L'avvocatessa, schiava del boss (parte 3)

di
genere
sadomaso

Quando il Padrone entrò non la guardò nemmeno e continuò a fare la sua telefonata, salutando, invece, Simone.
Solo, mentre le passò vicino, le diede una rapida carezza ai capelli.
Come si fa coi cani.
Seduto alla scrivania continuò a parlare e, dopo un po’ parve accorgersi di lei, quando la telefonata era diventata noiosa.
Aveva una ciotolina con dentro noccioline.
Mentre parlava ne lanciò una a terra.
Non c’era bisogno di dire nulla. Non era una cosa nuova ma un divertimento ormai noto.
A quattro zampe, quattro, come quegli spari che l’hanno legata a lui, raggiunse la nocciolina e si chinò a raccoglierla con la bocca.
Non fece nemmeno in tempo a fargli vedere che aveva finito che già altra nocciolina veniva lanciata in altra parte della grande stanza.
Raggiunse anche quella e la mangiò.
Simone la guardava eccitato.
Il Padrone, invece, aveva l’espressione di chi si diverte col suo cane.
Magda perse il conto di quelle che il Padrone lanciò altre finché non finì la telefonata.
Poi iniziò a lanciarle sempre più vicino a sé, per farla avvicinare come se fossero briciole di Pollicino in negativo, che la condannassero invece di salvarla. L’ultima a pochissimi centimetri dalla punta delle sue scarpe.
La schiava non fece in tempo a mangiarla. Il Padrone mise una scarpa sopra la nocciolina per romperla sul pavimento.
Lo eccitava quel gioco, lo eccitava vederla mentre leccava il parquet per pulirlo dai mille pezzi della nocciolina.
Mentre leccava si sentì cadere qualcosa tra i capelli.
Le prime volte aveva reagito male e si era presa tante, troppe frustate.
Adesso era abituata al fatto che le sputasse addosso.
Sapeva dove sarebbero caduti i prossimi sputi, cioè a terra.
Sapeva anche cosa avrebbe dovuto fare e, quindi, iniziò a leccare il pavimento mentre altri sputi la colpivano.
Si chiese quale limite avrebbe trovato la sua schiavitù, la sua degradazione.
Prima di quella nuova vita era sempre alla ricerca di quell’emozione che la soddisfacesse.
Si scopava ragazzi giovani e muscolosi che facevano quello che voleva lei. Qualcuno provava ad essere rude ma lei subito lo metteva al suo posto.
Adesso non cercava più nessuno. Non poteva. Il suo Padrone le aveva vietato di avere rapporti con altri. Non voleva, diceva, mettere il cazzo dove l’aveva infilato un pischello qualsiasi, soprattutto non voleva che qualcuno potesse usare la roba sua.
Ogni tanto avrebbe avuto voglia di una bella scopata con un giovane muscoloso, per ristabilire le cose, gli equilibri, il suo equilibrio. Essere ancora desiderata, corteggiata, poter essere lei a decidere con chi, dove e quando.
Il Padrone non giocava. Lui faceva sul serio, lui da dominava, la sottometteva, l’aveva domata e ridotta sua schiava.
Si sentiva degradata ad animale mentre leccava quello sputo dal pavimento perché era una cosa schifosa cui era costretta, pena la frusta, quella impietosa.
Subiva la frusta ed obbediva, perché non aveva una scelta, uno scampo, una possibilità.
Una volta pulito a terra, iniziò a leccare le sue scarpe.
Era un servizio che lui pretendeva, la pulizia delle sue scarpe era da tempo affidata alla lingua della sua schiava.
Le leccò in ogni parte, spingendosi anche dietro e sul lato mentre lui la guardava divertito.
Quella sera il suo Padrone aveva fretta.
“Fammi godere con la bocca”.
Ormai aveva capito come gli piaceva che glielo succhiasse. Le erano costate molte molte frustate i primi tempi, mai contento delle sue prestazioni delle quali gli altri amanti non si erano mai lamentati.
Lui invece era inflessibile, impietoso. Pensava solo al suo cazzo e a come voleva che lei glielo leccasse e, se non eseguiva al meglio, la picchiava con la cinghia.
Gli piaceva il gesto di togliersela e arrotolarla sulla mano.
Lei iniziava a temere da quando vedeva che se la slacciava. Sapeva che le avrebbe fatto male. A lui piaceva farle male, gliene faceva spesso, anche solo per divertirsi.
Temeva e attendeva i colpi. Tra un colpo e l’altro passava un tempo infinito nella sua brevità e dentro cominciava a tremare nell’attesa, finché non arriva il colpo che iniziava ad augurarsi per por fine a quella tortura interiore, che inizia nuovamente in attesa del prossimo colpo.
Quella sera non servì.
Quella sera fu brava.
Si sentiva gli occhi del Padrone addosso mentre lavorava sul suo cazzo.
Si era dimenticata della presenza di Simone, tutta concentrata sul suo lavoro.
Ai primi tempi la presenza di qualcuno in sala la distraeva e allora arrivavano le cinghiate, sempre più forti, che le ricordavano che era solo una schiava, una cagna, la sua.
Le godette in bocca, come era solito fare. La sua bocca era il suo posto preferito per godere. Lo faceva quasi sempre lì.
Anche quando la usava nel culo. All’ultimo lo tirava fuori, le prendeva i capelli per farla girare e le godeva in bocca.
Così imparò a pulirsi l’interno dell’ano quando veniva chiamata dal Padrone.
Ogni tanto le sputava anche in bocca e gli piaceva guardarla mentre deglutiva.
Quella sera aveva fretta.
Quella sera doveva andare.
Ma sarebbe anche tornato.
“Legala alla poltrona e andiamo”.
Mentre lui si metteva in tasca il cellulare e cercava alcuni documenti, Simone la prese per il guinzaglio e la condusse, a 4 zampe, ai piedi della poltrona che a lei era preclusa, in quanto cagna. Legò col lucchetto il guinzaglio alla gamba della poltrona e la fece accucciare a terra.
Non la toccò. Era vietato. Lei era merce solo del capo.
Il Padrone uscì dalla stanza senza salutarla.
Iniziò la sua attesa, accucciata come una cagna, a confronto con sé stessa.
Si addormentò.
Il suo Padrone sarebbe tornato. Quella notte non sarebbe andata a casa.


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krugher.1863@gmail.com
di
scritto il
2022-11-10
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