Nel silenzio di pietra
di
rotas2sator
genere
dominazione
Lei parlava col corpo. Era una calda giornata di marzo. Il vento si era ritirato all’interno, e il sole, alto già dalle dieci, cuoceva la roccia con insistenza estiva. Lei conosceva quel luogo: Capo Pecora, brullo e solitario, mai troppo amico, ma perfetto per scomparire dal mondo. Nessun turista, nessun pescatore, nemmeno un escursionista in vista. Aveva scelto quel giorno, quel momento, proprio per questo. Per essere sola.
Parcheggiò lontano, scese a piedi con passo lento, silenzioso. Scelse una terrazza naturale tra due grandi rocce granitiche e stese il telo come un gesto antico. Indossava jeans slavati, una maglietta sottile e una felpa aperta sul davanti. Il corpo, morbido ma ancora armonioso, tonico nei fianchi e nel ventre, portava con grazia i suoi 56 anni. Una bellezza lenta, vissuta, fatta di curve vere e pelle dorata. Il sole la accarezzava come un amante gentile, molto più di quanto sapesse fare suo marito, otto anni più vecchio e ormai impigrito da anni di abitudine e rituali stanchi.
Scrutò l’orizzonte, dietro gli occhiali da sole. Nessuno. Allora si sfilò i jeans, poi la felpa, infine la maglietta. Rimase nuda. Il cappello di tela le ombreggiava il volto, ma sulle labbra affiorava un sorriso: non di esibizione, ma di piena presenza, come se solo lì potesse finalmente sentire di nuovo il suo corpo, esistere davvero nella sua carne. I seni pieni, la pancia leggermente morbida, i glutei ancora rotondi: si apparteneva di nuovo, senza giudizio.
Poi si guardò intorno e, sentendosi sicura, si accovacciò poco distante per urinare. Il pastore, nascosto tra i cespugli, trattenne il fiato. La vide piegarsi, nuda, le cosce aperte e rilassate, il sesso esposto, naturale, umido. E quando un piccolo getto chiaro scivolò tra le gambe e bagnò la sabbia, il vento gli portò alle narici quell’odore caldo, primordiale, che sapeva di femmina. Un odore che gli fece salire il sangue alla testa e il cazzo dritto nei pantaloni. Fu lì che capì: non poteva più restare a guardare.
Si alzò in piedi, prese fiato e si mosse deciso, come un predatore sicuro della preda. La raggiunse in pochi passi, e senza dire nulla, le afferrò un polso. Lei sobbalzò, non aveva sentito nulla. Provò a divincolarsi, ma lui la strattonò in avanti con forza.
— Che cazzo fai?! — gridò lei, ma la voce le si spezzò subito in gola.
— Stai zitta. — ringhiò lui, piantandole una mano sulla nuca e costringendola a voltarsi.
Lei barcollò, tremando. — Ti prego… non farmi del male… ti do quello che vuoi…
— Lo so che lo farai, — mormorò lui con un ghigno, spingendola a terra. — E non serve che tu mi dia il permesso.
Le allargò le gambe con le ginocchia, le aprì il culo e la figa con le mani ruvide, senza grazia. Era già bagnata. Un filo sottile di umiliazione le attraversò il ventre. E prima che potesse anche solo reagire, lui le era dentro. Un affondo brutale. Le sfuggì un strillo.
Lui cominciò a scoparla con furia, affondando il cazzo duro fino in fondo, sbattendole le anche con colpi sordi, spietati. Lei ansimava, le mani premute sulla sabbia calda, la bocca aperta in un gemito spezzato tra dolore e stupore. Le pareti della sua figa, strette e calde, si tendevano fino al limite, bruciavano ad ogni affondo. Ogni colpo era un piccolo strappo, un insulto intimo, eppure non voleva che si fermasse.
Quando lui si chinò su di lei e le afferrò le tette con entrambe le mani, stringendole forte, quasi a volerle strappare via, un’ondata di piacere crudo le esplose dentro. Le strizzava i seni con avidità, li mordeva, li tirava come a volerli marchiare. E lei gemeva, sentendosi troia fino al midollo. Una porca, viva, tesa, desiderata. E presa.
Quando sentì il suo seme caldo colarle dentro, mentre le dita ancora le stritolavano i seni, capì che si era aperta a qualcosa di più grande. Una resa. Una discesa nel piacere più oscuro.
E lei, sotto quel sole sardo e quel cielo senza nuvole, si lasciò prendere. Senza più paura. Senza più voce. Solo respiro. Quando tutto sembrava compiuto, fu lei a tornare affamata. Si inginocchiò, lo prese in bocca, saporoso di lui e di lei, lo fece rinvenire con la lingua.
— Voglio tutto… anche il culo…
— Guarda qui la signora, di qualche anno più giovane di mia madre… — sibilò lui, — ma tu sei una troia di classe… che vuole il cazzo anche nel culo.
Lei si voltò, si aprì con le mani e ansimò. — Lo voglio. Entrò piano, poi con forza. Lei gridò, venne, si perse. E Capo Pecora, tra vento, pietra e silenzio, accolse ogni suono, ogni gemito, ogni odore. Quel giorno, la donna non fu solo spettatrice. Fu desiderio offerto.
Lei rimase distesa, ancora ansimante, tra le rocce calde e il profumo di ginepro. Non c’era più paura. Solo un senso di appagamento feroce. Scopata nella natura, lì dove il mondo si fa ruvido e selvaggio, si era sentita vera. Come se quella terra aspra l’avesse chiamata per offrirsi insieme a lei.
Ogni colpo, ogni gemito, ogni spasmo, aveva avuto il sapore dell’origine. Aveva goduto dell’essere nuda, piegata, vulnerabile. Aveva voluto essere scopata così: sporca, animale, libera.
E lui, la guardava con orgoglio. Mentre si riallacciava i pantaloni, sporco del suo odore, con lo sguardo ancora acceso, dentro di sé rideva. Avrebbe raccontato tutto, di quella turista sorpresa nuda fra le pietre deserte. Che l’aveva presa, che l’aveva avuta nel culo, che l’aveva sentita gemere e aprirsi da una femmina in calore. E quella sera, davanti al fuoco nella baracca, l’avrebbe ripensata, di nuovo desiderata.
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