Spalancata

di
genere
corna

Avevo capito che mia moglie mi nascondeva qualcosa.
La vedevo sfuggente in quell’estate arroventata, nel paese aggrappato alla collina, una terrazza sul mare a pochi chilometri, dove le viuzze strette erano deserte e polverose sotto il sole implacabile.
La calce bianca dei muri rifletteva una luce accecante, creando ombre pastose che si allungavano pigre sulle pietre levigate dai passi innumerevoli, dalle intemperie. Il tempo che mi ero preso per una scelta professionale importante trovava luogo adatto in quel paese sonnacchioso che solo d’estate si rinvigoriva, prendeva vita per il ritorno di alcune famiglie originarie del posto in villeggiatura.
Lei sembrava lontana, da qualche giorno. Misteriosa nei suoi silenzi, negli sguardi persi lontano.
Poi mentre passeggiavamo un lampo di bruno nei suoi occhi, un corpo selvaggio che si allontanava veloce, asciutto, muscoloso. I riccioli neri brillavano al sole. Portava un grembiule di farina annodato dietro la schiena nuda. Non era del posto, lo capii subito. Né italiano, né di quelle famiglie rientrate per l’estate. Era un pizzaiolo, egiziano mi dissero poi. Aveva preso in gestione l’antico forno del paese, quello vicino alla fontana, aperto solo nei mesi estivi.
Ogni pomeriggio, durante la “pennichella” che era diventata una abitudine piacevole nel caldo torrido del primo pomeriggio, la vedevo affaccendata mentre io cercavo di recuperare le energie nel riposo.
Lo diceva con tono neutro, come se non valesse la pena spiegare: “Faccio un salto a prendere qualcosa per la cena”, “Mi muovo un po’, altrimenti mi rincoglionisco”. Io socchiudevo gli occhi, nudo sul lenzuolo fresco, accarezzato dall’ombra disegnata dalle persiane. Il silenzio era profondo, tagliato solo dal frinire lontano delle cicale e dal ticchettio dell’orologio nella cucina.
A volte, in quel silenzio, immaginavo la sua figura che scivolava tra i vicoli assolati, il vestitino che si incollava alle cosce, il seno che rimbalzava sotto la stoffa leggera. La pensavo bussare a una porta che non era la nostra, sorridere a un uomo che non ero io. Era un pensiero che m’inquietava. E mi faceva indurire.

Quel pomeriggio, mi svegliai inquieto, con una sensazione strana, e la vidi rientrare in casa.
Sudata, accaldata, il vestito appiccicato alla pelle umida.
Non feci domande. La luce nei suoi occhi aveva un sentore selvaggio, ferino, inconsueto. Si spogliò e mi raggiunse a letto.
La sorpresa fu nella sua eccitazione.
Mai l’avevo vista così disponibile, così bramosa.
Mi salì sopra senza attendere, guidando il mio sesso dentro di sé con un’urgenza che mi sconvolse. Non era mai stata così… affamata. Le mammelle colavano tra le mie mani, pesanti, vive. Il suo pube, che avevo sempre trovato dolcemente curato, era ora folto, bruno, umido, selvatico
La aprii con le dita, e sentii il liquido caldo colarmi sulle nocche e il profumo del suo bruno vello.
La sua pelle rispondeva al mio tocco con una dolcezza feroce.
Era come se quel pomeriggio bollente avesse liberato in lei un fuoco nuovo.
Ma qualcosa mi sfuggiva.
Quell’intesa, quella disponibilità, mi dava piacere, un piacere così forte da allontanare i dubbi.
Eppure una curiosità bruciante si fece strada.
Una gelosia torbida eppure seducente.
Mi piaceva pensare che qualcun altro la considerasse suo territorio di caccia. La mente corse necessariamente a quel giovane, appena intravisto, affamato, nell’atto di possedere il corpo morbido di mia moglie.
Quel pensiero era un veleno dolce che mi eccitava e mi umiliava insieme.
Da quel giorno cominciò il rito. Io mi sdraiavo. Lei usciva. Ogni gesto si ripeteva con precisione inquietante. Lei che si cambiava in silenzio, io che la sentivo aprire piano la porta. Il rumore delle sue suole sul cotto era ormai parte del mio desiderio. Restavo nudo, sul letto, ad ascoltare quel suono svanire giù per le scale. Era come se assistessi a un rito segreto di cui conoscevo solo l’effetto finale: il suo corpo che mi tornava diverso.
E in quel ritorno c’era ogni volta qualcosa di più sciolto, più molle, più pronto.

Tornava sempre più o meno alla stessa ora, sempre più sudata. E sempre più vogliosa.
E io smisi di farmi domande.
Forse perché non volevo sapere. Forse perché la donna che tornava, rovente, vibrante, mi faceva impazzire.
I suoi seni sembravano più turgidi, le cosce arrossate, il sesso aperto come un frutto troppo maturo.
 Un odore strano, misto al suo, sulla sua pelle. Qualcosa che mi faceva pensare al legno, alla brace.
Un pomeriggio le leccai l’ascella e il sapore mi travolse.
Era salato, speziato, impastato di qualcosa d’altro. Come se qualcuno l’avesse stretta, tenuta a lungo, fino a impregnarsi dentro.
Ogni volta che tornava — accaldata, spettinata, con il sapore del sole e della strada sulla pelle — io non pensavo a chiederle dove fosse stata. Mi bastava toccarla, farla mia, sentire quella carne voluttuosa e docile aprirsi sotto le mie mani.
Era come se qualcosa l’avesse risvegliata.
Una nuova vitalità nel suo sesso, un'avidità nel modo in cui mi leccava, si faceva prendere, offriva la bocca, le mammelle, la figa. Non era solo desiderio. Era una donna penetrata da un altro desiderio.
Una donna che, pur tornandomi ogni volta, sembrava attraversata da un fuoco che non le apparteneva interamente.
E io lo sentivo.
Nel gusto della sua pelle.
Nel modo in cui gemeva quando le prendevo i capezzoli tra le dita.
Nel suo profumo, più pungente, più acido, come se un altro odore si fosse mescolato al suo.
Eppure non chiedevo.
Anzi — Dio, che vergogna dirlo — c’era piacere, in quel dubbio. Un piacere sottile, torbido, morboso.
L’idea che quelle membra morbide, quelle cosce forti, quella bocca che mi baciava fino a soffocarmi, fossero state poco prima terra di caccia per un altro…
Mi eccitava in modo feroce.
Lo vedevo. Nella mia mente prendeva forma con una chiarezza che mi spaventava: lui che si appoggiava a lei, le sue mani grandi che le sollevavano il vestito con un gesto rude ma preciso, le dita che affondavano nelle sue natiche come per pesarla.
Immaginavo lei socchiudere gli occhi, come fa quando vuole lasciarsi andare, e poi inclinare il capo, pronta ad accogliere tutto. Non parlavano. Ma si capivano. Lui la prendeva. E io… io guardavo. Dall’interno della mia testa, in silenzio, con il cuore in gola e il cazzo che si gonfiava sotto le lenzuola. E io, invece di reagire, mi trovavo ad aspettarla.
Ad attenderla nel letto, steso, duro, pronto a farla mia.
Come se quel mistero, quel sospetto, fosse diventato il mio afrodisiaco.
Ma la curiosità ebbe il sopravvento e la seguii.
Le viuzze del paese erano deserte, immerse nella vampa del primo pomeriggio. L’aria sembrava ferma, densa come olio. La calce dei muri rifletteva la luce in bagliori accecanti. Avanzai a passi lenti, restando nell’ombra. I miei sandali facevano un lieve rumore secco sulle pietre. Mi pareva di muovermi in un sogno.
La vidi da lontano. Il vestitino leggero che le accarezzava i fianchi, le cosce nude che brillavano di sudore, il passo svelto.
Svoltò in un vicolo che scendeva verso la fontana.
Io lo conoscevo bene. In fondo a quel vicolo, appena oltre un cancello verde scrostato, c’era il vecchio forno.
Quando mi affacciai dietro l’angolo, la vidi: stava bussando piano alla porta laterale, quella che usavano i fornai, non i clienti.
La porta si aprì.
Un braccio scuro, nudo fino al gomito, la accolse con una lentezza che parlava chiaro.
Lei entrò.
La porta si richiuse.
Rimasi lì, nella penombra rovente, con la guancia appoggiata al muro caldo.
Le pietre screpolate del forno mi graffiavano la pelle, ma non mi muovevo. Il cuore mi batteva nelle orecchie, la gola secca, il cazzo che premeva già duro nei pantaloni.
Dentro, il silenzio era spezzato da suoni lievi. Fruscii. Un mobile spostato. Un sospiro.
Mi sembrava di essere fuori dal tempo, fuori dalla mia stessa vita. Come se non stessi spiando mia moglie, ma me stesso, in un sogno in cui altri possedevano ciò che era mio, ed io… restavo lì a tremare. Invidioso. Umiliato. E ferocemente eccitato.
Poi, piano, mi mossi.
Superai il cancello. Girai attorno all’edificio, costeggiando il muro dove una piccola finestra, protetta da una rete metallica fine, era rimasta appena socchiusa: mi appostai, guardando nella zona dove si lavorava l’impasto.
Il cuore batteva forte.
Lui c’era.
Il giovane pizzaiolo egiziano, nero come la notte, il corpo magro e muscoloso, il cazzo già duro e teso.
Lei era completamente nuda, conturbante nel fulgore delle sue forme: si inginocchiò subito davanti a lui, senza esitazione.
Lo prese in bocca, lentamente, con rispetto e lussuria.
Le sue labbra tese lo avvolgevano come un guanto di seta.
Il suo respiro si faceva pesante, le guance si gonfiavano ad ogni avanzamento del cazzo.
Poi si alzò.
Si voltò verso il banco di legno.
Salì con grazia e poggiò le mani sulla superficie impolverata dalla farina.
Aprì le gambe, spalancò il culo.
Le mammelle morbide, schiacciate contro il legno bianco del tavolo. Le cosce aperte.
Era piegata in avanti, le gambe ben divaricate, i piedi nudi che cercavano appiglio sul pavimento scuro del forno.
Il pizzaiolo la teneva stretta, una mano sul fianco, l’altra sulla nuca, quasi a dominarla, tenerla giù, come si tiene ferma la pasta prima di stenderla.
E lei non opponeva resistenza. Anzi, offriva.
Con un gesto lento, solenne, spalancò le natiche con le sue mani.
— Qui, adesso. Lo voglio.
La voce roca, calda, colma di un’urgenza che non le avevo mai sentito.
Lui la guardò, sorrise appena.
Poi lo vidi.
Il bastone nero.
Un fallo possente, lungo, scuro, teso come una clava, circonciso, la testa lucida e turgida, scolpita. Spiccava contro il biancore delle sue cosce, contro il chiarore del suo culo così invitante, morbido, aperto.
Lui avvicinò la punta all’anello stretto del suo sfintere ornato di nera peluria. Non subito. Ci giocò, lo sfiorò, lo accarezzò con pazienza. E lei… lei tremava.
— Spingilo, voglio sentirti tutto dentro — sussurrò, quasi supplicando.
Con un movimento lento, ma deciso, il bastone nero cominciò a entrare.
Io lo vidi aprirle le carni del culo.
Vidi quel cerchio delicato allargarsi, tremare, resistere e poi cedere, mentre il glande forzava l’ingresso e cominciava a scivolare dentro, centimetro dopo centimetro.
La pelle del suo culo si tendeva, la schiena si arcuava.
Le sue mammelle — quelle che conoscevo, accarezzavo, succhiavo — erano schiacciate contro il tavolo infarinato. Si deformavano sotto il peso, due masse calde, morbide, vive. Ogni spinta del pizzaiolo le faceva oscillare, tremare, strisciare nella farina.
Il seno destro era piegato di lato, la punta del capezzolo schiacciata sulla superficie ruvida. Il sinistro colava verso l’orlo del tavolo, tremante.
Il pizzaiolo li guardava mentre la scopava nel culo, come se fossero parte del suo pasto.
Io trattenevo il respiro, col cazzo duro che pulsava dentro i pantaloni. Non potevo muovermi. Non volevo interrompere quel rito.
Perché era chiaro, ora.
Sofia aveva deciso.
Aveva spartito il proprio corpo.
Aveva scelto la figa era per me è il culo per lui.
E nei suoi gemiti, nei suoi sussurri rotti, sentivo che questa ripartizione la eccitava. La completava.
— Tienimelo aperto… così… Dio, mi scopi come nessuno mai — lo sentii dire.
Lui ringhiò qualcosa nella sua lingua. Spinse più forte.
La tenne ferma per i fianchi e affondò fino in fondo, facendo schioccare la carne contro la carne.
La devastava, sudata, consumata.
Io godevo.
Sofia urlò. Un gemito lungo, spezzato, da femmina in calore, da troia offerta al fuoco.
Ed io, nell’ombra… venni contro il muro, in silenzio.
Con la bocca serrata, le mani sporche, il cuore in fiamme.
La pizza del pomeriggio – Parte VI
Non parlai. Non le dissi nulla.
La lasciai tornare ogni giorno con quel passo stanco e soddisfatto, la pelle lucida di sudore, lo sguardo perso.
E ogni giorno, la possedevo con più fame, più energia.
Mi sembrava quasi di prenderla due volte: una con il mio sesso, l’altra con gli occhi, mentre la ricordavo china sul banco, il culo spalancato per quel bastone nero.
Il pomeriggio era diventato il nostro rito silenzioso.
Io fingevo di restare a letto.
Lei usciva, tornava trafelata, bollente. La seguivo come un cane affamato.
E si lasciava fare di tutto.
Si offriva come una creatura arresa, ancora tremante del piacere che aveva appena ricevuto, e già pronta a darmene altro.
Quella doppia offerta…
Il suo culo per lui.
La sua figa per me.
Era perfetta. Ero geloso, ma anche fiero che quel corpo fosse il terreno di battaglia del desiderio, che lei fosse tanto troia quanto regina, che si aprisse a un altro solo per tornare da me più viva, più piena, più affamata. Una sera, dopo uno di quei pomeriggi infuocati, restammo sdraiati sul letto, le finestre aperte e l’odore del gelsomino che saliva dalla strada.
La guardavo dormire. I capezzoli ancora tesi. Le labbra socchiuse. Il sedere segnato dalle dita di qualcun altro.
E mi sfiorò un dubbio, come un colpo di vento tiepido sul collo:
 — Lei sa. Sa che la seguo, che guardo.
E forse, da tempo, lo vuole.
Il pensiero mi fece tremare.
Mi girai su di lei.
Cominciai a baciarla tutta: le guance, il collo, le spalle, i seni morbidi, le cosce.
La leccai lentamente, come se volessi assaporarla tutta. La mia lingua si fece strada nel boschetto odoroso e giunse la fessura già eccitata, ogni poro, ogni segreto.
Il suo corpo si risvegliò.
Aprì gli occhi piano. Sorrise.
— Cos’hai stasera? — sussurrò.
— Non lo so. Ti voglio. Ti desidero.
— Anche io — disse. Ma il modo in cui lo disse… era diverso. Più pieno. Più reale.
La presi.
La scopai con una passione che mi sorprese. La tenni stretta, la baciai mentre entravo in lei, mentre le facevo l’amore come se dovessi riportarla indietro da qualcosa.
Lei gemeva, si muoveva sotto di me con un’energia nuova.
Ci appartenevamo, eppure…
C’era ancora lui, invisibile tra noi, come un’ombra, come una fiamma accesa sotto la pelle.
E io non volevo spegnerla.
Perché avrei dovuto?
Perché distruggere l’incanto? Lei non è mai stata così mia.
Quel giorno pioveva appena, ma il calore era lo stesso. Un’umidità vischiosa, appiccicosa sulla pelle. Lei uscì come sempre, con il vestitino incollato al corpo, le cosce nude sotto l’orlo che ballava appena. Io la seguii. Il cuore già duro. Non so spiegare come, né perché.
Forse per il caldo, per l’attesa, per la luce abbagliante che filtrava dalla finestra.
Ma il mondo parve confondersi.
Era lei, sì. Ma ero anche io.
Sentii un fremito profondo dentro di me, come se la carne che cedeva sotto quella spinta non fosse solo la sua, ma anche la mia.
Ogni centimetro che entrava in lei era come una lama calda che mi apriva, uno strappo sacro nel mio stesso orgoglio. Vederla così, con l’ano che si dilatava sotto quel fallo scuro, non era solo un tradimento: era una liturgia.
E io… io ne ero parte. Non più marito, non più uomo. Ma occhio, spettatore, corpo riflesso. Cosa c’era di più umiliante? Cosa c’era di più eccitante?
Sentii il mio respiro farsi corto, il ventre stringersi, le gambe tremare.
Quel bastone — lungo, possente, scuro — mi sembrò all’improvviso troppo reale anche per me.
Non solo da guardare.
Da sentire.
Ogni centimetro che affondava in lei… mi apriva.
Lo sentivo farsi strada dentro di me, scavarmi, premere. Come se la carne che cedeva fosse la mia. Come se fossi io, curvo sul banco, a spalancarmi piano.
Mi sentivo aperto, spalancato come lei, come quel buco che si allargava sotto la spinta lenta e inesorabile. Il calore, l’umiliazione, il dolore confuso al piacere: era tutto mio.
Non ero più fuori. Ero dentro.
Dentro quel corpo, dentro quella posizione, dentro quella resa.
Il cazzo che la penetrava… era anche il mio carnefice.
E il piacere che la faceva tremare… mi faceva lacrimare.
Il mio ventre si tendeva come se aspettasse lo stesso colpo. Le chiappe mi bruciavano in assenza di contatto. La mia bocca non emetteva suoni, ma ogni suo gemito si scolpiva nella mia gola come un’eco.
La guardavo offrire quel culo e il sangue mi pulsava nelle orecchie, ma era un fremito diverso: un'onda fatta di vergogna e desiderio, di umiliazione e godimento.
Il cazzo mi pulsava contro il tessuto, teso, doloroso, ma il piacere sembrava risalire da più in fondo.
Un piacere che mi attraversava da dietro, che mi sottometteva in silenzio.
È lei… ma sono io. Sta godendo… ma lo sento anch’io. Sta cedendo… ma anch’io mi apro.
Volevo scappare. Ma non riuscivo a staccarmi. Ero lì, a guardare, a sentire.
E quando la vidi gemere, quando le sue natiche si allargarono di nuovo e il pizzaiolo affondò più a fondo…Io sentii quel cazzo entrarmi dentro, possedermi, essere sfondato.
Era un sogno, torbido che non mi apparteneva, ma in quel preciso momento mi prese e venni con la fronte premuta al muro caldo, con la bocca serrata.
scritto il
2025-07-29
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