Estate senza vergogna Tamara

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genere
prime esperienze

Estate senza vergogna – Tamara

Avevo diciott’anni appena compiuti e un culo che faceva girare la testa a tutti. Ma lui, Marcello, lo adorava più di chiunque. Lo guardava come si guarda un piatto di pasta dopo giorni di digiuno. Ogni volta che eravamo soli, finiva col ficcarmi la lingua tra le chiappe, e io gli lasciavo fare tutto. Mi piaceva. Mi faceva sentire sporca e viva.

Quell’estate stavamo in una casa al mare con i miei. Un giorno rimasero fuori un paio d’ore. Lui mi prese per i fianchi mentre lavavo i piatti in cucina, mi abbassò il costume e infilò la faccia nel mio culo come se non respirasse da giorni. Me lo leccava con la lingua piatta, lenta, affamata. Mi allargava le chiappe con forza, me le prendeva come sue. Quando sentii il dito bagnato premere sul buco, trattenni il fiato.

«Che culo hai, Tamara. Giuro, ci impazzisco.»

Lo sentii spingere un dito dentro, con lentezza. Si muoveva su e giù, poi lo girava, lo strusciava sulle pareti. Godevo, cazzo se godevo. Mi veniva in mente quando da ragazzina giocavamo al dottore e io facevo sempre l’ammalata per farmi toccare. Forse avevo sempre saputo cosa volevo.

Quella sera uscimmo a fare una passeggiata sulla spiaggia. Indossavo dei pantaloncini cortissimi, niente mutande. Lui lo sapeva, gliel’avevo sussurrato all’orecchio mentre cenavamo. Lo sentivo eccitato solo a guardarmi camminare. Le palle gli rimbombavano nei jeans.

Mi prese per un braccio, senza dire niente, e mi trascinò dietro una cabina abbandonata. Mi spinse contro il legno marcio, mi baciò con foga, mi afferrò le tette sotto la maglietta, senza nemmeno sollevarla. Poi giù, i pantaloncini spariti, le mani sulle cosce, sulle chiappe. Me le aprì, ancora.

«Sei bagnata anche lì dietro, troia mia.»

Lo sentii sputare sul dito, poi sul buco. Mi girai appena.

«Cosa vuoi fare?»

«Quello che desideri da mesi.»

Si abbassò i pantaloni, tirò fuori il cazzo, duro, spesso, caldo. Mi si appoggiò dietro. Con una mano mi teneva le chiappe aperte, con l’altra si guidava la cappella sul buco. Strofinava, spingeva piano, poi si fermava. E io lì, piegata, col cuore in gola e il culo in fiamme.

«Entra…» sussurrai. «Ma piano…»

La sua cappella forò il cerchio del mio buco. Un dolore sordo, poi un brivido. Spingeva lento, centimetro dopo centimetro, e io lo sentivo aprirmi, scardinarmi, riempirmi. Godevo e soffrivo insieme. Avevo le mani strette al legno, le unghie affondate, gli occhi chiusi e il respiro rotto.

«Madonna, quanto sei stretta…» sibilava lui. «Culo da scopata eterna.»

Quando fu tutto dentro, si fermò. Poi cominciò a muoversi. Spinta dopo spinta, mi abituai alla sua presenza dentro di me. Il dolore si sciolse in godimento puro. Mi stava inculando sulla spiaggia, sotto le stelle, col mare che faceva da colonna sonora. Mi sbatteva con ritmo lento ma profondo, ogni colpo una scossa.

«Sei mia, troia.»

«Tutto tuo… tutto…» gemetti.

Sentivo le sue palle sbattermi sulle cosce, le sue mani che mi tiravano a sé. Poi un colpo più forte, e un altro. Si bloccò, affondato dentro fino alla radice. Lo sentii venire, lo sperma caldo che mi riempiva il culo, scorrermi dentro, colare fuori a gocce. Rimase così, ansimante, la fronte sulla mia schiena.

Restammo fermi qualche istante. Poi si tirò fuori lentamente. Il mio buco pulsava ancora, aperto, bagnato del suo seme.

Mi rivestii senza mutande. Camminammo sulla sabbia senza dire una parola. Ridevo dentro. Ridevo come una puttana soddisfatta.

E non era ancora finita.

Tamara
scritto il
2025-06-23
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