La amazzone. 4. Ritorno a una nuova vita.

di
genere
saffico

Ci svegliamo al mattino accorgendoci che ci stiamo ancora baciando le labbra e il volto e io mi chiedo se nella notte ho mai smesso di amare questa ragazza o se invece ho ricominciato a baciarla nel sonno e ancora in stato di incoscienza.
Lei risponde alle mie effusioni e sento le sue mani sulla schiena e sul sedere. Ashàninka ha scoperto le generose curve del mio fondoschiena e sembra averle apprezzate intimamente.
Ci gioca e mi palpa inventando nuovi vizi e nuove varianti e non smette di infilarsi nella piega fra i glutei per sfiorarmi il culetto e poi procedere verso la mia vulva, un oggetto cui sembra non poter più fare a meno.
La ragazza si sente rinascere con la cura che sta sanando la sua gamba e vuole recuperare sensazioni, emozioni e tempo passato senza aver potuto gioire e saziarsi del corpo di una donna consenziente e come lei attratta dallo stesso sesso.
Potremo rimanere qui tutta la mattinata, ma devo proseguire la mia opera medica se voglio che la giovane guarisca bene.
Usciamo dal nostro nido e veniamo sferzate dall'aria frizzante del mattino amazzone.
Inspiriamo a pieni polmoni vedendo i nostri seni sollevarsi e gonfiarsi insieme al nostro petto pieno di vitale ossigeno.
Mi sento una Eva insieme a un'altra Eva nel giardino dell'Eden a chissà se stavolta, in questa versione omosex, il destino dell'umanità verrà nuovamente buttato per colpa di un frutto, oppure no.
Parliamo insieme, ognuna nella sua lingua, coprendoci e interrompendoci, senza capire né dare un senso al nostro delirare.
Ci alziamo in piedi e ci abbracciamo facendo aderire la pelle delle nostre gambe e i nostri ventri, i nostri seni e le braccia intorno alle nostre schiene.
Con la mano le accarezzo la colonna vertebrale fino a toccarle le scapole e sento che lei mi stringe nel suo abbraccio mentre appoggia il suo viso sul mio seno.
Poi mi guarda: “Yuukko!” pronuncia.
“Yuko” la correggo io e la guardo con dolcezza mentre ancora le cingo la stretta vita contro il mio ventre. La sento che strofina il suo pube sul mio e la vedo che si morde il labbro rapita dal piacere che rischia di impadronirsi nuovamente di lei.
Questa ragazza brucia di energia e ora sembra voler fare sesso senza pause.
Poi si discosta e si appoggia una mano sul petto: “Ashtà!” Mi dice, e capisco che quello è il suo nome, oppure quello con cui vuole che io la chiami.
Poi, giudiziosa, si siede e mi porge la gamba.
Io rimuovo le garze e le lavo per poterle riutilizzare dopo averle esposte al sole nella speranza che si disinfettino con i raggi ultravioletti, ma intanto, dopo aver spremuto quanto più pus e sangue riesco e dopo aver lavato accuratamente, infilo nella sua gamba le altre garze pulite di cui dispongo.
Vorrei chiederle del ragazzo di ieri, farmi spiegare che ne è stato della sua vita nelle ultime settimane e perchè non l'abbiano riaccolta nella sua tribù, ma tutto questo mi risulta impossibile e continuo in silenzio il mio lavoro. Le somministro un'altra compressa di antibiotico che ancora lei mastica e deglutisce aiutandosi con un po' di polpa di papaia.
Vado poi a caccia di frutta mentre Ashtà vigila su di me proteggendomi col suo arco e il resto della mattina lo passiamo a goderci il sole, a parlare e ad amoreggiare.
La ragazza sta già decisamente meglio e mi chiedo quanto potremmo andare avanti in questo nostro rifugio e in questa vita fatta di amore, sesso e tenerezze.
Le compresse a mia disposizione sono poche, ma conto in capo a pochi giorni di riuscire a guarire la sua gamba e già sento talvolta una fitta al petto, al pensiero dell'inevitabile separazione che si delinea al nostro orizzonte. Ma poi non ci penso più e cerco di vivere alla giornata questa straordinaria avventura da selvaggia con la mia amante amazzone, io e lei, nude nel paradiso terrestre.
Nel pomeriggio Ashtà prova a fare qualche passo e ci spingiamo verso la cima della collina, aiutandoci a vicenda mentre lei si sorregge con la sua lancia.
La sommità non è distante, in fondo siamo solo su un piccolo rilievo, ma la terra più asciutta e il terreno calcareo hanno fatto sì che la vegetazione fosse meno esuberante in questo tratto di foresta e questo ci consente di ammirare un orizzonte un poco più ampio, sopra il limitare della fronde.
Ed è solo allora che riesco a scorgere verso sud ovest, lontanissima, l'ampia ansa di un grosso fiume che identifico come il Paranà do Urarià, la meta verso cui stavo tentando di dirigermi. Oltre quell'ansa di fiume, che non ho ancora idea di come attraversare, dovrei trovare la lunga strada che collega il corso d'acqua con Nova Olinda do Norte, la mia ultima destinazione prima di tornare in patria.
Mostro ad Ashtà l'affluente del grande Rio e le stringo una mano, eccitata, ma lei sembra non riconoscere il nome dello specchio d'acqua e invece si mette a fissare l'orizzonte cupa e pensierosa.
Mi si forma un'ombra sul cuore e capisco a cosa sta pensando.
“Non aver paura, piccola amazzone.” Le dico prendendole il viso tra le mani. “Non ho fretta e sicuramente non ho alcuna intenzione di abbandonarti prima che tu sia guarita e possa tornare alla tua tribù!”
Mi sono costruita l'idea che quella persona che si è palesata ieri sera potrà aiutarla, una volta guarita, a essere reinserita nella sua gente. Sono certa che neanche una come lei potrebbe sopravvivere da sola per molto tempo, in questa terra. Prima o poi sarebbe scoperta da altre tribù o dovrebbe esporsi a pericoli per procurarsi da vivere e di che coprirsi.
Ma lei si scuote e si distacca dalle mie mani. Torna a fissare quel fiume che forse ha intuito rappresenti la nostra futura separazione e non abbandona quell'espressione seria.
Le prendo allora una mano e lei me la stringe forte.
“Non preoccuparti, piccola selvaggia”, le dico con affetto, “una soluzione la troveremo.”
Ritorniamo alla nostra tana. La giovane è molto stanca, ma abbiamo fatto bene a riprendere un po' di movimento, perchè la sua muscolatura non si indebolisca troppo.
Vado a caccia di frutta e quando ritorno ci sdraiamo ancora al sole, mano nella mano. Io la guardo, ma lei segue lo scorrere delle nuvole e pensa ad altro. Non ha più voglia di sesso e rimane silenziosa e pensosa.
Nessun altro le viene a fare visita e mi chiedo se quel giovane sia venuto solo per una volta o le faccia visita periodicamente. Probabilmente lo fa di nascosto dagli occhi della sua stessa gente e può anche darsi che corra dei rischi e che non sempre possa avvicinarsi.
La giornata passa così e dopo aver seguito il lento tramonto, ritorniamo meste alla nostra dimora.
Nella notte Ashtà si sveglia piangente; io l'abbraccio e lei si abbandona sul mio corpo.
Chissà cosa rappresento io per lei?
Mi vede come una divinità? Un essere superiore che è venuto da lontano per curarle la gamba e insegnarle le gioie dell'amore tra donne e del sesso saffico? O mi ha identificato come una straniera, una rappresentante di quelle popolazioni occidentali che distruggono ogni anni migliaia di metri quadrati del suo paradiso e che minacciano le tribù autoctone? Riuscirà a reinserirsi nella sua tribù?
Ashtà inizia a toccarmi, a leccarmi, a baciarmi. Si impossessa con rabbia del mio corpo, mi morde i seni e la vulva, mi ama con furore e con violenza, mi fa sua più e più volte, e mi impedisce di fare altrettanto. Accetta solo che io l'abbracci e che la baci sulle labbra quando lei bacia me e in fine si abbandona nel mio abbraccio, piangendo come una bambina, e così si addormenta, per tutta la notte.

La mattina successiva una luce più tenue del solito filtra dall'esterno, insieme a un odore forte e piacevole di terra bagnata. All'esterno una fitta pioggia ricopre la foresta che sfuma in un orizzonte più prossimo, avvolta in nuvole basse e spesse nebbie.
Scendo al torrente secondo un rito consolidato, lasciandomi bagnare dalla pioggia tiepida.
Il mio corpo bagnato, nudo sotto la pioggia, è sensuale e vitale.
Al torrente mi immergo nell'acqua fresca e mi godo un bagno tonificante. Mi sto abituando a questo posto, a questo ambiente che non sento più ostile, ma amico e paterno. Mio sento figlia della natura, ricondotta al mio stato originario di essere vivente, immerso in un ecosistema e in equilibrio con le altre specie animali e vegetali. Non mi lavo col sapone da chissà quanto tempo, ma il mio corpo è tonico e senza odori cattivi. Sicuramente l'alimentazione più naturale e lo stile di vita essenziale hanno modificato anche il mio assetto ormonale e mi sento integrata nell'ambiente. Merito soprattutto della mia compagna e amante, colei che sto aiutando a guarire e che mi sta insegnando a vivere in questa natura primitiva, sentendomi a mio agio e finalmente nel posto giusto per me.
Non ho grandi rimpianti della mia vita in Italia. Non ho tutta questa fretta di ritornare ai ritmi convulsi e innaturali della grande città, nello stress delle tasse e dei pagamenti, del lavoro e della frenesia moderna.
Mi lavo i capelli ed emergo dai flutti come una Venere nascente.
Guardo il mio seno e il mio ventre, i peli del pube e le mie cosce e non mi imbarazzo del fatto di essere nuda. Cosa c'è poi di strano? Sono una donna, nella natura libera, e vivo secondo i ritmi della foresta. Mi faccio una treccia con i capelli bagnati e raccolgo fiori profumati con cui adornarmi la capigliatura. Lo stesso voglio fare con la mia donna, che mi aspetta lassù, per fare colazione insieme.
'Cappuccio e brioche?' Mi torna alla mente questa frase, come emersa da ricordi ancestrali; sorrido e scaccio questo strano pensiero. Raccolgo frutta e fiori, faccio scorta di acqua e risalgo alla nostra tana.
L'amazzone è lì, sul bordo della grotta, sotto l'acqua, ma non sembra preoccuparsene neanche.
Le pulisco e le medico le ferite. La più piccola si è già rimarginata e le altre due si sono molto ridotte.
Lavo la mia paziente e insieme facciamo colazione a base di frutti profumati e polposi. Poi tiro fuori i fiori che ho raccolto e li mostro ad Ashtà. Lei li guarda e riconosce le stesse corolle con cui mi sono guarnita i capelli. Guarda la mia treccia e mi chiede qualcosa nella sua lingua.
Ormai abbiamo rinunciato a capire i nostri idiomi anche se non abbiamo smesso di parlare quando ne sentiamo il bisogno. È bellissimo quello che sta succedendo tra di noi. Cominciamo a capirci con il cuore, se anche non abbiamo la possibilità di intenderci con la mente.
Lei mi tocca i capelli incuriosita, io le sorrido e le parlo.
“Sì, amore. Si chiama treccia. Ora la faccio anche a te.”
Con meraviglia Ashtà segue le mie mani che, con pochi abili gesti, costruiscono una bella treccia del colore delle ali dei corvi con questa chioma selvaggia e indomita. Resta affascinata dalla facilità con cui ho intessuto la sua capigliatura in cui ho anche infilato gli steli dei fiori per addolcirla e renderla più luminosa e più bella. Lei si guarda e non osa credere che sia vero ciò che vede. Continua a tastarsi la treccia e a rigirarla nelle sue mani e mi guarda commossa e riconoscente.
Poi mi abbraccia e sembra quasi che pianga. Mi fa sdraiare sotto di lei e facciamo l'amore, lì, sotto la pioggia, nude e selvagge, mentre tutta la natura ci sta a guardare.
Questa volta la mia amante è dolce e paziente, mi bacia e mi accarezza e si lascia sedurre dalle mie attenzioni. Poi riprende l'iniziativa e con una lentezza lunga come un'infinita poesia, ricca di dettagli e sfumature, ritornelli e variazioni sul tema, mi conduce a un orgasmo prolungato e intenso, che lei accompagna col suo, ottenuto toccandosi con le proprie mani e sincronizzato per godere nello stesso istante.
Rimaniamo abbracciate nella pioggia, baciandoci e amandoci, e sembra che i nostri orgasmi non finiscano più, che non ci sia più soluzione di continuità tra preliminari, stimolazioni intense e fasi di massima eccitazione.
Rimaniamo poi in piedi nel sole che ha riconquistato il suo dominio, nel pomeriggio caldo e dorato.
Mano nella mano a fissare l'orizzonte, nude, una di fianco all'altra, le nostre trecce imperlate di fiori che ricadono sulle nostre spalle.

Tre giorni dopo la levofloxacina è terminata. Il secondo antibiotico è di composizione diversa e non sarebbe molto indicato per l'infezione alla gamba della mia compagna, ma d'altra parte la guarigione è ormai prossima.
Prima di capire che questa è l'ultima compressa di medicina, Ashtà ha già afferrato il concetto di essere ormai quasi guarita. Le ferite sono chiuse e già da ieri la ragazza ha ripreso le sue forze e le sue capacità motorie, concedendosi anche una battuta di caccia da cui è tornata vittoriosa con un piccolo mammifero che non riesco a identificare.
Con una certa impressione mi metto a mangiare la carne cruda e ancora calda del nostro pranzo.
Ho motivo di credere che anche le tribù incontattate, quelle che mai hanno conosciuto l'uomo occidentale, sappiano usare il fuoco; ne è prova il pezzo di carne arrostito che ci è stato donato qualche giorno fa. Ma noi ne siamo sprovviste e dovremo fare senza.
La mia compagna parla poco. Pronuncia solo brevi frasi, in tono secco e capisco che mi sta spiegando le ultime cose prima di metterci in viaggio. Non abbiamo bagaglio, ma quel poco che abbiamo lo dividiamo. Lei mi regala quello che rimane del suo gonnellino di paglia, che si era tolto il giorno in cui ci siamo conosciute e che ora ha riesumato dal suo esiguo guardaroba. Sappiamo che non posso presentarmi così, completamente nuda, nel villaggio in cui sto per ritornare.
Con il coltello nella mia mano e con lancia ed arco nelle sue, lasciamo il nostro Eden, il nido in cui ci siamo conosciute, amate e innamorate e facciamo ritorno alla realtà.
Ashtà è un'indigena amazzone, guarita, che cercherà di rientrare nella sua tribù, ed io sono una dottoressa nippo-italiana di una spedizione umanitaria, forse unica sopravvissuta, dispersa da una decina di giorni nella giungla amazzonica. Tutto il resto è sogno che aleggia in una dimensione che fatico a identificare come irreale.
Non è difficile per un'abitante del posto muoversi nella foresta e quello che per me sarebbe potuto essere un viaggio impossibile o lungo una settimana, per Ashtà risulta solo un breve percorso e troppo rapidamente arriviamo alle rive del Paranà do Urarià. Oltre questo tratto di fiume potrò trovare la strada per Nova Olinda do Norte: la città.
Guardo il fiume che lento scorre da milioni di anni, pigro e indolente e chiedo alla mia compagna e ora mia guida se posso avventurarmi ad attraversarlo a nuoto.
Lei si tuffa per prima, rispondendo così alle mie perplessità, e io la seguo mentre la corrente ci trascina stancamente, fino a depositarci sull'altra riva.
In silenzio percorriamo un tratto di giungla finché in lontananza scorgo uno spiazzo in cui dovrebbe trovarsi la strada per la civiltà.
Il cuore mi batte forte. Mi giro e vedo Ashtà che si è fermata più indietro, come se a lei fosse precluso il superamento di un confine invisibile.
Molto tempo ho trascorso a pensare se potessi portare questa ragazza con me, ma ho concluso che farei solo il suo male, per il mio unico tornaconto. Siamo di due genti diverse, due civiltà incommensurabilmente lontane. I nostri popoli si sono separati centinaia di migliaia di anni fa, e ora non possiamo più ricongiungerci. È giusto che lei rimanga qui, in questo paradiso incontaminato.
Le corro incontro e ci abbracciamo, ci stringiamo, piangiamo rumorosamente, restando a guardare i nostri volti rigati di lacrime. Restiamo così un tempo infinito, una nelle braccia dell'altra a singhiozzare, a ridere, a ricordare, a pensare, a desiderarci e a soffrire per questa assurda separazione. E io mi chiedo se sia più innaturale separarci oppure violentare le abitudini di una delle due per consentirci di vivere per sempre insieme. Solo quando il sole comincia a far calare la sua luce capiamo che dobbiamo separarci. La strada per il centro abitato è ancora lunga e, da sola, senza più la mia giuda, torno a essere un'imbranata occidentale che rischia la vita a ogni metro.
Mi allontano da Ashtà senza più girarmi e sento il suo sguardo su di me. Non oso voltarmi perchè non saprei più tornare indietro e il mio cuore si dilanierebbe. Quando arrivo alla strada il più è fatto. Mi volto, ma nella penombra non scorgo più alcun essere umano.
È notte fonda quando arrivo a Nova Olinda do Norte. Mi copro i seni con le mani e chiedo di condurmi al posto di polizia dove mi faccio riconoscere.
Racconto la mia storia nello stupore generale. Nessuno di quella spedizione pare sia sopravvissuto e il fatto di avermi ritrovata viva ha del miracoloso.
Riesco a chiamare in Italia i miei parenti e il mio fidanzato. Lui stesso cercherà un volo per raggiungermi e venirmi a prendere.
Mi sono donati dei vestiti e vengo portata a un ristorante.
Il chiasso e la frenesia intorno a me sono ai massimi livelli, ma io resto silenziosa e in disparte. Non riesco a mangiare nulla se non della frutta e poca insalata e quando mi ritrovo in un letto di una stanza del posto di polizia non riesco a prendere sonno.
Mi alzo dal comodo materasso e scosto le lenzuola.
Mi sdraio per terra e solo allora riesco ad addormentarmi.
La mattina dopo viene passata a svolgere pratiche amministrative e organizzare il mio rientro in un grosso centro in cui trovare un aereo per la capitale dove dovrò espletare alcune formalità burocratiche e di rappresentanza. Colloquio con qualche ministro, un paio di apparizioni alla televisione locale, sistemare i documenti e l'assicurazione e poche altre cose.
Resto in disparte alla periferia della cittadina ad annusare l'aria e ascoltare il canto di alcuni uccelli, ma il mio cuore è turbato. Quanto ci metterò a riabituarmi alla mia solita vita? Potrò dimenticare l'amazzone?
Ancora sono inappetente. Le feste e i pranzi intorno a me mi lasciano indifferente e non riesco più a mangiare il cibo locale. Neanche fossi rimasta distante da queste usanze per dieci anni!
Segue una notte insonne.
La mattina successiva il commissario della polizia trova la mia stanza vuota. Due lettere stanno sul mio letto, intonso. Una è per il mio fidanzato.

Affannata corro per le ultime centinaia di metri in fondo alla strada finchè non ritrovo il fiume.
Vorrei spogliarmi dei vestiti, ma non so che fine farò una volta raggiunta l'altra sponda e quindi mi fisso il coltello nella cintura e mi tuffo iniziando a nuotare. I calzoni corti non mi impediscono nei movimenti e la mia camicetta è larga.
Emergo dai flutti e mi ritrovo di nuovo nella giungla amazzonica. Solo questo affluente del grande Rio delle Amazzoni sembra far da confine tra l'occidente e la foresta vergine. Risalgo un poco in direzione opposta alla corrente, ma non vedo traccia di essere umano. Riconosco il posto in cui, solo due giorni fa, io e Ashtà ci siamo immerse nei flutti, ma di lei non vi è più nessuna traccia.
Tornata alla sua tribù? Uccisa da nemici? Fuggita per una vita solitaria finchè ne avrà la forza?
Mi inginocchio a piangere, eppure sono sicura che proseguendo nella giungla qualcuno prima o poi mi troverà. Ma non so chi e con quali intenzioni potranno trattarmi. Mi è andata bene già una volta e solo per una coincidenza di casi fortuiti, ma forse ormai il mio destino è segnato e non posso più sfuggirvi, sebbene il sogno abbia sconvolto solo per un istante, l'ineffabile decorso degli eventi.
Mi faccio forza e mi rialzo. Sono Yuko, non una qualunque.
Guardo per l'ultima volta la fitta foresta che si rinchiude su sè stessa con i suoi misteri e i suoi sogni, ma sento un forte sibilo che si avvicina. Mi butto a terra e una lancia si impianta a un paio di metri da dove mi trovavo un secondo fa.
Mi rialzo e scappo verso il bosco. Penserò poi come riguadagnare il fiume, ma alle mie spalle sento un urlo: “Yuuukkooo!”
Mi giro di scatto e la vedo che mi corre incontro.
Urla, salta, piange e si butta per terra. Si rialza e riparte di impeto incontro alla mia corsa.
Ci scontriamo con un suono sordo e cadiamo al suolo.
Urliamo e ci rotoliamo e non smettiamo di parlarci e di piangere, di baciarci e di abbracciarci, per poi rimanere in silenzio, una sopra l'altra a guardarci, scosse nei nostri respiri affannati.
Siamo state separate solo due giorni eppure abbiamo migliaia di parole da dirci, sentimenti, lacrime e dolori, amori, ricordi e progetti per il futuro, e non smettiamo di ridere e di piangere, di guardarci e di baciarci.

Tre giorni dopo vengo presentata al capo della tribù Ashàninka. Ashtà è stata riaccolta tra la sua gente e ora, insieme al ragazzo che ci aveva portato il pezzo di carne arrostita, parlano in mio favore al consiglio degli anziani.
Dopo un lungo dibattimento vengo accettata nella tribù. I miei due avvocati sono riusciti a convincere il capo e il consiglio dei saggi che sono una creatura venuta dagli dei e giunta attraverso le nubi con un grande uccello di metallo. Sono capace di guarire le malattie. L'assenza, ormai da qualche anno, dello sciamano locale, fa sì che io possa prendere il suo posto, nella capanna ai bordi del villaggio, rimasta vuota da allora.
Ashtà vivrà con me e sarà la mia aiutante.

- FINE
di
scritto il
2022-12-28
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