Mia madre mi fa scopare

di
genere
incesti

Mia madre Carmela era piegata sulla cassapanca a cercare non so cosa, e io non riuscivo a smettere di guardarle il culo. Quel grembiulino leggero che portava in casa non nascondeva un cazzo. Si appiccicava alle curve come se fosse bagnato, e sotto si indovinavano perfettamente le chiappe tonde, sode, da sborrarci sopra.
Le ci passai una mano, così, senza dir niente. Un palmo intero che le scivolò lento sopra la stoffa. Lei restò lì, ferma, a frugare tra vecchie coperte, e io presi a massaggiarle il culo come fosse roba mia. Non disse nulla. Neanche un “basta”. Nulla.
Aveva il culo duro, compatto. Una carne che stava ferma sotto la mano ma vibrava al tocco, calda e tesa. Io sudavo. Mi partiva il sangue nelle tempie. Ogni secondo che passava mi sentivo più fuori controllo. Le accarezzavo le chiappe e sentivo il cazzo pulsarmi nei pantaloni. A un certo punto glielo sollevai, quel grembiule. Glielo tirai su fino alla schiena. Non sapevo nemmeno cosa stessi facendo, ma lo feci.
Lei rimase lì. Non un gesto. Non un “no”. Continuava a rovistare nella cassapanca con la testa bassa, come se niente stesse succedendo. Allora posai le mani nude sul suo culo. E quando sentii la pelle, cazzo… la pelle nuda… capii che ero fottuto. Indossava mutandine di pizzo nero, sottili, infilate bene tra le chiappe. Le mie dita tremavano mentre le seguivano il contorno. Liscia. Calda. Era una dannata puttana e lo sapeva.
Abbassai lentamente le mutandine, le feci scendere piano sulle cosce. A metà le lasciai lì, a segnarle la pelle. E finalmente la sentii.
«Giuliano, ma la vuoi finire?! Sei impazzito? … Su, da bravo, tiramele su…»
La voce era strozzata, finta severa, ma impastata di qualcosa che non era rabbia. Non si era girata. Non mi aveva fermato. Non aveva neanche stretto le cosce. Le chiappe erano lì, nude, esposte. E io gliele guardavo come un condannato che ha davanti l’ultima figa prima dell’inferno.
Mi inginocchiai dietro di lei e le spalmai le mani sulle natiche, le divaricai. Il buchino dell’ano brillava teso, un occhio cieco che chiamava. Le passai la lingua. Sì. Proprio lì. E quando lo feci lei gemette. Un suono gutturale, che non poteva fingere.
Allora parlai. Con la voce roca, impastata di voglia.
«Non vuoi che smetta davvero.»
Lei non rispose. Ma si piegò ancora di più in avanti, aprendo le gambe. Bastò quello.
Mi slacciai i pantaloni, tirai fuori il cazzo — duro come un’arma. Le infilai due dita nella figa, ed era zuppa. Scivolavano dentro come se mi aspettasse da ore.
Le sussurrai all’orecchio, chinandomi:
«È questo che vuoi, eh? Una bella scopata da porca. Dimmelo.»
Lei girò la faccia appena, non mi guardò, ma mi sibilò:
«Fammelo. Ma fammi male.»
Mi inginocchiai dietro di lei e le infilai due dita. La sua figa era bagnata marcia. Calda, pulsante. Ci sguazzavo dentro senza fatica, anzi, sembrava tirarmi dentro anche le nocche.
«Cristo… sei zuppa. Ma da quanto aspettavi, eh? Da quanto ci pensavi?»
Lei ansimava, col fiato rotto.
«Zitto…» fece. Ma la voce le tremava.
«Dimmi che lo vuoi, stronza.»
«Lo voglio…» sussurrò, «prendimi.»
Poi lo disse più forte. Più sporco.
«Fottimi. Voglio sentirti dentro. Ma dietro, Giuliano. Fammelo dietro. Mi scopi come una puttana, hai capito? Come quelle che guardi nei video.»
Io non credevo alle mie orecchie.
«Vuoi che ti scopi il culo?»
«Sì. Voglio che mi spacchi il culo. Lo vuoi? Fallo. Fallo ora, non farmi aspettare.»
Mi stava facendo impazzire.
Le allargai le chiappe con le mani sudate. Il buchino era stretto, bellissimo, teso come una promessa. Ci sputai sopra, senza pensarci. Due volte. Il suono era osceno, viscido.
Lei lo sentì, e si piegò ancora di più.
«Ancora. Sputami addosso. Aprimi. Fammi tua, ti prego. Trattami come una cagna…»
Sì. Era quello. Una cagna in calore, e io il maschio che la monta, senza freni.
Presi il cazzo, duro e gonfio, e glielo passai sopra il solco, sfregando, premendo piano.
Lei si torse verso di me, occhi lucidi, bocca aperta:
«Spingilo dentro. Ora. Non voglio dolcezza. Voglio sentirlo bruciare. Voglio piangere dal piacere.»
«Sei malata.»
«E tu mi fai impazzire. Prendimi. Rompimi. Voglio che quando mi rialzo senta il tuo cazzo anche domani.»
Allora spinsi.
Piano, ma deciso. Il cazzo iniziò ad entrare, e lei si aggrappò al bordo della cassapanca con le unghie. Emise un grido, corto, profondo.
Ma non si tirò indietro. Al contrario, spinse anche lei.
Lo voleva tutto.
«Dai… di più… fammi male. Fammi male, Giuliano. Scopami come non hai mai scopato nessuna.»
Cominciai a muovermi. Prima lento, poi più forte. Ogni colpo faceva schioccare le chiappe. La stanza sapeva di sudore, di sesso, di vergogna e trionfo.
«Mi senti?» le ringhiai all’orecchio. «Questo è il mio cazzo. Ora è tuo. Te lo sei guadagnata.»
Lei gemeva come posseduta.
«Sì. Scopami. Sì, cazzo, ancora! Vienimi dentro, se vuoi. Sporcamela tutta. Fallo. Fammi sentire che sono tua troia.»
Mi staccai da lei senza una parola. Il cazzo uscì dal suo culo con uno slap molle, appiccicoso, e un filo del mio sperma le colò giù tra le cosce.
Aveva ancora le mutandine ai piedi, il culo rosso, il grembiule rimboccato sulla schiena.
Non si voltò. Non disse niente.
Io camminai via. Barcollavo.
Il bagno era un rifugio temporaneo. Chiusi la porta, aprii l’acqua, e mi ci infilai sotto.
Calda. Troppo. Bruciava la pelle, ma non la coscienza.
Mi strofinai il cazzo con rabbia. Come a volermi disinfettare da me stesso.
Ma niente.
Non andava via.
Avevo ancora il sapore della sua pelle tra i denti. Il suo culo che mi stringeva. Le sue parole da troia.
«Fammi male…»
Mi rimbombavano nella testa, come un’eco sporca.
Uscii, non mi asciugai neanche. Mi buttai sul letto, nudo, sudato, la pelle che pizzicava.
Chiusi gli occhi.
Respiravo forte. Volevo dormire, ma il cuore mi batteva ancora a mille.
Il cazzo era semi-molle, appoggiato di lato, lucido.
Poi sentii i passi.
Nudi. Leggeri.
Uno. Due. Tre.
Bussano.
Non dissi nulla.
La porta si aprì piano.
Il silenzio entrò con lei.
Sentivo i suoi occhi su di me. Sul mio corpo aperto, esposto, sconfitto.
Sapevo che mi stava guardando il cazzo. Le cosce. Il petto che si alzava e abbassava a scatti.
Rimasi fermo.
Poi la sentii.
Calore.
Umidità.
Un tocco.
La sua lingua.
Sulla cappella.
Aprii appena la bocca.
Il respiro si bloccò in gola.
Non disse nulla.
Solo la lingua che passava sulla punta, lenta, quasi a disegnare una croce.
Una benedizione sacrilega.
Poi le labbra.
Calde, morbide, decise.
Mi prese in bocca piano.
Mezzo cazzo, poi tutto.
Mi stava succhiando come se non volesse solo darmi piacere, ma prendermi. Consumarmi.
Riaprii gli occhi.
La vidi lì, in ginocchio, il grembiulino ancora addosso, le cosce nude, le dita che si stringevano ai miei fianchi.
Aveva la bocca piena.
Gli occhi puntati nei miei.
«Guardami mentre lo succhi» le dissi.
La voce roca. Strappata.
Lei obbedì.
Mi inghiottì ancora.
Fino in fondo.
Mi leccava il cazzo come fosse il suo unico dio.
Come se lì, tra le sue labbra, ci fosse la redenzione o la condanna. Ma voleva entrambe.
Il cazzo ormai era di nuovo pieno.
Teso.
Duro da far male.
Le spinsi la testa giù.
Le presi i capelli.
La facevo affondare, fino a sentirmi sbattere in gola.
Lei non tossiva. Non si tirava indietro.
Si lasciava soffocare.
Aveva le guance bagnate.
Eppure, sorrideva.
Con il cazzo in bocca, sorrideva.
Me lo stava succhiando con furia.
Sentivo la fine avvicinarsi, a scatti, come un treno che deraglia a rallentatore.
Ero lì.
Un secondo ancora e le sarei venuto in bocca.
Glielo avrei sparato dentro la gola, riempiendole la lingua, facendole colare lo sperma sul mento.
Ma lei si staccò.
All’improvviso.
Mi lasciò lì, con il cazzo lucido, gonfio, pulsante.
Lo guardò.
Ci passò la lingua sopra, appena. Una tortura.
«No, adesso no» disse.
La voce bassa, impastata, infame.
Si alzò, si spogliò.
Via il grembiule.
Nuda.
Sporca del mio seme, col culo arrossato, le cosce bagnate.
Salì sul letto, con passo lento.
Mi guardava come si guarda un cane addestrato, che hai deciso di far soffrire per capriccio.
Si mise a cavalcioni sopra di me.
Si afferrò il cazzo.
Se lo posò sulla figa.
Bagnata. Scivolosa. Un abisso.
«Sei duro… ma non decidi più un cazzo.»
E si calò.
Tutta.
Mi sentii affondare dentro di lei con un gemito strozzato.
Era calda come una fornace.
Umida, pulsante, stretta.
Il mio cazzo si fece ancora più grosso.
Il piacere era lì, vicino, impellente. Mi saliva come una fiamma dallo stomaco.

Lei cominciò a muoversi.
A cavalcarmi.
Lenta. Poi più veloce.
Mi sbatteva addosso le sue anche. Il rumore della carne era indecente.
Aveva gli occhi chiusi, la bocca aperta. Godeva.
Veniva.
Una volta.
Poi un’altra.
Veniva sbattendosi il bacino, urlando bestemmie, sputando aria, graffiandomi il petto.
Io ero lì sotto.
Prigioniero.
«Ti piace, eh? Sentirmi venire su di te. Ma tu no. Tu no.»
E strinse.
Strinse i muscoli.
Mi prese tra le cosce.
Serrò la figa intorno al mio cazzo come un pugno.
Mi strinse e… si fermò.
Io ansimavo.
«Fammi venire…»
Le mani mi tremavano.
Le avrei afferrato i fianchi, le avrei dato l’ultima spinta, ma lei mi bloccò.
Mi inchiodò i polsi sopra la testa.
«No. Ora sei il mio cazzo. Solo mio.
Tu resti duro.
E io… vengo ancora.»

E riprese.
A cavalcarmi.
A sfinirmi.
Mi scopava con tutta la forza, i seni che rimbalzavano, il sudore che colava, le cosce che sbattevano contro le mie.
Ogni colpo era una sentenza.
Veniva.
Ancora.
Tre volte.
Quattro.
Io ero sull’orlo.
Ma lei, ogni volta che sentiva che stavo per venire, si fermava.
Rideva.
Mi stringeva il cazzo con la figa e lo faceva morire lì, dentro.
«È questo che sei.
Un bel cazzo duro da montare. Ma non da far venire.»
E mi guardava dall’alto, gli occhi lucidi, le labbra gonfie, il corpo devastato dal piacere.
Io la supplicavo ormai.
A denti stretti.
Con la gola secca.
Ma lei rideva.
E veniva ancora.
Mi cavalcava da minuti che sembravano ore.
Ogni movimento della sua figa era un colpo di grazia, un’esecuzione lenta.
E io sotto, prigioniero, col cazzo duro come un palo, madido di umori, stretto nel suo inferno bagnato.
Ogni volta che sentivo l’orgasmo salire, lei si fermava.
Mi guardava. Sorriso sporco. Malato.
E mi sussurrava:
«No. Non ancora. Tu aspetti. Tu servi.»
Poi riprendeva.
A scoparmi.
A scoparsi il mio cazzo come se fosse un oggetto.
Non mi vedeva più.
Godeva. Godeva di sé stessa che veniva sopra di me.
Ed era bellissima, devastata, scomposta.
I seni rimbalzavano, sudati.
E a un certo punto me li mise in faccia.
Mi schiaffeggiò le guance coi capezzoli duri.
Li sfiorava sulle labbra, sul mento.
Li cercai con la bocca.
Come un affamato.
Leccavo, succhiavo, li mordicchiavo piano.
Poi uno. Uno in particolare.
Me lo infilò tra i denti.
Lo presi.
E lo strinsi.
Piano. Poi più forte.
Fino a sentirla sussultare.
«Sì… così… mordilo… fammi male… fammi sanguinare…»
La voce le tremava.
Era sull’orlo. Di nuovo.
Io tiravo con i denti, con la lingua leccavo intorno, con le labbra succhiavo come un neonato indecente.
E lei impazziva.
«Cazzo, sì! Vengo! Vengo ancora, stronza che sono!»
E urlò.
Un’altra ondata.
Le cosce mi tremavano addosso, la figa mi strinse il cazzo come una tenaglia viva.
Sentii le sue unghie sulle mie spalle, scavarmi, affondarmi dentro.
Rideva. Piangeva. Veniva.
E io ancora lì, duro come ferro, gli occhi chiusi, la bocca piena del suo capezzolo.
Le sputai addosso.
Sulla pelle del seno.
Sulla pancia.
Sulle mani.
«Guarda come mi riduci, porca. Mi stai uccidendo. Fammi venire.»
«No. Ancora no. Tu resti lì sotto. Con il cazzo gonfio. Finché lo dico io.»
E si sfregava ancora.
Mi strusciava la figa sul cazzo, a scatti, a onde, a colpi di bacino che sembravano bestemmie.
Mi montava come un demone.
Il capezzolo ancora tra le mie labbra, rosso, teso, bagnato.
E lei veniva.
Ancora.
Un’altra volta.
E un’altra.
Sudata, madida, sporca, col trucco colato, col collo arrossato, col sorriso da indemoniata.

«Guarda che sei il mio cazzo. Solo mio. Ti comando col buco. Capito, Giuliano? Adesso vieni solo quando te lo dico io.»
E rideva.
Veniva.
Godeva sopra di me, mentre io morivo dentro.
Lei era diventata un fiume impazzito.
Mi cavalcava a scatti, con il bacino che sbatteva addosso al mio pube come un martello di carne, con i seni che mi rimbalzavano sulla faccia, con la figa che mi ingoiava il cazzo come se volesse succhiarmelo via dall’osso.
Io non ci vedevo più.
Gli occhi appannati, il respiro spezzato, la bocca che non trovava più saliva.
Lei gemeva. Ma non erano più gemiti.
Erano versi gutturali, grida sorde, preghiere alla rovescia.

«Vengo… vengo, Giuliano… porca puttana… adesso… adesso…»
Il corpo le si irrigidì.
Il bacino smise di muoversi.
Tese le gambe, arcuò la schiena.
La testa all’indietro.
La bocca spalancata.
Poi arrivò.
Un urlo.
No, un’esplosione di gola, un lamento animalesco che le uscì dai polmoni con tutta l’aria che aveva.
Il corpo le tremava, convulsioni vere, incontrollabili.
Le cosce che mi stringevano come una morsa.
Il culo che mi sbatteva addosso.
Il capezzolo tra i miei denti, tirato, succhiato, morso.

E poi lo sentii.
Uno schizzo.
Uno spruzzo caldo.
La sua figa che squirtava, impazzita.
Mi bagnò il ventre, il petto.
Mi gocciolò addosso, sulla faccia.
Aveva la bava alla bocca, colava dal labbro, le colava sul mento.
Il corpo scosso da spasmi.
Il cazzo mio ancora dentro, stretto, inondato.
E fu allora che non resistetti più.
«Porca troia… sì… adesso… adesso…»
Il cazzo si gonfiò.
Mi si spaccò in due dentro.
Un’esplosione, una fottuta eruzione bollente.
Le venni dentro.
Tutto.
A raffiche.
A spinte.
Sentivo il seme uscire, spingere, scivolare in lei.
Le afferrai i fianchi.
Le diedi le ultime spinte, brutali.
La schiacciai contro il bacino.
Le versai tutto lo sperma che avevo addosso.
Era un’apocalisse di carne.
Lei tremava.
Rideva.
Piangeva.
Aveva gli occhi rovesciati, la faccia sporca, le mani strette ai miei polsi.
Io ansimavo.
Il cazzo ancora dentro.
Ancora duro, ancora umido, ancora vivo.
Lei restò lì, sopra.
A respirare con la bocca aperta, mentre il mio sperma le colava fuori piano, a gocce.
Due bestie sudate, appiccicate, sfinite, dannate.
Si accasciò su di me come una bestia ferita che ha dato tutto.
Il respiro le tremava contro il petto.
Il suo cuore batteva come un tamburo impazzito.
Mi schiacciava col peso del suo corpo sudato, tremante, sporco di me.
Il mio cazzo sgusciò fuori dalla sua figa con un plop molle e osceno.
Era flaccido, madido, incrostato di umori, lucido di squirt, di sperma, di tutto quello che ci eravamo lanciati addosso.
Una cosa viva e sconfitta.
Lei restò lì, con la figa ancora aperta, che pulsava e colava, il respiro sulle mie guance, la pelle appiccicosa.
Mi baciò.
Per la prima volta.
Un bacio vero.
Lento.
Sporco.
Con la lingua che sapeva di saliva e di sudore.
Di cazzo e di vittoria.
Rimanemmo così.
Fermi.
Incollati.
Due corpi disfatti che non volevano più separarsi.
Il tempo si era rotto.
Non contava più.
Eravamo solo noi.
E il silenzio.
Poi, lei si mosse appena.
Mi leccò il lobo.
Mi infilò la lingua nell’orecchio, umida, lenta, indecente.
E poi sussurrò.
«Stasera… voglio che mi prendi insieme a tuo fratello.»
Il sangue mi si bloccò nelle vene.
Il cuore smise di battere per un secondo.
Il cazzo, ancora molle, ebbe un sussulto.
La guardai.
Aveva il sorriso di una santa bestemmia.
Gli occhi lucidi.
Il corpo segnato.
La figa che ancora pulsava.
«Hai capito, Giuliano? Voglio che mi scopiate in due. Io in mezzo. I vostri cazzi ovunque. Voglio essere la vostra puttana di famiglia.»
scritto il
2025-06-07
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