Nylon

di
genere
feticismo

Quella domanda mi bruciava in gola da mesi.
Ma ogni volta si spegneva, come un fiammifero nell’acqua.
— Se incontrassi un uomo che ti ama e che tu ricambiassi… Avresti il coraggio di lasciarti tutto alle spalle? La tua tradizione, la tua famiglia, il tuo mondo?
Non era una curiosità oziosa, né una provocazione, ma una ferita sanguinante. Un cruccio segreto che mi consumava.
Quando Yasmin era entrata in azienda, mi aveva colpito subito. Non solo per una bellezza innegabile, del resto mai ostentata, ma per quell’equilibrio raro: gentilezza riservata, eleganza contenuta. L’hijab, come un confine gentile ma invalicabile, raffreddava ogni slancio. Mi trattava con educazione impeccabile, con gentilezza ma non concedeva appigli.
Poi arrivò l’occasione di lavoro imperdibile, da sempre sperata: un’offerta importante, lontano. Accettai, tanto più che non avevo nulla che mi trattenesse davvero.
Organizzai un piccolo saluto d’addio. Pochi colleghi, chiacchiere tiepide e il desiderio che finisse tutto alla svelta.
Quando Yasmin entrò, all’improvviso, mi mancò il fiato. Era la persona che più desideravo ci fosse e, al tempo stesso, la più inattesa. Non accadde nulla di eclatante. Scambiammo sorrisi, qualche parola. Poi tutti uscimmo. Io fui l’ultimo a lasciare il locale dopo aver saldato il conto.
Fuori, pioggia. Un piazzale grigio, butterato di pozze che riflettevano le luci dei lampioni come uno squallido cielo stellato, ribaltato. Nell’aria umida e tiepida le molecole odorose di maggio, le acacie, i gelsomini, i caprifogli.
— Mi potresti aiutare? L’auto non parte.
Una voce alle spalle. Mi voltai. Yasmin, col cappuccio tirato su, cercava di sorridere.
— Il mio meccanico sostiene che dovrei fare un corso base. Trascuro anche le più semplici manutenzioni.
Scossi il capo.
— Yasmin, da un esperto in materia come me puoi aspettarti al massimo un passaggio a casa.
Rise. Un suono breve, vero.
In auto ci fu silenzio. Solo lo stridio umido, cadenzato del tergicristallo rompeva l’immobilità — un respiro meccanico —, il ticchettio dolce delle gocce strusciava lento sul vetro.
E in quella crepa passò una cosa piccola, tremante, ma reale.
La sua mano si poggiò sulla mia, leggera, la lievità di una farfalla. Nessuna parola a rompere l’incanto.
La mia mano sulle sue ginocchia, a risalirle lentamente, finché sopra la stoffa incontrò un calore che vibrava di desiderio trattenuto.
Fermai l’auto in un posto riparato. Le nostre labbra si cercarono e si trovarono in un bacio appassionato, feroce, da toglierci il fiato.
La accompagnai fin sotto casa, una palazzina discreta in una via alberata. Restammo qualche secondo fermi. Nessuno parlava. Poi disse piano:
— Vuoi salire? Solo un tè, se vuoi.
Non risposi. Mi limitai ad annuire.
L’appartamento era piccolo, ordinato. Sobrio.
Tinte neutre, pochi oggetti. Nessuna foto. Nessuna traccia personale, come se vivesse in una sospensione.
Lei viveva sola, e alla sua età — ventitré anni —, nella sua cultura era inconsueto.
Versò il tè e me lo porse. Posai la tazza, le sfilai la camicetta — una stoffa leggera, color avorio, che tratteneva ancora l’odore di lei.
Rimase in reggiseno e pantaloni scuri.
Sollevai il tessuto, e davanti ai miei occhi apparvero i suoi seni deliziosi: armoniosi, sodi, coppe rotonde, con capezzoli scuri, eretti, che parevano fremere.
Li baciai, li leccai piano. Lei emise un gemito strozzato, gli occhi chiusi, le labbra socchiuse. Il mio cazzo era già duro da far male.
Il contrasto tra il pudore antico dei suoi gesti e il fuoco che le ardeva sotto la pelle era devastante.
Poi la stesi sul divano, e le slacciai piano i pantaloni. Yasmin non disse nulla. Sollevò appena i fianchi. Un sì più eloquente di mille parole.
Sfilai lentamente il tessuto, fino a lasciarla con solo con gli slip e i collant color fumo. L’odore caldo del nylon e della sua pelle mi investì, denso e dolce. Un aroma che sapeva di donna, di nido, di segreto.
Le mutandine furono le ultime a cedere. Un triangolo umido, sottile, che si lasciò scivolare sulle cosce senza opporre resistenza.
Le sue mani si aggrapparono ai miei polsi mentre gliele sfilavo, come a trattenere qualcosa — il pudore, forse. O l’ultimo margine di controllo.
Ma era tardi.
Il suo odore era ovunque.
La sua figa era bella, viva.
Un folto vello bruno le ornava l’inguine, morbido e selvaggio. Le piccole labbra affioravano appena, lucide, rosee, aperte come un fiore notturno.
— Non mi guardare così, — sussurrò, arrossendo.
— È la cosa più bella che abbia mai visto, — le risposi.
Non disse nulla mentre la facevo sdraiare sul divano. Le aprii le cosce, e lei si lasciò fare.
Mi chinai e l’annusai, a occhi chiusi.
Carne viva, desiderio giovane, un afrore intimo e salmastro che saliva dalla pelle e parlava più delle parole.
Quando iniziai a baciarla, tremò. Un tremito lungo, profondo. La sua mano mi afferrò i capelli con forza, poi li lasciò andare.
Il respiro si fece animale. Gemeva piano: era il suono di una donna che si lascia andare senza più difese.
Le mie dita entrarono in lei lentamente, come un rito.
E mentre la leccavo, sentivo che qualcosa stava cambiando — in lei, in me, in quella stanza.
La lingua affondò lenta, esplorando ogni piega, ogni angolo, mentre le sue mani si aggrappavano alle mie spalle e il suo respiro si faceva irregolare.
Ogni volta che le leccavo il clitoride, il suo bacino sobbalzava appena.
Mi stava offrendo tutto.
Yasmin si irrigidì, poi si abbandonò, tenendomi la testa tra le cosce, guidandomi con piccoli gemiti. Aveva un sapore pieno, intenso, aspro e dolce.
Non c’era più paura, solo verità. Quando si lasciò andare, tutta, tremando, io ero già sul punto di esplodere.
Il suo orgasmo fu un’ondata silenziosa. La scosse da dentro, come un’onda trattenuta che finalmente trova sfogo.
Mi sollevò il viso, mi baciò ancora.
— Fammi tua.
— Sei sicura?
— Fammi tua, ora. Prima che ci ripensi.
Mi posizionai tra le sue cosce, aperte e accoglienti.
Volevo farlo lentamente, farle sentire tutto, farle capire che quella non era solo una scopata.
Era un passaggio. Un dono.
Le infilai piano la punta, sentii la resistenza.
— Respira con me.
Entrai.
Lei si irrigidì, trattenne il fiato, poi lo lasciò uscire in un piccolo grido.
Poi qualcosa mi bloccò. Un ostacolo lieve, vivo.
— Fermati un attimo…
— Sei…?
Annuì piano.
— Non l’ho mai fatto.
— Sei sicura, devo continuare?
— Sì… ma fammelo dolcemente.
Restai fermo, dentro di lei.
Sentivo il calore, la stretta, il cuore che le rimbombava sotto il petto.
Poi cominciai a muovermi. Piano.
Tra le sue cosce, gocce di sangue brillavano contro il bianco delle lenzuola. Una macchia piccola, rossa, netta. Un suggello.
— Ti fa male?
— Sì.
— Vuoi che smetta?
— No… ora resta. Così.
Si abituò, gemette più forte, mi prese le natiche e mi guidò.
La vidi aprirsi al piacere, diventare carne e desiderio, perdere ogni ritegno.
— Cazzo, Yasmin… sei stretta da impazzire…
La scopai così, guardandola negli occhi.
E ogni volta che entravo, vedevo il suo volto accendersi, la bocca socchiudersi, il seno fremere sotto i miei colpi.
Finimmo come in un’esplosione trattenuta troppo a lungo.
Restammo lì, la mia fronte contro la sua.
Dentro di lei ancora.

La mattina mi svegliai col profumo di caffè nell’aria e del suo corpo ancora sulla pelle.
In cucina, Yasmin mi aspettava in camicia lunga, i capelli sciolti, gli occhi assonnati.
Capezzoli visibili sotto il cotone. Nulla sotto.
— Scusami… per ieri… per come sono stata…
— Sei stata meravigliosa.
— Ho paura.
— Anch’io. Ma non abbastanza da voler tornare indietro.
Lei si avvicinò, si sedette sulle mie ginocchia. La camicia si sollevò, lasciando scoperta l’interno coscia. Nessun pudore, solo desiderio.
— Sotto la camicia non porto nulla. Lo senti?
Guidò la mia mano tra le sue gambe. Era già calda, bagnata.
— Stanotte hai aperto una porta. E adesso… fammi vedere il tuo cazzo duro.
Il suo linguaggio era cambiato. Crudo, spudorato.
Mi prese per i capelli e si sedette sul tavolo. Si tolse lentamente la camicia.
— Inginocchiati. Voglio sentire la tua lingua. Ma oggi, leccami anche il culo. Mi fa impazzire.
Lo dissi: l’odore, l’intimità, il nylon ancora posato su una sedia. La sua pelle sapeva di sesso e di notte.
Mi chinai. La leccai.
Poi si voltò. Si inginocchiò sul divano.
— Vieni dietro. E scopami. Come una cagna.
Lo feci. In piedi, afferrandole i fianchi, spingendomi dentro di lei mentre gridava:
— Mhmhmh, quanto ti sento! Vieni, scopami fino a farmi urlare.
Le mani artigliavano i cuscini. Il suo culo sbatteva contro il mio ventre. Il suono della carne che urta la carne. L’odore di lei ovunque.
Quando venni dentro di lei, tremava e sorrideva. — E pensare che ieri ero vergine.
Si voltò, mi leccò la pancia.
— La prossima volta ti voglio legato. Solo con me sopra. E ai piedi… voglio i miei collant.
— Quelli di ieri?
— No, più sporchi.
Rise. Poi mi sussurrò:
— Ti piacerà scoprire fin dove riesco ad arrivare.


[Finale – Volo verso il cambiamento]
L’aereo si staccava dalla pista.
Una nuova vita si apriva davanti a noi. Un’altra città, un’altra lingua, un altro lavoro e forse un’altra identità.
Nessuno parlava. Le mani intrecciate, un silenzio teso tra paura e desiderio.
Il motore vibrava sotto i piedi, ma il cuore batteva altrove.
Lei era seduta accanto a me, i capelli sciolti in una cascata bruna, gli occhiali da sole a nascondere lo sguardo.
Niente hijab. Niente barriere. Solo lei, viva, vera. Finalmente libera.
Mi chinai a sfiorarle una coscia.
— Cosa indossi sotto?
Lei sorrise, senza voltarsi.
Un sorriso complice, pieno. Quello di chi ha condiviso un segreto impossibile da dimenticare.
— Solo nylon. Sotto i jeans.

— Solo quello?
scritto il
2025-09-06
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