Una cugina libertina
          
            
              di
Panny
            
            
              genere
incesti
            
          
        
        
          Sono Michele, ho 27 anni e vivo in un piccolo appartamento a Parma. Da qualche giorno ospito mia cugina Eleonora, che è venuta qui per studiare all’università. Non ha trovato un alloggio, e mia zia mi ha implorato di farla stare da me. Siamo cresciuti insieme, ma condividere lo spazio con lei si è rivelato… complicato. Soprattutto per me.
I primi giorni sono stati un turbine di imbarazzi. Io cercavo di essere discreto: giravo per casa con la maglietta, ma la mattina, appena sveglio, capitava di uscire in boxer per prendere un caffè. Oppure, dopo la doccia, con l’asciugamano stretto in vita, sentivo le guance arrossire al pensiero che lei potesse vedermi. Il bagno è uno solo, con la doccia, e il salotto è lo spazio comune dove ci incrociamo inevitabilmente. Io mi sentivo a disagio, come se stessi invadendo il suo spazio o viceversa.
Eleonora, invece, sembrava non provare alcun imbarazzo. Girava per casa con una maglia lunga, di quelle che le arrivavano appena sotto il sedere, senza pantaloni. Sotto, solo un perizoma nero. Ogni volta che saltellava da una stanza all’altra, o si chinava per prendere qualcosa dal frigo, il tessuto si alzava quel tanto che bastava a mostrare il suo fondoschiena sodo, diviso da quel filo sottile. La maglia, poi, era aderente: dai lati si intravedevano le curve del seno, libero sotto il tessuto leggero. I capezzoli, duri per il fresco del mattino o per chissà cos’altro, premevano contro la stoffa, disegnando forme che non potevo fare a meno di notare. E lei? Faceva la doccia con la porta spalancata, il vapore che usciva in corridoio, e si cambiava in camera lasciando l’uscio socchiuso, come se fosse sola.
Un giorno non ce la feci più. La presi da parte in cucina, mentre preparava un tè. “Eleonora, ascolta… mi metti un po’ in imbarazzo. Girare mezza nuda per casa, con me qui… rischi di farti vedere, capisci?”
Lei mi guardò con quegli occhi grandi, un sorrisetto sulle labbra. “Io non mi sento in imbarazzo se mi guardi. Siamo cresciuti insieme, Michele. Non mi dà fastidio.” Rimasi senza parole, allibito. Feci solo un cenno con la testa, per farle capire che avevo capito. O almeno, che ci provavo.
La mattina dopo mi svegliai presto. Andai in bagno, mi sedetti sul water e, per una cosa o per l’altra, mi ritrovai con il membro in mano. Stavo dando piacere a me stesso, stringendolo bene, prendendomi cura di ogni movimento. La mano scivolava dolce, lenta, fino a quando un brivido mi fece accelerare. Fu allora che la porta si spalancò di botto. Eleonora era lì, in piedi, con i capelli arruffati dal sonno. “Scusa! Vado dopo, finisci pure,” disse, arrossendo per un istante prima di chiudersi la porta alle spalle.
Sprofondai dalla vergogna. Non volevo uscire dal bagno. Quando finalmente lo feci, lei era già andata all’università. Preparai il pranzo – un riso semplice – e quando tornò, le feci trovare tutto pronto. Si sedette di fronte a me, sistemando lo zaino. Il silenzio era tombale; fissavo il piatto come se fosse la cosa più interessante del mondo.
“So che siamo cresciuti insieme,” disse lei rompendo il ghiaccio, “ma non mi aspettavo che ti ambientassi subito così… facendoti trovare mentre ti dai piacere.”
Arrossii violentemente. “Ho… ho dimenticato di chiudere a chiave,” balbettai, la voce tremante.
Lei sorrise, un sorriso dolce e complice. “Non è un problema. Non mi ha turbata. Anzi, è una cosa che faccio anch’io, per alleviare lo stress.”
Finimmo di mangiare in silenzio, poi sistemammo e ci ritirammo ognuno nella propria stanza a studiare.
Arrivò la sera. Dopo cena, ci ritrovammo sul divano, luci spente, la TV accesa su un film qualunque. Eravamo vestiti comodi: io in maglietta e pantaloncini, lei con una maglia larga e un perizoma – uno di quei soliti, nero e minuscolo. Era seduta in modo da lasciarmi intravedere tutto: le chiappe tonde, separate da quel filo di tessuto che spariva tra di esse.
Girò la testa e mi beccò mentre guardavo fra le sue gambe. Spostai subito lo sguardo sulla TV, ma era troppo tardi.
“Ti piace quello che stai vedendo?” sussurrò con un filo di voce maliziosa. “O forse stai cercando di guardarmi più che puoi, per poi usare il ricordo in bagno?”
Non riuscii a non guardarla. Era lì, in bella vista. “Non è che non riesca… è che sei tu,” risposi, la voce bassa.
Lei rise piano, un suono provocante. “Non sono in bella vista.” Allargò lentamente le gambe, facendomi vedere il davanti delle mutandine semi-trasparenti, il tessuto che accennava alle sue forme intime. “Così sono in bella vista.”
Il cuore mi spalancava nel petto. L’eccitazione mi travolse. Senza chiedere, allungai la mano, sfiorando le sue labbra da sopra l’intimo. Il tessuto era caldo, leggermente umido. Le dita tracciarono i contorni, premendo piano sulle pieghe morbide, sentendo il calore irradiarsi. Eleonora non mi fermò; anzi, sospirò piano, lasciando che continuassi.
Spostai il perizoma di lato con delicatezza, rivelando la sua intimità liscia e invitante. Le mutandine rimasero lì, piegate su un lato, con un piccolo alone umido che bagnava il tessuto nero, una macchia lucida che tradiva il suo desiderio. Le dita scivolarono direttamente sulla pelle calda, accarezzando le labbra esterne, separandole piano per esplorare il centro bagnato. Infilai un dito, poi due, completamente dentro di lei. Era stretta, accogliente, un calore vellutato che pulsava intorno alle mie dita. Eleonora inarcò leggermente la schiena, un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra. Sentiva ogni movimento: le dita che entravano e uscivano lente, curvandosi per sfiorare quel punto sensibile dentro di lei, facendola tremare. Il suo respiro si fece affannoso, le cosce si aprirono di più, il corpo che si abbandonava al piacere, bagnandosi sempre di più fino a lasciare una traccia sul divano.
Dopo un po’, allungò una gamba. Il suo piede nudo sfiorò la mia erezione attraverso i pantaloncini, massaggiandomi con tocchi esperti, premendo e ruotando piano per far crescere la durezza dentro di me. Si avvicinò, fece uscire il mio pene – ormai duro come il marmo, la punta umida di pre-eiaculazione. Lo prese in mano con sicurezza, le dita che lo avvolgevano alla base, stringendo quel tanto che bastava a farmi gemere. Sapeva esattamente cosa fare: movimenti lenti e ritmati, la mano che saliva e scendeva, il pollice che sfregava la cappella sensibile, raccogliendo l’umidità per lubrificare ogni carezza. Si chinò al mio orecchio: “È così che lo muovi quando sei solo?”
Annuii con un piccolo cenno, perso nel piacere.
Lei continuò a segarmi, la presa ferma ma gentile, alternando velocità per tenermi sul filo del godimento. Io la toccavo con più intensità, le dita affondate completamente dentro di lei, spingendo e ruotando, sentendo i suoi muscoli contrarsi intorno a me. Eleonora ansimava, il corpo che si inarcava, il piacere che montava in ondate calde e liquide.
Venni per primo, riversandomi sulla sua mano in spruzzi caldi e abbondanti. Lei si portò un dito alla bocca, leccandolo piano, assaggiando il mio sperma con un sorriso complice.
Poi fu il suo turno. Venni bagnando il divano, un fiotto caldo che sfuggì mentre le mie dita erano ancora dentro di lei. Guardai la macchia umida, sorridendo, e rimasi fermo, godendomi la sua pulsazione intorno a me.
Eleonora mi guardò, gli occhi lucidi. “Che fai? Non mi assaggi? Io so di cosa sai, tocca a te. Così siamo pari.”
Spillai le due dita dalla sua vagina, ancora lucide del suo piacere. Me le portai alla bocca, chiudendo gli occhi mentre assaggiavo: un sapore dolce-salato, muschiato, che mi piacque immediatamente. Per scherzare, le infilai di nuovo dentro di lei senza preavviso – un piccolo sussulto le sfuggì dalla bocca – poi le tirai fuori e gliele portai alle labbra. “Eleonora, ti piace il tuo sapore?”
Lei, spiazzata ma maliziosa, allungò un dito sporco del mio sperma e, con aria di sfida, me lo passò sulle labbra. “È il tuo sperma. Ti piace?”
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate più di 50: tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
Vi ringrazio davvero tanto per chi voglia scrivermi: lascio qui la mia e-mail.
u6753739252@gmail.com
        
        I primi giorni sono stati un turbine di imbarazzi. Io cercavo di essere discreto: giravo per casa con la maglietta, ma la mattina, appena sveglio, capitava di uscire in boxer per prendere un caffè. Oppure, dopo la doccia, con l’asciugamano stretto in vita, sentivo le guance arrossire al pensiero che lei potesse vedermi. Il bagno è uno solo, con la doccia, e il salotto è lo spazio comune dove ci incrociamo inevitabilmente. Io mi sentivo a disagio, come se stessi invadendo il suo spazio o viceversa.
Eleonora, invece, sembrava non provare alcun imbarazzo. Girava per casa con una maglia lunga, di quelle che le arrivavano appena sotto il sedere, senza pantaloni. Sotto, solo un perizoma nero. Ogni volta che saltellava da una stanza all’altra, o si chinava per prendere qualcosa dal frigo, il tessuto si alzava quel tanto che bastava a mostrare il suo fondoschiena sodo, diviso da quel filo sottile. La maglia, poi, era aderente: dai lati si intravedevano le curve del seno, libero sotto il tessuto leggero. I capezzoli, duri per il fresco del mattino o per chissà cos’altro, premevano contro la stoffa, disegnando forme che non potevo fare a meno di notare. E lei? Faceva la doccia con la porta spalancata, il vapore che usciva in corridoio, e si cambiava in camera lasciando l’uscio socchiuso, come se fosse sola.
Un giorno non ce la feci più. La presi da parte in cucina, mentre preparava un tè. “Eleonora, ascolta… mi metti un po’ in imbarazzo. Girare mezza nuda per casa, con me qui… rischi di farti vedere, capisci?”
Lei mi guardò con quegli occhi grandi, un sorrisetto sulle labbra. “Io non mi sento in imbarazzo se mi guardi. Siamo cresciuti insieme, Michele. Non mi dà fastidio.” Rimasi senza parole, allibito. Feci solo un cenno con la testa, per farle capire che avevo capito. O almeno, che ci provavo.
La mattina dopo mi svegliai presto. Andai in bagno, mi sedetti sul water e, per una cosa o per l’altra, mi ritrovai con il membro in mano. Stavo dando piacere a me stesso, stringendolo bene, prendendomi cura di ogni movimento. La mano scivolava dolce, lenta, fino a quando un brivido mi fece accelerare. Fu allora che la porta si spalancò di botto. Eleonora era lì, in piedi, con i capelli arruffati dal sonno. “Scusa! Vado dopo, finisci pure,” disse, arrossendo per un istante prima di chiudersi la porta alle spalle.
Sprofondai dalla vergogna. Non volevo uscire dal bagno. Quando finalmente lo feci, lei era già andata all’università. Preparai il pranzo – un riso semplice – e quando tornò, le feci trovare tutto pronto. Si sedette di fronte a me, sistemando lo zaino. Il silenzio era tombale; fissavo il piatto come se fosse la cosa più interessante del mondo.
“So che siamo cresciuti insieme,” disse lei rompendo il ghiaccio, “ma non mi aspettavo che ti ambientassi subito così… facendoti trovare mentre ti dai piacere.”
Arrossii violentemente. “Ho… ho dimenticato di chiudere a chiave,” balbettai, la voce tremante.
Lei sorrise, un sorriso dolce e complice. “Non è un problema. Non mi ha turbata. Anzi, è una cosa che faccio anch’io, per alleviare lo stress.”
Finimmo di mangiare in silenzio, poi sistemammo e ci ritirammo ognuno nella propria stanza a studiare.
Arrivò la sera. Dopo cena, ci ritrovammo sul divano, luci spente, la TV accesa su un film qualunque. Eravamo vestiti comodi: io in maglietta e pantaloncini, lei con una maglia larga e un perizoma – uno di quei soliti, nero e minuscolo. Era seduta in modo da lasciarmi intravedere tutto: le chiappe tonde, separate da quel filo di tessuto che spariva tra di esse.
Girò la testa e mi beccò mentre guardavo fra le sue gambe. Spostai subito lo sguardo sulla TV, ma era troppo tardi.
“Ti piace quello che stai vedendo?” sussurrò con un filo di voce maliziosa. “O forse stai cercando di guardarmi più che puoi, per poi usare il ricordo in bagno?”
Non riuscii a non guardarla. Era lì, in bella vista. “Non è che non riesca… è che sei tu,” risposi, la voce bassa.
Lei rise piano, un suono provocante. “Non sono in bella vista.” Allargò lentamente le gambe, facendomi vedere il davanti delle mutandine semi-trasparenti, il tessuto che accennava alle sue forme intime. “Così sono in bella vista.”
Il cuore mi spalancava nel petto. L’eccitazione mi travolse. Senza chiedere, allungai la mano, sfiorando le sue labbra da sopra l’intimo. Il tessuto era caldo, leggermente umido. Le dita tracciarono i contorni, premendo piano sulle pieghe morbide, sentendo il calore irradiarsi. Eleonora non mi fermò; anzi, sospirò piano, lasciando che continuassi.
Spostai il perizoma di lato con delicatezza, rivelando la sua intimità liscia e invitante. Le mutandine rimasero lì, piegate su un lato, con un piccolo alone umido che bagnava il tessuto nero, una macchia lucida che tradiva il suo desiderio. Le dita scivolarono direttamente sulla pelle calda, accarezzando le labbra esterne, separandole piano per esplorare il centro bagnato. Infilai un dito, poi due, completamente dentro di lei. Era stretta, accogliente, un calore vellutato che pulsava intorno alle mie dita. Eleonora inarcò leggermente la schiena, un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra. Sentiva ogni movimento: le dita che entravano e uscivano lente, curvandosi per sfiorare quel punto sensibile dentro di lei, facendola tremare. Il suo respiro si fece affannoso, le cosce si aprirono di più, il corpo che si abbandonava al piacere, bagnandosi sempre di più fino a lasciare una traccia sul divano.
Dopo un po’, allungò una gamba. Il suo piede nudo sfiorò la mia erezione attraverso i pantaloncini, massaggiandomi con tocchi esperti, premendo e ruotando piano per far crescere la durezza dentro di me. Si avvicinò, fece uscire il mio pene – ormai duro come il marmo, la punta umida di pre-eiaculazione. Lo prese in mano con sicurezza, le dita che lo avvolgevano alla base, stringendo quel tanto che bastava a farmi gemere. Sapeva esattamente cosa fare: movimenti lenti e ritmati, la mano che saliva e scendeva, il pollice che sfregava la cappella sensibile, raccogliendo l’umidità per lubrificare ogni carezza. Si chinò al mio orecchio: “È così che lo muovi quando sei solo?”
Annuii con un piccolo cenno, perso nel piacere.
Lei continuò a segarmi, la presa ferma ma gentile, alternando velocità per tenermi sul filo del godimento. Io la toccavo con più intensità, le dita affondate completamente dentro di lei, spingendo e ruotando, sentendo i suoi muscoli contrarsi intorno a me. Eleonora ansimava, il corpo che si inarcava, il piacere che montava in ondate calde e liquide.
Venni per primo, riversandomi sulla sua mano in spruzzi caldi e abbondanti. Lei si portò un dito alla bocca, leccandolo piano, assaggiando il mio sperma con un sorriso complice.
Poi fu il suo turno. Venni bagnando il divano, un fiotto caldo che sfuggì mentre le mie dita erano ancora dentro di lei. Guardai la macchia umida, sorridendo, e rimasi fermo, godendomi la sua pulsazione intorno a me.
Eleonora mi guardò, gli occhi lucidi. “Che fai? Non mi assaggi? Io so di cosa sai, tocca a te. Così siamo pari.”
Spillai le due dita dalla sua vagina, ancora lucide del suo piacere. Me le portai alla bocca, chiudendo gli occhi mentre assaggiavo: un sapore dolce-salato, muschiato, che mi piacque immediatamente. Per scherzare, le infilai di nuovo dentro di lei senza preavviso – un piccolo sussulto le sfuggì dalla bocca – poi le tirai fuori e gliele portai alle labbra. “Eleonora, ti piace il tuo sapore?”
Lei, spiazzata ma maliziosa, allungò un dito sporco del mio sperma e, con aria di sfida, me lo passò sulle labbra. “È il tuo sperma. Ti piace?”
Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate più di 50: tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
Vi ringrazio davvero tanto per chi voglia scrivermi: lascio qui la mia e-mail.
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