spostai il mento: “Dai, su, non fare tante storie.” Impietrita. Presi il pene, lo spinsi tra le labbra chiuse, facendomi spazio, fino in fondo. Rimase ferma, così le presi la testa e iniziai un ritmo pieno, scopandole la bocca. La sentii piagnucolare, non contenta, ma mani ferme sulle gambe, nessuna opposizione. “Dai, muoviti un po’ da sola. Devi imparare.” Con mio stupore, prese il ritmo: lenta, timida, succhiando bene. Mi piacque, nonostante l’inesperienza. Pensai alla sua intimità nuda, vista in doccia e depilata, e arrivai al culmine: venni in bocca senza avvisare. Soffocò, ma la obbligai a continuare, a ingoiare tutto, a pulirmi con la lingua. Lo fece, senza storie, anche se scontenta.
Mi alzai i pantaloni. “Ora sistema tutto in bagno e comincia a pulire casa.” Andai in camera, la lasciai lì. Mi addormentai, stanco ma appagato. Al risveglio per cena, la casa era immacolata, la tavola apparecchiata, il cibo pronto. Non disse niente. È così che deve essere: obbedienza, ordine, fede. Domani pregherò per il perdono, ma so che ho fatto il mio dovere di padre.
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate tantissime : tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
Vi ringrazio davvero tanto per chi voglia scrivermi: lascio qui la mia e-mail.
u6753739252@gmail.com
Instagram: sara_gubbioracconti
Quel pomeriggio tornai dal cantiere con i muscoli indolenziti, la polvere di calce incrostata nelle mani callose e il sudore che mi appiccicava la camicia al petto. Il sole tramontava dietro i palazzi grigi, e la chiamata alla preghiera echeggiava dalle moschee vicine, un richiamo che mi ricordava di inginocchiarmi più tardi per il Maghrib. Entrai in casa, gettai gli stivali all’ingresso e andai dritto in bagno. L’acqua calda della doccia mi lavò via la fatica della giornata, scorrendo sui miei muscoli tesi, sui peli folti del petto. Pensai a mia moglie, al suo corpo familiare che mi mancava da settimane, e il desiderio si agitò dentro di me, un peccato che combattevo con preghiere silenziose. Ma Allah sa quanto sia difficile per un uomo solo. Uscii dal bagno avvolto in un asciugamano, mi infilai i pantaloni della tuta e una canottiera, e mi sedetti in cucina ad aspettare Layla. Lei sapeva le regole: prima cucina, poi i lavori domestici. Una donna non si lava finché non ha servito l’uomo di casa. È così che si mantiene l’armonia familiare, come ci insegnano i nostri imam.
Sentii la porta d’ingresso aprirsi, il fruscio del suo chador verde che sfiorava il pavimento. Layla entrò, il velo ben sistemato sui capelli neri, il grembiule del mini market ancora addosso, odorante di caffè e detersivi. Non mi guardò negli occhi – segno di rispetto – e andò dritta ai fornelli, affettando cipolle e mescolando il riso con lo zafferano. Le dissi: “Ciao, sono contento che tu ti sia messa già al lavoro. Mi raccomando, cucina bene.” La mia voce era ferma, autoritaria, come deve essere quella di un padre. Lei rispose piano, senza voltarsi: “Certo, papà.” Finì di preparare il khoresht, un pollo speziato che profumava l’aria, e mi allungò il piatto con entrambe le mani, un gesto di sottomissione che approvai. “Ecco, papà. Buon appetito. Posso andarmi a lavare o hai bisogno di altro?” Le ordinai: “Versami un bicchiere d’acqua e poi vai pure a lavarti.” Bevvi, osservando il suo collo sudato sotto il velo, una goccia che scivolava verso la clavicola. Era una donna ormai, con curve morbide sotto i vestiti larghi, ma la sua obbedienza mi rassicurava: era pura, come deve essere per un futuro marito.
Mentre mangiavo da solo, il silenzio della casa mi opprimeva. Tre settimane senza mia moglie, e il mio corpo urlava per un sollievo che la fede mi negava. Sentii l’acqua scorrere in bagno, la porta che si chiudeva. Una curiosità malsana mi assalì: era sbagliato, lo sapevo, ma come padre avevo il dovere di controllare la sua crescita, di assicurarmi che fosse pronta per la vita. Mi alzai, i piedi nudi sul pavimento freddo, e mi avvicinai alla porta. L’aprii appena, una fessura di pochi centimetri, coperta dal rumore dell’acqua che aspettava di scaldarsi. La vidi di spalle, mentre si toglieva le vesti: prima il velo, lasciando cadere i capelli folti e neri sulle spalle; poi la tunica, il grembiule, i pantaloni larghi. Il suo corpo emerse, leggermente robusto, con fianchi larghi e cosce piene, la pelle marrone dorato, liscia come seta persiana, calda sotto la luce fioca. I seni prosperosi, pesanti, con capezzoli grandi e scuri come datteri maturi. E l’intimità: curata ai lati per igiene, ma folta al centro, un triangolo nero e selvaggio che copriva le labbra, segno di una vergine non ancora preparata per un uomo. Il mio cuore accelerò; era sbagliato, ma in quella cultura dove il padre è il guardiano, dove la purezza è sacra, mi dissi che stavo solo vigilando.
Non resistetti. Spalancai la porta, il vapore mi investì come una nuvola calda. Layla sobbalzò, mani che coprivano i seni, l’acqua che le bagnava la schiena. “Papà, ma che fai?” disse, tono imbarazzato, voce tremante. Risposi secco: “Faccio pipì, non vedi. Continua a lavarti.” La casa è mia, faccio quello che voglio – è il mio diritto, come capofamiglia. Mi avvicinai al water, abbassai i pantaloni, il mio pene grande e peloso, i testicoli pesanti, che uscì semi-eretto. Feci pipì, ma i miei occhi la divoravano: il corpo bagnato, uno splendore sotto il getto, la pelle scura che brillava, i seni che ondeggiavano. Mi girai verso di lei, il membro che si induriva. “È casa mia. Faccio quello che voglio.” Lei girò la testa, mani tra le cosce, coprendo il pube folto. Aggiunsi: “Sbrigati con questa doccia, che l’acqua la pago io.” Annuì, testa bassa. Uscii, lasciando la porta spalancata, per ricordarle chi comanda.
L’astinenza mi tormentava, un fuoco che la vista di lei nuda aveva ravvivato. Vedere mia figlia così mi risvegliava voglie sepolte da settimane, un peccato che combattevo, ma Allah sa che un uomo ha bisogni. Aspettai che finisse la doccia, sentendo l’acqua fermarsi, i suoi passi leggeri. La chiamai in salotto: “Layla, vieni qui quando sei pronta.” Entrò con un abito lungo verde, il velo sistemato, capelli umidi. Mi sedetti sul divano, lei di fronte, occhi bassi. “Hai ventidue anni, Layla. Devi tenerti bene, devi essere brava per un futuro marito. Ma ho visto una cosa che non va per niente bene: hai la figa pelosa.” Usai quella parola cruda apposta, per farle capire che quella parte serve a una cosa sola – soddisfare un uomo – e deve essere curata, pronta. Arrossì, un filo di voce: “Scusa… non mi sono mai depilata completamente. Di solito parlo di queste cose con la mamma.” Risposi severo: “Ora tua madre non c’è, e io devo occuparmi di te. Questa situazione non può andare avanti così. Chi vuoi che ti prenda come moglie se sei così? Non sei per niente appetibile per un uomo.”
Le ordinai: “Vammi a prendere la mia schiuma da barba, la lametta, un asciugamano e una tinozza d’acqua.” “Perché, papà?” chiese, incerta. “Fallo e non fare altre domande. Devi ascoltarmi.” Andò in bagno, imbarazzata, impaurita – lo vedevo nei suoi occhi – ma obbediente, come deve essere. Tornò con tutto, mani tremanti. “Togliti il pantalone e l’intimo, alza la veste fino all’addome e siediti sulla poltrona.” Rimase pietrificata, arrossendo. “Non fare storie, spogliati.” Ancora immobile. “Non farmi perdere la pazienza, se no vengo lì, ti do due schiaffi in faccia e poi faccio quello che devo fare lo stesso. O con le buone o con le cattive.” Tentennò, ma alla fine obbedì: pantaloni e intimo a terra, asciugamano sotto il sedere, gambe chiuse, mani a coprirsi.
Le diedi un colpetto brusco al ginocchio: apri. Arrossì, ma adagiò le gambe sui braccioli, mani ancora lì. La guardai severo, e lei capì: tolse le mani, girò la testa di lato. Bagnai la zona con l’acqua calda, ammorbidendo i peli. Prima di applicare la schiuma, allargai le labbra con due dita: vidi l’imene intatto, piccolo e rosa, e mi eccitai, il pene che si induriva nella tuta. Inserii leggermente un dito, sentendo quanto fosse stretta, calda, vergine. Lo tolsi subito. Spalmai la schiuma, odore di mentolo, e rasai con attenzione, tirando la pelle per una rasatura perfetta. Lei guardava altrove, imbarazzata, ma era giusto: nessuno l’avrebbe presa con quei peli. Finii: vagina liscia, morbida, labbra paffute e scure. La toccai qua e là, controllando – perfetto.
Il mio pene era durissimo, scoppiava nella tuta. “Ok, ho finito. Ora almeno sei presentabile. Spostandoti le labbra ho visto che sei vergine, sei stata una brava ragazza. La tua purezza è importante. Ma di sicuro non hai esperienza, e non va bene.” Abbassai la tuta, avvicinai il pene al suo viso. Silenzio. “Dai, sarà una cosa veloce.” Ignorava, viso girato. Le spostai il mento: “Dai, su, non fare tante storie.” Impietrita. Presi il pene, lo spinsi tra le labbra chiuse, facendomi spazio, fino in fondo. Rimase ferma, così le presi la testa e iniziai un ritmo pieno, scopandole la bocca. La sentii piagnucolare, non contenta, ma mani ferme sulle gambe, nessuna opposizione. “Dai, muoviti un po’ da sola. Devi imparare.” Con mio stupore, prese il ritmo: lenta, timida, succhiando bene. Mi piacque, nonostante l’inesperienza. Pensai alla sua intimità nuda, vista in doccia e depilata, e arrivai al culmine: venni in bocca senza avvisare. Soffocò, ma la obbligai a continuare, a ingoiare tutto, a pulirmi con la lingua. Lo fece, senza storie, anche se scontenta.
Mi alzai i pantaloni. “Ora sistema tutto in bagno e comincia a pulire casa.” Andai in camera, la lasciai lì. Mi addormentai, stanco ma appagato. Al risveglio per cena, la casa era immacolata, la tavola apparecchiata, il cibo pronto. Non disse niente. È così che deve essere: obbedienza, ordine, fede. Domani pregherò per il perdono, ma so che ho fatto il mio dovere di padre.
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate tantissime : tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
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