La Professoressa e l’Allieva 4

di
genere
dominazione

​Il tempo, dopo l'apocalisse del piacere, perse ogni significato. Appesa alla croce, ero un pendolo fermo in un universo che si era fermato con me. Il mio corpo era un campo di battaglia dopo lo scontro: i muscoli vibravano ancora per spasmi residui, la pelle era ipersensibile, un formicolio elettrico che rispondeva al minimo spostamento d'aria. La bava di sudore e dei miei fluidi cominciava a raffreddarsi sulla mia pelle, lasciandomi una sensazione appiccicosa e vulnerabile. Potevo sentire il battito del mio cuore rallentare, un tamburo di guerra che si placava in un ritmo funebre. Ero sospesa, un'opera d'arte vivente che rappresentava la resa assoluta, in attesa che la sua creatrice tornasse a reclamarla o a distruggerla.

​Il silenzio era rotto solo dai miei respiri affannosi e dai suoni distanti della città, suoni che appartenevano a un altro mondo, un mondo in cui io non esistevo più. La mia intera realtà era confinata in quella stanza, in quel corpo legato e svuotato.

​Il suo ritorno fu silenzioso come quello di uno spettro. Non la sentii arrivare, ma percepii il cambiamento nell'aria. Aprii gli occhi e la vidi in piedi di fronte a me, che mi osservava con una curiosità fredda e distaccata. Era come se stessi guardando il risultato di un esperimento.

​«Il corpo è docile, ora», mormorò, più a se stessa che a me. «La mente è sgombra. Sei una tela bianca, Aiko. Pronta per essere dipinta».

​Iniziò a slegarmi. Il processo fu l'opposto della frenesia della mia punizione. Fu lento, metodico, ogni fibbia che si apriva con un piccolo, secco scatto. Non era un atto di liberazione, ma un'altra dimostrazione del suo controllo. Prima il polso destro. Il braccio mi cadde lungo il fianco, pesante e senza vita, formicolante mentre il sangue tornava a circolare. Poi il sinistro. Poi le caviglie. Quando l'ultima cinghia fu slacciata, il mio corpo, privo di sostegno, scivolò semplicemente a terra, un ammasso informe e tremante ai piedi della croce. Non avevo la forza di muovermi.

​«In ginocchio», ordinò.

​Con uno sforzo immane, obbedii, spingendomi sulle mani e sulle ginocchia. Ero debole, le membra che tremavano in modo incontrollabile. Lei mi porse un panno di seta nera.

​«Hai creato disordine», disse, il suo tono privo di emozioni. «Hai sporcato il mio pavimento con la tua incontinenza. Pulisci».

​L'umiliazione fu una fiammata che riuscì a penetrare la nebbia del mio sfinimento. Mi ordinava di pulire i resti del piacere che lei stessa mi aveva inflitto. Inginocchiata, nuda e tremante, iniziai a pulire il tappeto, asciugando le prove della mia resa. Il panno si impregnò dell'odore della mia figa, un profumo intimo e animale che ora stavo cancellando sotto il suo sguardo. Poi mi ordinò di pulire le mie stesse cosce, di cancellare ogni traccia, come se quell'orgasmo non fosse mai stato mio, ma un evento che mi era semplicemente capitato, un incidente di cui ero responsabile.

​Quando ebbi finito, mi prese il panno dalle mani e lo gettò da parte. Si sedette sulla sua poltrona di pelle, il suo trono. Accavallò le gambe, il cuoio nero dei pantaloni che strideva leggermente.

​«Vieni qui».

​Strisciai verso di lei, come un animale domestico. Mi fermai ai suoi piedi, alzando lo sguardo.

​«La tua educazione fisica è a buon punto», disse. «Ma la tua devozione è ancora grezza. Un corpo sottomesso è inutile senza una mente sottomessa. E una mente sottomessa impara attraverso l'adorazione. Inizia dai miei stivali».

​Indossava degli stivaletti di pelle nera con un tacco a spillo. Erano lucidi, perfetti. Chinai la testa e appoggiai le labbra sulla punta dello stivale destro. Il cuoio era freddo, liscio, sapeva di cera e di potere. La mia lingua uscì, timida all'inizio, e iniziò a tracciare le cuciture, a pulire la suola. Era l'atto più umiliante e degradante della mia vita. Ed era la cosa più erotica che avessi mai provato. Stavo adorando il simbolo stesso del suo dominio su di me, lo strumento con cui calpestava il mondo.

​«Bene», mormorò dopo un tempo infinito. «Ora, la mia pelle».

​Sfilò lentamente lo stivale, poi il calzino di seta. Il suo piede nudo era pallido, elegante, le dita lunghe, le unghie perfette. Mi prese la testa tra le mani e mi guidò verso il suo collo del piede. «Adora», sussurrò.

​La mia bocca si chiuse attorno al suo alluce. Succhiari, leccai ogni dito, assaporando il sapore leggermente salato della sua pelle. Era un'intimità così profonda e unilaterale da farmi girare la testa. Stavo prendendo dentro di me la sua essenza, senza ricevere nulla in cambio se non il privilegio di servirla. La mia lingua risalì lungo la sua caviglia, il suo polpaccio, sentendo i muscoli tesi sotto la pelle.

​«La ragazza che si chiamava Aiko», disse Suzuka, la sua voce una melodia ipnotica sopra di me, mentre la mia bocca era impegnata a venerarla, «era un'entità arrogante. Credeva nel suo intelletto, nella sua individualità. Quella ragazza sta morendo. Al suo posto, sta nascendo qualcos'altro. Qualcosa di più semplice. Più puro. Uno strumento. Un animale domestico. La mia puttana personale».

​Ogni parola era una staffilata, che demoliva il mio senso di identità. Non ero più Aiko, la studentessa brillante. Ero quelle parole. Ero un oggetto definito solo dalla sua volontà.

​«E un animale domestico», continuò, «ha bisogno di un collare».

​Si alzò, costringendomi a staccarmi dalla sua pelle. Aprì un cassetto della sua scrivania e ne estrasse una sottile striscia di cuoio nero. Non era minacciosa. Era semplice, elegante, con un piccolo anello a D d'argento al centro.

​«Inginocchiati dritta».

​Obbedii, il cuore che mi batteva furiosamente. Si mise dietro di me. Sentii il cuoio freddo contro la pelle del mio collo. Fu un brivido che mi scosse fino all'anima. Sentii il rumore della fibbia che si chiudeva, un piccolo, definitivo click. Non era stretto, ma la sua presenza era totalizzante. Era un marchio fisico, permanente.

​Mi prese per l'anello, tirandomi leggermente la testa all'indietro, esponendo la gola. Si chinò e mi sussurrò all'orecchio.

​«Ora sei mia. Ogni volta che sentirai questo cuoio sulla tua pelle, ricorderai a chi appartieni. Non lo toglierai per nessun motivo finché sarai sotto il mio tetto. È la tua nuova pelle».

​Mi lasciò andare. Caddi in avanti, appoggiando la fronte sul pavimento freddo, sopraffatta. Toccai il collare con le dita tremanti. Era reale. Tutto era reale. La mia vecchia vita era finita.

​Dopo un lungo silenzio, mi ordinò di alzarmi e di rivestirmi. I miei vestiti sembravano il costume di una persona che non conoscevo più. Mentre mi infilavo la maglia, feci in modo che coprisse il collare, il mio nuovo, terribile segreto.

​«La tua prossima lezione accademica sarà su Lacan», disse, tornando a essere la professoressa. Il suo tono era di nuovo freddo e distante. «Voglio un saggio di venti pagine sul concetto di objet petit a. Devi analizzare come il desiderio si struttura attorno a una mancanza fondamentale. Voglio che sia perfetto. Hai una settimana».

​Mi guardò, un lampo oscuro nei suoi occhi. «Scriverai di desiderio e di mancanza mentre senti il mio possesso attorno al tuo collo. Ogni parola che scriverai, la scriverai per me. Il fallimento, mia cara, non è un'opzione. Le conseguenze sarebbero... estremamente educative. Ora, va' via».

​Uscii dal suo appartamento e mi ritrovai nel corridoio illuminato al neon, sentendomi come se fossi rinata in un mondo alieno. La mia mano andò istintivamente al collo, le dita che sfioravano il cuoio nascosto sotto i vestiti. Non ero più una studentessa che andava a casa. Ero un animale domestico con il collare, a cui era stato appena assegnato un compito. E per la prima volta nella mia vita, mi sentii completamente, terrificante, meravigliosamente libera.

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2025-09-12
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