Notte sul Freccia rossa
di
Panny
genere
etero
Erano le 23.47, stazione di Roma Termini.
Il Frecciarossa per Milano Centrale era quasi deserto, uno di quei treni notturni che sembrano fatti apposta per chi non ha fretta di arrivare e per chi, invece, ha fretta di tutto il resto.
Avevo preso il posto lato finestrino nell’ultima fila del vagone 8, quello silenzioso, luci basse, la maggior parte dei passeggeri già con la mascherina sugli occhi e le cuffie infilate. Io stavo leggendo, ma più che altro guardavo il riflesso del mio viso sul vetro nero della notte.
A Tiburtina sale lei.
Tacones che battono sul metallo, profumo di vaniglia e tabacco che arriva prima ancora che la veda.
Si ferma esattamente davanti al mio sedile, controlla il biglietto, alza un sopracciglio.
«Scusa, 71A… sei tu sul 71B?»
Annuisco.
Lei sospira, si china per infilare la valigia nella cappelliera e, porca puttana, quel culo stretto nei jeans chiari è una sentenza. Poi si siede accanto a me, si toglie la giacca di pelle e resta in una camicetta di seta color crema, due bottoni già aperti di loro iniziativa.
«Sono Valeria», dice senza guardarmi, mentre cerca qualcosa nella borsa.
«Lorenzo», rispondo.
Ha trentacinque anni, forse trentasette. Capelli neri lisci fino a metà schiena, bocca grande, rossetto mattone che sembra fatto per lasciare segni. Parla con una leggera cadenza laziale, di quelle che ti fanno capire che è cresciuta tra Trastevere e un po’ di periferia.
Il treno parte.
Lei tira fuori un piccolo flacone di profumo, se ne spruzza un po’ sul collo, poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si gira verso di me:
«Ti dà fastidio se appoggio la testa qui? Ho due ore di sonno arretrato e il poggiatesta è duro come la giustizia italiana.»
Indica la mia spalla.
Faccio cenno di no con la testa. Ride, un riso basso, quasi rauco.
Dieci minuti dopo la sua testa è già lì, capelli che mi solleticano il collo, il suo respiro caldo che passa attraverso la camicia.
Non dorme davvero. Lo capisco perché ogni tanto si muove, come per cercare una posizione più comoda, e ogni volta la sua mano finisce sulla mia coscia, prima come per caso, poi meno.
A Orte il treno rallenta, luci che si spengono del tutto. Buio quasi totale.
Sento le sue dita salire piano, lente, lungo la cucitura interna dei jeans.
Non dico niente. Non serve.
Si gira appena, la bocca vicina al mio orecchio.
«Hai le mani fredde o calde?» sussurra.
Le prendo la sua, la infilo sotto la mia felpa. Pelle liscia, calda. Lei sorride nel buio.
«Calde. Bene.»
Non c’è bisogno di parlare oltre.
Le sue dita trovano la zip, la abbassano piano, senza rumore. Io faccio lo stesso con i suoi jeans: bottone, zip, mano dentro. È già bagnata, le mutandine di pizzo nero sono solo un dettaglio. Infilo due dita direttamente, lei si morde il labbro per non fare rumore, ma un piccolo gemito le sfugge lo stesso.
Ci muoviamo lenti, attenti, come ladri.
Il treno dondola, i binari cantano, il vagone dorme.
Lei mi stringe il cazzo con una mano esperta, pollice che gira sulla cappella, saliva che usa come lubrificante senza mai sputare davvero, solo lasciando che la bocca faccia il lavoro quando serve. Io le tengo una mano tra le cosce, l’altra sul suo seno, sodo, un 4ª abbondante che riempie il palmo come se fosse stato fatto apposta.
A un certo punto si solleva appena, si cala i jeans fino a metà coscia, si mette praticamente in ginocchio sul sedile, girata verso di me. Mi prende in bocca, profondo, lento, senza fretta. Sento la lingua che gira, le labbra che stringono, la gola che si apre. Io le affondo la faccia tra le cosce da dietro, lecco da sopra il perizoma, poi lo sposto e la lingua trova il posto giusto. Sa di sesso, di voglia tenuta troppo a lungo.
Non dura tantissimo, non può durare.
Quando sente che sto per venire mi stringe la base con due dita, mi guarda negli occhi nel buio, poi si rimette comoda, mi sega veloce e deciso con la mano mentre con l’altra si tocca. Vengo in silenzio, sulle sue dita, sul bordo della sua camicetta di seta. Lei si lecca le labbra, si pulisce con un fazzoletto profumato, poi si china e mi bacia, lento, profondo, come se ci conoscessimo da anni.
Dopo Firenze il treno si svuota del tutto. Restiamo solo noi due in fondo al vagone.
Lei si addormenta davvero stavolta, la testa sul mio petto, la mia mano ancora infilata sotto la sua camicetta, sul seno caldo.
A Milano Centrale ci salutiamo con un bacio che sa di caffè e di sborra.
«Se ripigli lo stesso treno venerdì sera… posto 71B è libero», mi dice mentre scende.
Non le chiedo il numero. Non serve.
Chiudo la zip, prendo la giacca, esco nel freddo del mattino milanese con il sapore di lei ancora in bocca e la certezza che venerdì sera sarò di nuovo lì, stesso vagone, stesso posto.
E stavolta prenoterò il 71A.
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate tantissime : tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
Vi ringrazio davvero tanto per chi voglia scrivermi: lascio qui la mia e-mail.
u6753739252@gmail.com
Instagram: sara_gubbioracconti
Il Frecciarossa per Milano Centrale era quasi deserto, uno di quei treni notturni che sembrano fatti apposta per chi non ha fretta di arrivare e per chi, invece, ha fretta di tutto il resto.
Avevo preso il posto lato finestrino nell’ultima fila del vagone 8, quello silenzioso, luci basse, la maggior parte dei passeggeri già con la mascherina sugli occhi e le cuffie infilate. Io stavo leggendo, ma più che altro guardavo il riflesso del mio viso sul vetro nero della notte.
A Tiburtina sale lei.
Tacones che battono sul metallo, profumo di vaniglia e tabacco che arriva prima ancora che la veda.
Si ferma esattamente davanti al mio sedile, controlla il biglietto, alza un sopracciglio.
«Scusa, 71A… sei tu sul 71B?»
Annuisco.
Lei sospira, si china per infilare la valigia nella cappelliera e, porca puttana, quel culo stretto nei jeans chiari è una sentenza. Poi si siede accanto a me, si toglie la giacca di pelle e resta in una camicetta di seta color crema, due bottoni già aperti di loro iniziativa.
«Sono Valeria», dice senza guardarmi, mentre cerca qualcosa nella borsa.
«Lorenzo», rispondo.
Ha trentacinque anni, forse trentasette. Capelli neri lisci fino a metà schiena, bocca grande, rossetto mattone che sembra fatto per lasciare segni. Parla con una leggera cadenza laziale, di quelle che ti fanno capire che è cresciuta tra Trastevere e un po’ di periferia.
Il treno parte.
Lei tira fuori un piccolo flacone di profumo, se ne spruzza un po’ sul collo, poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si gira verso di me:
«Ti dà fastidio se appoggio la testa qui? Ho due ore di sonno arretrato e il poggiatesta è duro come la giustizia italiana.»
Indica la mia spalla.
Faccio cenno di no con la testa. Ride, un riso basso, quasi rauco.
Dieci minuti dopo la sua testa è già lì, capelli che mi solleticano il collo, il suo respiro caldo che passa attraverso la camicia.
Non dorme davvero. Lo capisco perché ogni tanto si muove, come per cercare una posizione più comoda, e ogni volta la sua mano finisce sulla mia coscia, prima come per caso, poi meno.
A Orte il treno rallenta, luci che si spengono del tutto. Buio quasi totale.
Sento le sue dita salire piano, lente, lungo la cucitura interna dei jeans.
Non dico niente. Non serve.
Si gira appena, la bocca vicina al mio orecchio.
«Hai le mani fredde o calde?» sussurra.
Le prendo la sua, la infilo sotto la mia felpa. Pelle liscia, calda. Lei sorride nel buio.
«Calde. Bene.»
Non c’è bisogno di parlare oltre.
Le sue dita trovano la zip, la abbassano piano, senza rumore. Io faccio lo stesso con i suoi jeans: bottone, zip, mano dentro. È già bagnata, le mutandine di pizzo nero sono solo un dettaglio. Infilo due dita direttamente, lei si morde il labbro per non fare rumore, ma un piccolo gemito le sfugge lo stesso.
Ci muoviamo lenti, attenti, come ladri.
Il treno dondola, i binari cantano, il vagone dorme.
Lei mi stringe il cazzo con una mano esperta, pollice che gira sulla cappella, saliva che usa come lubrificante senza mai sputare davvero, solo lasciando che la bocca faccia il lavoro quando serve. Io le tengo una mano tra le cosce, l’altra sul suo seno, sodo, un 4ª abbondante che riempie il palmo come se fosse stato fatto apposta.
A un certo punto si solleva appena, si cala i jeans fino a metà coscia, si mette praticamente in ginocchio sul sedile, girata verso di me. Mi prende in bocca, profondo, lento, senza fretta. Sento la lingua che gira, le labbra che stringono, la gola che si apre. Io le affondo la faccia tra le cosce da dietro, lecco da sopra il perizoma, poi lo sposto e la lingua trova il posto giusto. Sa di sesso, di voglia tenuta troppo a lungo.
Non dura tantissimo, non può durare.
Quando sente che sto per venire mi stringe la base con due dita, mi guarda negli occhi nel buio, poi si rimette comoda, mi sega veloce e deciso con la mano mentre con l’altra si tocca. Vengo in silenzio, sulle sue dita, sul bordo della sua camicetta di seta. Lei si lecca le labbra, si pulisce con un fazzoletto profumato, poi si china e mi bacia, lento, profondo, come se ci conoscessimo da anni.
Dopo Firenze il treno si svuota del tutto. Restiamo solo noi due in fondo al vagone.
Lei si addormenta davvero stavolta, la testa sul mio petto, la mia mano ancora infilata sotto la sua camicetta, sul seno caldo.
A Milano Centrale ci salutiamo con un bacio che sa di caffè e di sborra.
«Se ripigli lo stesso treno venerdì sera… posto 71B è libero», mi dice mentre scende.
Non le chiedo il numero. Non serve.
Chiudo la zip, prendo la giacca, esco nel freddo del mattino milanese con il sapore di lei ancora in bocca e la certezza che venerdì sera sarò di nuovo lì, stesso vagone, stesso posto.
E stavolta prenoterò il 71A.
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate tantissime : tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
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