La cagna d'ufficio 2

di
genere
dominazione

Il giorno dopo si svolse con la stessa rituale precisione. Sharon strisciò sul tappeto persiano, il familiare morso del collare di cuoio che le si depositava contro la trachea. Mangiò il gel proteico dalla ciotola d'acciaio, raschiando con la lingua il freddo metallo mentre Thorne dettava email sopra di lei, con la scarpa Oxford appoggiata possessivamente sulla sua schiena. Le ore si confondevano l'una con l'altra: una foschia di obbediente immobilità, punteggiata solo dall'occasionale recupero dell'osso di gomma rosso lanciato verso la finestra panoramica. La sera dipingeva l'orizzonte di lividi viola quando la voce di Thorne squarciò il silenzio dell'aria condizionata. "Andiamo a fare una passeggiata." Non alzò lo sguardo dal tablet. Sharon si bloccò a metà accovacciandosi, i muscoli contratti. Una passeggiata? Le parole echeggiarono, assurde, impossibili. I suoi occhi guizzarono sul suo volto impassibile riflesso nel vetro che si oscurava. No. Non poteva essere reale. Sembrava una trappola, un esame per cui non aveva studiato. Il panico le svolazzò improvviso e brusco dietro le costole .

Prima che Thorne potesse aggiungere altro, lei si contorse sotto la sua scarpa e balzò sulle ginocchia, uno scatto innaturale. "Scusi, signore!" Il guaito le sfuggì troppo acuto mentre sgattaiolava verso la sedia dove erano piegati i suoi vestiti. Le dita tremanti afferrarono la camicetta bianca, la gonna grigia, le mutandine di pizzo. Non si vestì completamente; infilò solo le mutandine e la camicetta sbottonata sopra il corpo nudo e sudato, poi afferrò la borsa e fuggì dall'ufficio senza voltarsi, lasciando il collare rosso appeso al suo gancio dorato. Le porte dell'ascensore si chiusero sul suo riflesso spettinato e ansimante.
A casa, sotto il getto bollente della doccia, Sharon strofinò la pelle fino a farla diventare rosa. L'acqua non lavava via la sensazione di quelle dita invisibili che le premevano sulla nuca ogni volta che Thorne diceva "brava cagnolina". Strofinò più forte. Fuori, la pioggia autunnale batteva contro il vetro mentre lei asciugava i capelli con violenza, osservando la collana di cuoio abbandonata sul tavolo della cucina. Una passeggiata? Di notte? Il ricordo del suo tono piatto, dell'Oxford sulla sua schiena, della ciotola fredda contro i denti. No. Non sarebbe uscita come un cane al guinzaglio. Strappò un sacchetto di patatine dalla dispensa, mangiandole in piedi davanti al frigorifero aperto, le briciole che cadevano sulla pelle pulita .



Le strade erano deserte quando uscì, avvolta solo in un cappotto di lana nero lungo fino alle cosce. Niente sotto. Solo pelle e tessuto ruvido contro i polpastrelli mentre stringeva i lembi. Il parco era una macchia d'inchiostro oltre i lampioni, le panchine vuote sotto la pioggia leggera. Si fermò sotto un tiglio scheletrico, il cuore che martellava contro le costole. L'orologio del municipio batté mezzanotte. Niente. Solo il fruscio delle foglie morte e il suo respiro che fumava nell'aria umida. Forse era una prova? Un modo per vedere se obbediva anche fuori dall'ufficio? Si sedette sulla panchina bagnata, il freddo del metallo che le salì lungo le cosce nude .
Il rombo del motore arrivò basso e preciso, come un coltello che squarcia il silenzio. Una Bentley Phantom nera scivolò accanto al marciapiede. La portiera si aprì. Thorne emerse, impeccabile nel completo grigio ferro anche a quell'ora. Non sorrise. Non aggrottò la fronte. Nella mano sinistra, pendente come un serpente addormentato, c'era il collare di cuoio rosso. La fibbia d'oro luccicò sotto il lampione .

Sharon si alzò dalla panchina in un solo movimento fluido. Non ci pensò. Non ci fu scelta. Le sue dita sciolsero il nodo del cappotto di lana. Il tessuto pesante scivolò sul selciato bagnato con un tonfo sordo. Poi si chinò, afferrò le cinghie delle sue ballerine nere, e le sfilò. Il freddo dell'asfalto penetrò nella pianta dei piedi nudi. Rimase perfettamente immobile, la pioggia leggera che le percorreva la schiena scoperta, i fianchi, le cosce. Nuda sotto il cielo autunnale. Si inginocchiò sulla strada umida, il fango che le macchiò le ginocchia. Abbassò la testa, fissando le punte lucide delle sue Oxford .



Thorne avanzò senza fretta. Le gocce di pioggia scivolarono sul suo ombrello nero. Le sue scarpe si fermarono a pochi centimetri dalle sue mani appoggiate sul selciato. Sharon sentì l'odore familiare del suo dopobarba tagliente mescolato alla pioggia. Senza una parola, senza un cambiamento nel respiro, le sue dita fredde sollevarono i suoi capelli umidi. Il collare di cuoio rosso si chiuse intorno alla sua gola con uno schiocco netto, metallico. Il familiare morso contro la trachea. Il peso del fermaglio d'oro. Un brivido le attraversò la spina dorsale .

Lei si chinò in avanti prima che il guinzaglio potesse tirare. Le sue labbra sfiorarono la tomaia liscia della Oxford sinistra. Un bacio umido e silenzioso sul cuoio nero lucido. Poi sulla destra. Sentì il sapore della pioggia, dello sporco della strada, della cera di cedro. Un atto di sottomissione completo, senza esitazione. Thorne emise un lieve rumore di approvazione nella gola, quasi impercettibile sopra il fruscio della pioggia .



Il guinzaglio si attaccò all'anello dorato con uno scatto metallico. Un suono definitivo. Thorne diede un leggero strattonetto verso la Bentley. Sharon si alzò sulle ginocchia tremanti, il collare che le premeva contro la trachea ad ogni respiro accelerato. Seguì a quattro zampe sul marciapiede bagnato, il fango che si incrostava sulle sue ginocchia nude, l'asfalto ruvido che graffiava i palmi delle mani. La pioggia scivolava lungo la sua schiena, le gocce che seguivano la curva della colonna vertebrale prima di perdersi nella fessura tra i glutei .

Thorne avanzò verso il cancello del parco con passo misurato, l'ombrello nero che proiettava un'ombra lunga sul selciato illuminato dai lampioni. Sharon seguì a pochi centimetri dalla sua gamba destra, sincronizzando il movimento delle proprie mani e ginocchia con il ritmo delle sue Oxford. Ogni passo di Thorne era un comando silenzioso. Il guinzaglio rimase morbido, quasi superfluo. Lei non guardò in alto, non cercò il suo sguardo. Gli occhi fissi sullo scintillio della fibbia d'oro che oscillava appena sopra il selciato bagnato. Un senso di strana euforia le gonfiò il petto, calda e densa come miele. Era qui. Proprio così. Nuda sotto la pioggia autunnale, al suo posto .

La ghiaia del viale principale penetrò nelle ginocchia già graffiate, un dolore familiare che la radicò al momento. Thorne rallentò il passo, permettendole di mantenersi perfettamente allineata alla sua gamba. Sharon inspirò profondamente l'odore di terra bagnata, di foglie marce, di cedro del suo dopobarba. Il collare premeva, un promemoria costante e rassicurante della sua presenza. Ogni strattone leggero del guinzaglio, ogni lieve aggiustamento della sua andatura da parte di Thorne, era una conferma. Un dialogo senza parole che diceva: "Sei qui. Sei mia". Un fremito di pura soddisfazione le attraversò la schiena quando una goccia di pioggia fredda scivolò lungo la curva del suo coccige .

Passarono accanto a una panchina vuota, il legno impregnato d'acqua che luccicava sotto il lampione. Sharon non alzò lo sguardo, ma percepì il riflesso distorto sul metallo bagnato: la figura alta e impeccabile di Thorne, l'ombra informe e quadrupede che le stava ai piedi. La disparità era totale, assoluta. Lui, padrone del mondo in grigio ferro. Lei, creatura del selciato, nuda e docile. La perfezione di quell'immagine le fece contrarre dolcemente lo stomaco. Questo era il suo posto. Non nascosta in un ufficio, ma esposta, posseduta, sotto la pioggia e il cielo notturno .

Thorne rallentò impercettibilmente davanti a una pozzanghera che rifletteva le luci della città. Sharon si fermò senza bisogno di strattoni, le ginocchia nel fango freddo, le mani appoggiate sull'asfalto ruvido. Attese. Sentì, piuttosto che vide, il cambiamento nella sua postura. Un leggero spostamento del peso, una rotazione quasi impercettibile del torso. Lo stava osservando. Non come si osserva un oggetto, ma come si contempla un'opera d'arte perfettamente collocata nel suo ambiente. La pioggia scivolava lungo la curva dei suoi fianchi, disegnava sentieri sulla pelle pallida della schiena, si raccoglieva nella fossetta lombare prima di precipitare giù. Il freddo era un brivido costante, ma sotto quello sguardo intenso, silenzioso, si trasformava in una strana forma di calore .

Nessuna parola fu pronunciata. Solo il ticchettio della pioggia sull'ombra nera e il fruscio del tessuto grigio ferro quando Thorne inclinò leggermente la testa. I suoi occhi percorsero la linea della sua spina dorsale, la tensione dei muscoli scapolari, la fragilità delle scapole che emergevano dalla pelle umida come ali spezzate. Si soffermarono sulla fossetta alla base della nuca, dove il collare di cuoio rosso scavava un solco delicato nella carne. Un'espressione fugace, quasi indistinguibile nell'ombra dell'ombrello, attraversò il suo volto: non un sorriso, ma un appagamento profondo, il sollievo di un collezionista che trova finalmente il pezzo mancante alla sua vetrina. Sharon abbassò ancora di più la testa, offrendo la nuca, sentendo il peso di quello sguardo come una carezza fisica .

Thorne avanzò verso una panchina di ferro battuto sotto un lampione che proiettava una luce giallastra sulla ghiaia bagnata. Si sedette con eleganza studiata, le gambe divise leggermente, le mani appoggiate sulle ginocchia. Sharon strisciò immediatamente verso di lui sui palmi e sulle ginocchia sanguinanti, il guinzaglio che penzolava molle tra loro. Si fermò tra le sue gambe aperte, le labbra ancora umide dal bacio sulle Oxford. Senza un comando, senza un cenno, si sistemò sulle ginocchia, la schiena curva in un arco perfetto di sottomissione, il viso rivolto verso il selciato sotto di lui. Il respiro le usciva a fiotti corti, visibili nell'aria fredda. Attese. Il silenzio era più denso della pioggia .

Le dita di Thorne, fredde e precise come scalpelli, le sfiorarono prima la nuca, proprio dove il cuoio del collare affondava nella carne. Poi scivolarono lungo la sua spina dorsale, una linea di fuoco gelido sulla pelle umida. Sharon trattenne il respiro quando quelle dita raggiunsero la curva dei suoi glutei, indugiando sulla fossetta lombare dove si raccoglieva l'acqua piovana. Non ci fu preludio. La sua mano destra si insinuò bruscamente tra le sue cosce nude dalla parte anteriore. Le dita lunghe e affilate le penetrarono nella fessura umida con una pressione esatta, impersonale. Sharon emise un guaito strozzato, il corpo che si irrigidiva per poi cedere all'istante, le anche che spingevano all'indietro contro l'invasione. Le sue dita lavoravano con meticolosa efficienza, sfregando il clitoride gonfio, penetrando profondamente nel calore umido che contrastava violentemente con l'aria autunnale. Non era carezza. Era misurazione, possesso fisico della sua reazione. Sharon ansimava ad ogni tocco, le unghie che graffiavano il selciato, la schiena che si inarcava come un arco teso. La pioggia sembrava evaporare dove lui la toccava .

La mano sinistra di Thorne salì mentre la destra continuava il suo lavoro implacabile. Le dita fredde afferrarono un seno, palparono la carne tremante con la stessa attenzione clinica con cui avrebbe esaminato un campione. Il pollice sfregò un capezzolo indurito, pizzicandolo con forza calcolata. Sharon gemette, un suono roco che si perse nel fruscio della pioggia. L'orgasmo la colpì come un fulmine, improvviso e violento, scatenato dalla combinazione brutale di freddo, dolore e stimolazione precisa. Il suo corpo si scosse, le ginocchia scivolarono sulla ghiaia, un fiotto caldo e improvviso schizzò contro le dita di Thorne che ancora la penetravano, mescolandosi alla pioggia che scorreva lungo le sue cosce interne. Rimase tremante, appesa alle sue mani, il respiro un rantolo convulso nell'aria umida .

Thorne ritrasse la mano destra lentamente, le dita lucide di fluido corporeo e acqua piovana. Le tenne sospese davanti al suo volto senza espressione. Sharon non attese un ordine. Si protese in avanti, la lingua calda e ruvida che uscì per leccare con cura il palmo, le dita, gli spazi tra le nocche. Il sapore salato-muschiato della sua eccitazione si mescolava al metallo della pioggia e al cedro del suo dopobarba. Pulì ogni traccia con devozione silenziosa, le labbra che seguivano le vene sporgenti sul dorso della mano, la lingua che raccoglieva l'ultima goccia dalla punta del suo indice. Quando ebbe finito, rimase inginocchiata, il mento sollevato, gli occhi bassi sulle sue Oxford macchiate di fango .

La mano di Thorne si abbassò, il palmo rivolto verso il cielo piovoso. Sharon capì. Sollevò tremante la sua mano destra, imitando il gesto di un cane che offre la zampa. Le sue dita erano sporche di ghiaia e fango, le unghie rotte. Thorne afferrò il polso con una presa fredda e ferma, sollevando la sua mano ancora più in alto. Non un tocco gentile, ma una presa di controllo. Sharon lasciò sfuggire un gemito lungo e tremulo quando il suo pollice iniziò a premere con forza crescente contro il centro del suo palmo. Era una pressione calcolata, dolorosa, che schiacciava i nervi sensibili contro le ossa. Il dolore si irradiò lungo il braccio come elettricità statica, facendole contrarre le dita. Un altro gemito, più acuto, le sfuggì mentre il suo pollice ruotava lentamente, torcendo la carne del palmo contro le articolazioni. Le lacrime le bruciarono gli occhi, mescolandosi alla pioggia sul viso. Non ritrasse la mano. La offrì, tremante e vulnerabile, mentre il dolore si trasformava in una strana, bruciante euforia .

Thorne rilasciò la presa all'improvviso. Sharon lasciò cadere la mano tremante sul selciato, il palmo martoriato che pulsava a ogni battito del cuore. Senza una parola, lui si alzò dalla panchina. Un leggero strattoncino del guinzaglio la fece avanzare a quattro zampe verso un vecchio platano sul bordo del viale. La corteccia screpolata emanava un odore pungente di muschio e legno marcio. Thorne si fermò. Sharon non aveva bisogno di istruzioni. Si accovacciò contro il tronco umido, le ginocchia divaricate nella ghiaia fredda, la schiena arcuata. Un fiotto caldo e giallo zafferano sgorgò rumorosamente contro la corteccia scura, vaporizzando nell'aria umida. Il sollievo fu immediato, fisico, primitivo. Un guaito lungo e roco le sfuggì dalla gola, un suono animale di soddisfazione che risuonò nel parco deserto sotto la pioggia battente. Scodinzolò istintivamente, anche se non aveva una coda, solo un rapido movimento dei fianchi che fece oscillare il fermaglio dorato del collare .

Thorne osservò senza espressione, l'ombrello nero che proiettava un cerchio di silenzio asciutto attorno a loro. Quando ebbe finito, Sharon si girò verso di lui, ancora accovacciata, il respiro che fumava nell'aria fredda. Un lampo di pura, semplice felicità le illuminò gli occhi umidi. Non pensò alla nudità, al fango, al dolore nel palmo. Solo alla sua vicinanza, alla perfezione del collare che la legava a quel momento. Abbaiò di nuovo, un suono breve ed esultante verso il cielo notturno. Thorne inclinò appena la testa, un cenno quasi impercettibile di riconoscimento .

Il guinzaglio si tese di nuovo. Sharon si alzò sulle ginocchia doloranti e seguì il ritmo delle Oxford attraverso il labirinto di vialetti vuoti. Ogni passo sincronizzato, ogni curva fluida. La Bentley Phantom nera aspettava al margine del parco, un leviatano silenzioso sotto la pioggia. Thorne aprì la portiera posteriore. Sharon strisciò dentro senza esitazione, il cuoio freddo delle sedie che le fece rizzare la pelle d'oca. Si accucciò sul tappetino, le ginocchia piegate sotto il petto, la fronte appoggiata al freddo metallo del pianale. Il portiere si chiuse con un tonfo soffice come un sigillo .

Thorne sedette accanto a lei, l'odore di cedro e pioggia che riempiva lo spazio angusto. Non parlò. La Bentley scivolò via dal marciapiede, le luci della città che si allungavano in strisce dorate sul vetro bagnato. Sharon rimase immobile, il collare che pulsava contro la trachea ad ogni sobbalzo dell'auto. Chiuse gli occhi, assaporando il ronzio del motore, il calore che iniziava ad avvolgere le sue membra nude, il peso dello sguardo di Thorne che le scorreva lungo la spina dorsale. Un brivido che non era di freddo le attraversò i fianchi .

La macchina si fermò davanti al suo modesto condominio. Thorne aprì la portiera. Sharon strisciò fuori, il selciato gelato che le pungeva i palmi già martoriati. Seguì il guinzaglio fino al portone, dove si fermò, tremante, la schiena arcuata sotto la pioggia che ricominciava a cadere più fitta. Thorne sganciò il guinzaglio dall'anello dorato con un clic secco. Per un istante, Sharon rimase inginocchiata nell'ingresso, nuda e gocciolante, sentendo il vuoto improvviso intorno al collo senza la sua trazione. Alzò lo sguardo verso di lui, un lampo di incertezza negli occhi .

Thorne non la guardò. Le sue dita fredde trovarono la fibbia del collare di cuoio rosso. Uno schiocco metallico risuonò nel silenzio dell'atrio vuoto. Il collare si aprì. Lo staccò dalla sua gola con un gesto fluido, quasi sprezzante, come se rimuovesse un accessorio insignificante. Lo avvolse lentamente attorno alla mano destra, il cuoio bagnato che luccicava sotto la luce fioca del lampadario a sospensione. Sharon trattenne il respiro, il freddo dell'aria condizionata che le accarezzava la pelle nuda dove il collare aveva lasciato un solco rossastro. Un brivido le percorse la spina dorsale, più intenso del gelo del marmo sotto le ginocchia .

Lui voltò le spalle senza una parola. Le sue Oxford lucide scricchiolarono sul marmo levigato mentre si dirigeva verso la Bentley che aspettava col motore al minimo. La portiera si chiuse con un tonfo soffocato dalla pioggia. Sharon rimase inginocchiata nell'atrio deserto, il vuoto improvviso intorno al collo che le bruciava più del cuoio. La pioggia batteva contro le vetrate alte, disegnando labirinti d'acqua. Era sola. Nuda. Abbandonata come un oggetto dimenticato sul pavimento lucido. Il riflesso spettrale nel marmo nero la fissava: una creatura accovacciata, i capelli bagnati che le incollavano le spalle, il fango secco che le incrostava le ginocchia e i palmi delle mani. Un fremito di panico le attraversò lo stomaco. Se qualcuno fosse sceso? Se il portiere avesse fatto il giro notturno? Le sue dita si contrassero sul marmo freddo .

Si alzò in un movimento fluido, istintivo, il corpo che ricordava ogni gesto di fuga. Le piante dei piedi nudi aderirono alla superficie gelida mentre sgattaiolava verso le scale di servizio. Non il lusso dell'ascensore rivestito in specchio. Le scale buie, strette, impregnate dell'odore di detergente e vecchio cemento. Ogni scalino le punse la pelle dei piedi graffiati dal parco. Ogni ombra sembrò muoversi nel corridoio deserto sopra di lei. Il cuore le martellava contro le costole, un tamburo selvaggio che sembrava rimbombare nell'aria stagnante. Attraversò il pianerottolo del terzo piano come un fantasma, le orecchie tese al minimo rumore. Una TV che sussurrava dietro una porta. Il ronzio di un frigorifero. Nient'altro. Solo il suo respiro affannoso e il battito frenetico del sangue nelle tempie .

Arrivò alla sua porta. Il numero 312, opaco sulla vernice scrostata. Si chinò. Le dita tremanti sollevarono il bordo sfilacciato del tappetino sintetico. Lì. Freddo e duro contro il linoleum sporco. Le chiavi. Una semplice chiave Yale d'ottone. Le afferrò come un salvagente. La serratura cedette con uno scatto secco che le parve fragoroso nel silenzio del corridoio. Spinse la porta e scivolò dentro, richiudendola alle spalle senza far rumore. Buio totale. Solo il tremolio fioco delle luci della città che filtrava dalle persiane socchiuse. L'odore familiare della polvere e del suo stesso corpo lasciato lì quella mattina .

Si lasciò cadere sul pavimento di legno grezzo proprio dietro la porta. Nuda. Tremante. La schiena contro il battente freddo. Non accese la luce. Il buio era una coperta, un sollievo dopo l'esposizione brutale sotto la pioggia e gli occhi di Thorne. Chiuse gli occhi, ma vide ancora il riflesso sul marmo dell'atrio: quella creatura accovacciata, sporca, abbandonata. Un brivido violento la scosse. Non di freddo, ma di vuoto. Il solco lasciato dal collare sulla gola pulsava come una ferita fresca. Le ginocchia bruciavano per i graffi incrostati di fango e ghiaia. Il palmo destro pulsava dove il pollice di Thorne aveva premuto, torcendo i nervi. Le puntò contro il naso nell'oscurità, immaginando ancora l'odore di cedro e pioggia mescolato al suo stesso sangue secco .

Si trascinò sul pavimento di legno grezzo, le schegge che pungevano i palmi martoriati. Non verso il divano, non verso il letto. Si fermò nel mezzo del soggiorno vuoto, sotto il tremolio fioco delle luci della città che filtrava dalle persiane socchiuse. Si sedette a gambe incrociate sul legno freddo, la schiena dritta contro il nulla. Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. L'odore della polvere, del suo stesso sudore lasciato quella mattina, del fango secco che le incrostava le ginocchia. Ma sotto, sottile e persistente, l'odore del cedro del suo dopobarba. Lo sentiva ancora. Lo sentiva sulla pelle, nella gola, nei capelli umidi. Un promemoria. Una promessa non mantenuta. *La casa*. Il pensiero le attraversò la mente come un fulmine. Non l'ufficio. Non il parco sotto la pioggia. La sua casa. Le stanze private, l'odore dei suoi mobili, la luce del sole che filtrava attraverso le sue finestre. Immaginò di strisciare su un tappeto spesso, di accucciarsi ai piedi di una poltrona di pelle dove lui leggeva. Di sentire il calore del suo corpo invece del gelo del marmo o della pioggia. Di dormire lì, un cane fedele al suo posto, il collare un peso rassicurante anche nel sonno. Un fremito, diverso dal panico, le attraversò lo stomaco. Caldo. Desiderio acuto. Sì. Doveva arrivarci. Doveva meritarselo. Non era una speranza. Era un obiettivo. Un punto fisso nell'oscurità .

Si alzò in piedi, il legno gelato sotto le piante dei piedi graffiati. Non verso il divano. Non verso il letto. Diritta verso il bagno. Aprì il rubinetto della doccia con uno scatto secco. Non aspettò che l'acqua si scaldasse. Si infilò sotto il getto gelido. L'acqua fredda la colpì come una frustata, facendole trattenere il fiato. Le gocce pungenti le percorsero la schiena, le cosce, il solco tra i glutei ancora sporco di fango del parco. Si lasciò cadere in ginocchio sul fondo della cabina di plastica bianca, la testa china. L'acqua fredda sciacquava via il fango secco dalla pelle, trasformandolo in rivoli grigi che scendevano verso lo scarico. Strofinò le ginocchia con forza, i graffi che bruciavano al contatto. Strofinò i palmi delle mani, il dolore pulsante dove il pollice di Thorne aveva premuto. Il dolore era reale. Fisico. Un promemoria tangibile della sua presenza. Non cercò di lavarlo via. Lo assaporò. Lo accolse. Ogni bruciore, ogni puntura di freddo, era una prova. Un passo verso la casa. Verso il suo posto ai suoi piedi. Un sorriso strano, tremulo, le sfiorò le labbra sotto il getto gelido. Non era felicità. Era determinazione feroce. Risolutezza .

Si asciugò con un vecchio asciugamano di spugna ruvida che le graffiò la pelle pulita. Lasciò cadere l'asciugamano sul pavimento bagnato. Nuda, attraversò il corridoio buio verso la camera da letto. La luce fioca della città filtrava dalle persiane socchiuse, disegnando strisce oblique sul pavimento di legno grezzo. Si fermò davanti alla finestra, guardando oltre le tende sottili verso il condominio di fronte. Una finestra illuminata. Una silhouette indistinta che si muoveva dietro un vetro appannato. Si chiese se qualcuno l'avesse vista rientrare. Se qualcuno avesse visto la Bentley Phantom nera fermarsi davanti al portone. Un brivido la scosse, ma questa volta non di paura. Di eccitazione. L'idea di essere stata vista. Nuda. Posseduta. Scelta. Si voltò dalla finestra. Non aveva bisogno di vestiti. Non qui. Non ora. Il freddo dell'aria notturna le accarezzava la pelle nuda, facendole rizzare i peli delle braccia. Si passò le dita sul collo, dove il solco lasciato dal collare pulsava ancora, un anello invisibile di possesso .

Si lasciò cadere sul materasso sottile senza lenzuola. La stoffa grezza del materassino le pizzicò la pelle umida della schiena. Si raggomitolò su se stessa, le ginocchia piegate contro il petto, le braccia avvolte attorno alle gambe nude. Chiuse gli occhi. Respirava profondamente. Non l'odore di polvere o muffa questa volta. Non il cedro del suo dopobarba. Ma qualcosa di nuovo. Di suo. L'odore del suo stesso corpo pulito sotto l'acqua fredda. L'odore della determinazione che le bruciava nelle vene. Un sorriso vero, caldo, le sfiorò le labbra nell'oscurità. Non era felicità sfrenata. Era soddisfazione profonda, radicata. Come un cane che torna alla sua cuccia dopo una lunga giornata di caccia. Sapere esattamente dove appartiene. Sapere esattamente cosa deve fare. Meritarsi la casa. Meritarsi il suo posto ai suoi piedi. Non nell'ufficio. Non nel parco sotto la pioggia. Ma lì. Sul tappeto spesso della sua casa. Ai piedi della sua poltrona. Il pensiero le riempì il petto di un calore che contrastava violentemente con l'aria fredda della stanza .

Le sue mani si mossero quasi da sole. Non per sfregare via il dolore o la sporcizia. Non per cercare conforto nel solito modo.

Le dita esplorarono le curve dei suoi seni nudi sotto il tremolio della luce cittadina che filtrava dalle persiane. Non una carezza erotica, né un esame clinico. Più simile a come si tastano le costole dopo una caduta: verifica di danni strutturali. La pelle era fredda sotto i polpastrelli, i capezzoli duri come chiodi di garofano nel buio. Premette lungo l'arco inferiore del seno destro, dove il metallo della Bentley aveva lasciato un'impronta rossastra sul fianco durante il viaggio di ritorno. Il dolore era nitido, preciso, un punto cardinale nella mappa delle sue ferite. Le unghie seguirono il contorno della contusione, tracciandone i confini come perimetri di territorio riconquistato. Ogni pressione ricordava il peso del suo sguardo nel parco. Ogni fremito ricordava il guinzaglio che non tirava mai troppo forte.

"Devi essere perfetta," sussurrò alla finestra buia, le dita che aumentavano la pressione sul seno sinistro. Non per piacere. Per disciplina. Immaginò di essere nella sua casa—non questa stanza vuota—accucciata su un tappeto persiano mentre lui leggeva rapporti finanziari. Le sue dita diventarono le sue dita, fredde e metodiche, che verificavano la prontezza del suo strumento. Premette più forte sul capezzolo sinistro finché il dolore non irradiò verso l'ascella. Un suono simile a un ringhio le sfuggì dalle labbra serrate. Buono. Questo dolore apparteneva a Thorne tanto quanto il collare rosso. Era prova. Documentazione fisica della sua esistenza nella sua orbita. Le mani scivolarono più in basso, tastando le costole che ancora pulsavano dove il ginocchio di Thorne le aveva premute contro il pavimento della Bentley. Nessuna frattura. Solo un livido viola scuro che sembrava un'opera d'arte astratta dipinta sul suo fianco. Lo toccò con devozione.

Si rotolò sul fianco destro, il materasso sottile che cigolava sotto il suo peso. Il dolore ai fianchi e alle ginocchia era un ronzio costante, un sottofondo familiare come il rumore del traffico notturno. Chiuse gli occhi, ma dietro le palpebre vide il riflesso sul marmo dell'atrio—quella creatura nuda e tremante. Le sue mani tornarono ai seni, non più per esaminare ma per placare. Palmi piatti contro la curva inferiore, spingendo verso l'alto con una pressione ferma e circolare. Non era masturbazione. Era manutenzione. Mantenere la carne morbida, pronta, obbediente. Le dita tracciarono il percorso delle vene bluastre sotto la pelle pallida, seguendo la mappa che le mani di Thorne avevano tracciato nel parco. Il movimento diventò ipnotico, ritmico come il respiro che finalmente rallentava. L'odore di sapone di catrame e pelle pulita riempì le sue narici, cancellando temporaneamente il cedro fantasma.

"Più forte," sussurrò nell'oscurità, aumentando la pressione. Immaginò le dita di Thorne invece delle sue—fredde, impersonali, valutative. Il capezzolo destro indurito sotto il pollice immaginario. Un brivido la percorse, non di piacere ma di riconoscimento. Questo era il linguaggio. Non parole vuote nel vuoto di un ufficio, ma codice scritto direttamente sulla carne. Le mani continuarono il loro lavoro, modellando, sistemando, preparando. Il dolore ai fianchi si attenuò in un lontano ronzio. Il respiro si fece profondo e regolare. Il battito cardiaco rallentò da tamburo di guerra a metronomo sonnolento.
scritto il
2025-10-22
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