Tra padre e figlio
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
All’inizio ci ho provato a fare la signora.
Stavo composta, educata, le gambe chiuse e la voce gentile. Mi dicevo che ero fortunata: un uomo più grande, stabile, maturo. Sergio mi scopava come si beve un buon vino, con calma, gusto, rispetto. Mi faceva venire piano, con le dita esperte e la lingua calda. Avevo pure le chiavi di casa, la sua fiducia, un posto tutto mio.
Poi ho visto suo figlio. Leonardo.
Diciannove anni, occhi da infame e il cazzo mezzo duro ogni volta che passavo in canottiera. Mi lanciava quelle occhiate da figlio di puttana che ti leggono dentro. Mi sentivo osservata, spogliata, mangiata viva solo col pensiero.
La prima volta ha fatto finta di niente.
Poi ha cominciato a lasciarmi vedere di più. Si faceva la doccia e usciva bagnato, gocce sul petto, boxer gonfio. Una sera mi ha detto, guardandomi dritta in mezzo alle gambe:
— «Chissà come sta bene quella tua fica sulla mia lingua.»
Mi si è gelato il sangue.
E poi ho sentito l’umido colare.
Ho fatto finta di scandalizzarmi. Ma la notte, sotto le coperte, mi sono infilata le dita e ho pensato solo a lui. Alla sua bocca sporca, a quel cazzo duro che si intuiva sotto i pantaloni da tuta. E mentre mi venivo addosso, il nome che mi è sfuggito tra i denti non era quello di Sergio.
Poi è successo.
Era mezzanotte. Sergio era uscito. Io in cucina, vestaglia e nulla sotto. Leonardo è entrato, a torso nudo, pantaloni bassi e quell’aria da bullo di periferia.
Mi ha guardata. Mi ha spinta contro il frigorifero. Le mani sulle tette, la bocca al collo, la lingua che scivolava fino al seno.
Non ho detto no.
Non ho detto niente.
Mi ha sbattuta sul tavolo. Mi ha strappato la vestaglia.
— «Stai zitta» — mi ha sibilato — «E fammi sentire quanto sei bagnata per me.»
Mi ha infilato due dita dentro. Affondava e io gemevo. Poi il cazzo. Grosso, giovane, teso come la sua rabbia.
Mi ha scopata in piedi, con le mani sui fianchi, il respiro nel collo, lo sguardo fisso.
Senza un briciolo di dolcezza.
Ero la troia che aveva sempre voluto.
E io… io lo volevo da morire.
Poi tornava il padre, e io ero di nuovo la brava ragazza.
Pulita, vestita, mutandine fresche e sorriso da fidanzata.
Sergio mi faceva l’amore. E io godevo. Ma per le mani che avevo ancora addosso, quelle di suo figlio.
Un giorno ci ha beccati.
Leo mi stava scopando da dietro, culo alzato e faccia contro il tappeto. Me lo sbatteva forte, urlando oscenità.
Sergio è entrato.
Ci ha guardati.
Ha chiuso la porta.
E si è sbottonato i pantaloni.
— «A quanto pare, ti piace fare la puttana in casa mia» — ha detto.
Poi mi ha preso per i capelli.
E ha aggiunto:
— «Allora adesso la prendi anche da me.»
E così ho capito.
Che non ero lì per essere amata.
E neanche solo per essere scopata.
Ero lì per farmi usare.
Come una troia di famiglia.
E mi andava benissimo.
Stavo composta, educata, le gambe chiuse e la voce gentile. Mi dicevo che ero fortunata: un uomo più grande, stabile, maturo. Sergio mi scopava come si beve un buon vino, con calma, gusto, rispetto. Mi faceva venire piano, con le dita esperte e la lingua calda. Avevo pure le chiavi di casa, la sua fiducia, un posto tutto mio.
Poi ho visto suo figlio. Leonardo.
Diciannove anni, occhi da infame e il cazzo mezzo duro ogni volta che passavo in canottiera. Mi lanciava quelle occhiate da figlio di puttana che ti leggono dentro. Mi sentivo osservata, spogliata, mangiata viva solo col pensiero.
La prima volta ha fatto finta di niente.
Poi ha cominciato a lasciarmi vedere di più. Si faceva la doccia e usciva bagnato, gocce sul petto, boxer gonfio. Una sera mi ha detto, guardandomi dritta in mezzo alle gambe:
— «Chissà come sta bene quella tua fica sulla mia lingua.»
Mi si è gelato il sangue.
E poi ho sentito l’umido colare.
Ho fatto finta di scandalizzarmi. Ma la notte, sotto le coperte, mi sono infilata le dita e ho pensato solo a lui. Alla sua bocca sporca, a quel cazzo duro che si intuiva sotto i pantaloni da tuta. E mentre mi venivo addosso, il nome che mi è sfuggito tra i denti non era quello di Sergio.
Poi è successo.
Era mezzanotte. Sergio era uscito. Io in cucina, vestaglia e nulla sotto. Leonardo è entrato, a torso nudo, pantaloni bassi e quell’aria da bullo di periferia.
Mi ha guardata. Mi ha spinta contro il frigorifero. Le mani sulle tette, la bocca al collo, la lingua che scivolava fino al seno.
Non ho detto no.
Non ho detto niente.
Mi ha sbattuta sul tavolo. Mi ha strappato la vestaglia.
— «Stai zitta» — mi ha sibilato — «E fammi sentire quanto sei bagnata per me.»
Mi ha infilato due dita dentro. Affondava e io gemevo. Poi il cazzo. Grosso, giovane, teso come la sua rabbia.
Mi ha scopata in piedi, con le mani sui fianchi, il respiro nel collo, lo sguardo fisso.
Senza un briciolo di dolcezza.
Ero la troia che aveva sempre voluto.
E io… io lo volevo da morire.
Poi tornava il padre, e io ero di nuovo la brava ragazza.
Pulita, vestita, mutandine fresche e sorriso da fidanzata.
Sergio mi faceva l’amore. E io godevo. Ma per le mani che avevo ancora addosso, quelle di suo figlio.
Un giorno ci ha beccati.
Leo mi stava scopando da dietro, culo alzato e faccia contro il tappeto. Me lo sbatteva forte, urlando oscenità.
Sergio è entrato.
Ci ha guardati.
Ha chiuso la porta.
E si è sbottonato i pantaloni.
— «A quanto pare, ti piace fare la puttana in casa mia» — ha detto.
Poi mi ha preso per i capelli.
E ha aggiunto:
— «Allora adesso la prendi anche da me.»
E così ho capito.
Che non ero lì per essere amata.
E neanche solo per essere scopata.
Ero lì per farmi usare.
Come una troia di famiglia.
E mi andava benissimo.
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