Sonia & Tommaso - Capitolo 14: La furia inattesa

di
genere
dominazione

Appena varcai la soglia della cascina, l'aria greve e satura di odore stantio di sesso e muffa mi avvolse, ancora una volta, con la sua promessa torbida. Non c'era tempo per i convenevoli. Salimmo subito nella camera della notte precedente, quella che ricordavo fin troppo bene, dove una trentina, tra uomini e ragazzi, che a turno, avevano abusato del mio corpo.
Sfilai il vestito, cercando invano un posto decente dove appoggiarlo. Lì, in quella stanza, tutto era sporco e sudicio: il pavimento, le pareti, persino l'aria. Era un luogo impregnato di umori, sudore e di chissà quali altre tracce. Sentivo l'odore della mia stessa perversione aleggiare pesante, ma non mi importava.
Non ci furono preamboli. Mario ed Enzo mi spinsero sul lurido materasso; le loro mani ruvide m'afferrarono e, senza un attimo di tregua, cominciarono a scoparmi e a incularmi ripetutamente. Il mio corpo rispose subito, e la mia fica, già dilatata e grondante, li accolse con avidità; il mio culo si offrì alle loro spinte potenti. Mi sentivo così sporca su quel materasso, il ricordo di tutti quei corpi che m'avevano posseduta ancora vivo sotto di me. La sensazione torbida, tuttavia, innescò una perversa eccitazione che mi faceva gemere, incitarli, chiedere di più.
I due uomini continuarono senza sosta, svuotandosi entrambi dentro di me. Percepivo il loro sperma caldo inondarmi, riempirmi fino all'orlo, e vẹnni innumerevoli volte. Ogni orgasmo era una scarica elettrica, un brivido che mi scuoteva fin nelle viscere, facendomi dimenticare ogni cosa, ogni limite.
Quando i loro corpi si staccarono dal mio, ansimanti, arrivò il momento della coca. Tirarono fuori la bustina. La sniffai, sentendo la polvere bianca bruciare le narici e poi scivolare giù per la gola. Me ne fecero prendere più di quanto volessi, insistendo, quasi forzandomi. Volevano che perdessi totalmente il controllo, che ogni freno si sciogliesse, che la mia mente si immergesse completamente in quella follia. Sentivo già il mondo attorno a me che cominciava a distorcersi, le sensazioni che si amplificavano, la libidine che m'invadeva completamente.
Anche loro ne avevano presa, e i loro occhi si accesero di una luce così intensa, così diabolica, che capii subito che la serata sarebbe stata tutt'altro che ordinaria. Pensai, ormai annebbiata dalla droga e dal desiderio, che avessero in mente di replicare la notte precedente, con quella sfilata interminabile di maschi. Ma forse mi ero sbagliata. Avevano qualcos'altro in mente, qualcosa di più intimo, di più... malvagio? E io, vogliosa, aspettavo, ogni nervo teso, ogni buchetto che pulsava.
Mario ed Enzo, i loro occhi famelici che brillavano nell'oscurità, si scambiarono uno sguardo complice. Sapevo che stavano per fare qualcosa di veramente perverso.
Enzo m'afferrò le gambe, divaricandole ancora di più, e Mario si posizionò tra di esse. Sentii la sua cappella sfiorare la mia fica, già inzuppata. Un gemito mi sfuggì mentre iniziava a spingere, facendomi urlare di scoparmi. Non era solo piacere, era anche un desiderio di qualcosa di molto perverso. Mario spingeva lentamente, torturandomi nell’attesa di essere riempita del suo grosso cazzo. D'un tratto, una luce accecante squarciò il buio della stanza. Era la luce della torcia di un cellulare, puntata direttamente su di noi. Un trambusto riempì l'aria, e sentii delle voci femminili, acute e sorprese. Erano voci giovani, di ragazze.
La voce, acuta e squillante, tagliò l'aria. "Ecco la troia!" urlò una ragazza.
Enzo reagì subito, la sua voce, solitamente così sorniona, ora piena di rabbia e stupore. "Ma cosa… Che ci fai qui? Che diavolo succede?"
La luce della torcia si muoveva, e intravidi le sagome. Non era una sola ragazza. Erano almeno cinque o sei, tutte giovanissime, i loro occhi che brillavano di un'ostilità tagliente. Enzo le conosceva. "Siamo qui per questa puttana!" ringhiò, e il suo tono mi gelò il sangue. "Siamo qui per punirla e per farla soffrire!"
Enzo provò a farle desistere, la sua voce era un misto di implorazione e minaccia. "Andate via! Non è affare vostro! Non sapete quello che fate!"
Ma la ragazza non si lasciò intimidire. Anzi, rincarò la dose con una fredda determinazione che mi fece sussultare: "Tu zitto, zio, se non la smetti subito di trattarci come fossimo bambine, giuro che racconto tutto. Ma proprio tutto."
Il respiro di Enzo si bloccò.
"Racconto a Nonno quello che fai in questa cascina. Ogni volta che porti qui una puttana come lei. Racconto a Mamma, tua sorella, il tipo di uomo che sei veramente e che fai uso di droga. Dici che ne sarebbero contenti? Credi che il Nonno, con il suo cuore malandato, sopporterebbe la vergogna? O pensi che in paese farebbero ancora la fila per farti curare gli animali, se sapessero che tipo di porcherie combini?"
La ragazza fece una pausa, e i suoi occhi taglienti mi fissarono. "E tu," sibilò, il suo volto contratto in una smorfia, "tu, la notte scorsa, ti sei fatta scopare e inculare dai nostri ragazzi, troia! E per questo devi pagare, cagna!"
Il silenzio calò, pesante e schiacciante. Il ricatto era forte, basato sul disonore in famiglia e la rovina della reputazione professionale e sociale. Enzo era pallido, la rabbia impotente dipinta sul suo volto.
"E tu, Mario," continuò la nipote, la sua voce penetrante, "non pensare di essere al sicuro. Tua moglie sa che vai a puttane? Sai che bello sarebbe, per lei e per i tuoi figli, scoprire le schifezze che fai? Lasciateci fare, o giuro che questa è l'ultima notte che passate a scopare in pace."
Mario guardò Enzo, e i due si scambiarono un'occhiata di sconfitta umiliante. Con un sospiro rassegnato, cedettero.
La nipote di Enzo, con la sua rabbia di adulta, mi venne davanti. Era giovanissima, ma i suoi occhi brillavano di una ferocia tagliente. M'afferrò per i capelli, tirandomi la testa all'indietro con una forza sorprendente, costringendomi ad alzare il viso verso di lei. "Andiamo, puttana," ringhiò. "Scendiamo. Ti faremo capire cosa succede quando tocchi ciò che è nostro."
Strattonata, fui costretta a scendere le scale, il mio corpo nudo che si dibatteva ad ogni gradino. Le altre ragazze mi spingevano, ridendo e insultandomi. Dietro di noi, sentivo i passi pesanti di Enzo e Mario. Erano lì, mi seguivano, ma erano impotenti. Non potevano fare nulla, ricattati e umiliati a loro volta. Provavo la sensazione di essere trascinata verso una perversione ancora più profonda, con i miei stessi aguzzini costretti a guardare. Era un tormento lancinante e, al contempo, la più strana delle eccitazioni.
Giunsi, trascinata, verso l'ingresso della stalla. L'odore forte del bestiame, del fieno e degli escrementi m'invase. L'aria era acre, ma ormai il mio corpo si era abituato al sentore della sporcizia.
Fui buttata sul mucchio di fieno, il mio corpo nudo che affondava in quel letto sporco e pungente.
La nipote di Enzo, con la sua rabbia fredda, si fece avanti. Mi sputò in faccia, e il liquido caldo e viscido mi scivolò sulla guancia, mescolandosi al sudore e alle mie lacrime. Fu un'umiliazione totale, pubblica, eppure, in qualche modo, m'eccitò ancora di più.
Le altre fecero un cerchio attorno a me. Una di loro, con dita agili e crudeli, iniziò a torturarmi i capezzoli. Li stringeva, li pizzicava, li tirava con forza, facendomi urlare. Ogni volta che la pelle del capezzolo era tirata e rilasciata, una scarica di dolore e un piacere inaspettato mi percorrevano il corpo. Era una tortura lenta, metodica. Il mio seno e il mio volto erano alla mercé di quelle giovani furie.
Proprio mentre urlavo per il dolore, la nipote, Maria, si chinò su di me. Estrasse un coltellino a serramanico, la lama che luccicava nella penombra. La guardai terrorizzata e lei, con un gesto rapido e crudele, m’incise la coscia, disegnando un piccolo graffio che sembrò un marchio. Non era profondo, fortunatamente solo un graffio, ma il dolore mi strappò un altro grido. "Questo è per ricordarti chi comanda, troia," sussurrò, il suo fiato caldo sul mio orecchio.
Poi se la presero con la mia fica, torturandola con schiaffi, calci e sputi. Una di loro s'abbassò i pantaloni e le mutande e, mettendomi il sedere davanti al viso, emise un forte peto. Il rumore e l'odore acre del gas m'avvolsero, dandomi la nausea; un gesto umiliante che le fece ridere e divertire. Sempre lei, con la sua mano crudele, m'afferrò la testa e mi spinse con forza verso il suo sedere. "Ora lecca, troia," sibilò. Dovetti leccare il suo ano, un'esperienza che feci per la prima volta, mentre le lacrime mi scorrevano sul viso. Ero a terra, in ginocchio e per la prima volta leccavo un'altra ragazza. Le sue compagne attorno ridevano e mi spingevano con la testa contro il culo dell’amica.
"Andatevene voi," urlò Maria allo zio e a Mario, "andatevene, non voglio che guardate". Detto questo, abbassò i sui leggins e mi porse da leccare il suo culo. Esitai, ma fui subito strattonata per i capelli. Anche questo, come quello dell’amica, non era certo immacolato. Ma leccai, sentendone il sapore sulla lingua. Incitate da Maria, anche le altre quattro ragazze si denudarono parzialmente e mi costrinsero a leccarle. Non provai nemmeno a ribellarmi, stretta tra quel branco di giovani furie. Mi schiaffeggiavano in viso e sui seni, prese da un sadico piacere. Ogni culo, ogni figa, un sapore diverso. I loro insulti, le loro percosse e ciò a cui mi costringevano a fare, stranamente però, m’eccitava. Non so dire se fosse ancora l’effetto della droga, ma sentivo un’eccitante attrazione da quelle perversioni. Persino quando una di loro mi pisciò in viso dicendomi "Apri la bocca, puttana. Voglio vedere se ti piace anche questo sapore!", non riuscii a sentirne vera repulsione. Sentivo solo le loro risa echeggiare intorno a me e una perversa eccitazione. Il suo getto mi colpì il viso, facendomi bruciare gli occhi, e lo sentii caldo e acido che colava lungo il mio collo, il mio seno, e percorrendo il pancino, fino alla mia figa vogliosa. Finito, mi costrinse a ripulirla e lo feci. Le leccai la fighetta, forse, anche più del necessario; tanto che disse ridendo "La troia ci ha preso gusto!". La scena si ripeté con altre due di loro. Percepivo il loro getto dal sapore salmastro e intenso inondarmi la bocca, il corpo, e bruciare sulla piccola incisione della coscia. Nella luce fioca della stalla, con gli occhi che bruciavano, non vedevo né Mario né Enzo, e mi chiedevo se m'avessero lasciata sola. Se da un lato ero eccitata da quelle perversioni, dall’altro ero preoccupata, non sapendo fino a che punto si sarebbero spinte. Avevo cercato di spiegare l’accaduto: che quella notte ero legata e bendata, completamente all’oscuro di chi ci fosse nella stanza, ma loro non m'avevano voluta sentire. Si stavano divertendo. Prese da quella pazza euforia da branco, ero diventata il loro giocattolo, la loro bambola di pezza, su cui sfogarsi.
Ma la loro furia non era sazia.
La nipote, con gli occhi iniettati di libidine e rabbia, interruppe le amiche. Indicò un oggetto in un angolo. Era un pezzo di legno, forse un pezzo di manico di badile o altro attrezzo, spesso e grezzo. "Così impari a farti inculare dai nostri ragazzi, puttana," sibilò, il suo volto contratto in un ghigno crudele.
Le ragazze, con la forza della loro rabbia giovanile, mi tennero ferma e mi misero carponi, aprendo con violenza le mie natiche. Vidi l'ombra del legno avvicinarsi, e capii che volevano andare oltre il limite della tortura. Urlai, cercando di liberarmi e fuggire, ma il mio fu un grido disperato che nessuno sembrava ascoltare, un suono che si perdeva nell'odore acre della stalla.
Sentii il legno, ruvido e duro, spinto contro il mio ano, con la brutalità e l'intento di fare male. Un dolore che mi fece urlare, un grido disperato che si strozzò in gola. Il manico di badile mi lacerava cercando di entrare. Non era tanto per le dimensioni, ma per la consistenza e la ruvidità di quel corpo legnoso e asciutto.
Le urla di dolore m’uscivano a fiotti. Sentivo la carne che si apriva, la sensazione di un calore umido che non era piacere: forse sangue. Le risate delle ragazze si mescolavano al mio pianto, e io ero lì, completamente alla loro mercé, un relitto della loro vendetta, una bambola rotta dalla loro furia.
Ma proprio quando il dolore stava diventando insostenibile, quando sentivo che il mio corpo avrebbe ceduto, una voce squarciò l'aria.
"Basta! Basta così, vi ho detto!"
Era Enzo. Il suo volto era sconvolto, i suoi occhi pieni di orrore genuino. Era intervenuto. Con una forza che non gli avevo mai visto, spintonò via le ragazze, afferrando il manico di badile e buttandolo lontano.
Il manico cadde a terra con un tonfo sordo, lasciando dietro di sé un dolore lancinante, pulsante che mi scuoteva fino alle viscere.
Le ragazze, colte di sorpresa e spaventate dall'intervento violento, iniziarono ad allontanarsi, raccogliendo i loro vestiti e cercando di coprirsi in fretta. Maria si girò un'ultima volta, i suoi occhi ancora carichi di rabbia.
"Non farti più vedere in giro da queste parti, puttana!" gridò, la sua voce acuta che echeggiava. "Se ti rivediamo, finisce male. Molto male. Non ti azzardare più a fare la troia con i nostri ragazzi!"
Poi si dissolsero nell'oscurità.
Enzo mi coprì con un telo di sacco, i suoi gesti ora rapidi e nervosi. Lui e Mario m'aiutarono a rialzarmi, le loro mani che mi sostenevano con una premura inaspettata. Cominciarono a pulirmi con l'acqua fredda che mi faceva sussultare sulla pelle ferita. Mi tolsero il peggio dello sporco, dell'urina, passandomi gli stracci sul corpo con una delicatezza sorprendente. Enzo, il veterinario, con uno sguardo professionale, controllò il mio ano, che bruciava ancora in modo atroce. Poi esaminò l'incisione sulla coscia, il piccolo graffio che Maria m'aveva lasciato come un marchio.
"Andrà tutto bene, Sonia," mi disse, la sua voce insolitamente dolce. "Ti farà solo un po' male per qualche giorno, ma non ci saranno danni permanenti. Anche le incisioni con il coltellino spariranno tra pochi giorni, non ti preoccupare." Le sue parole furono un balsamo per la mia anima martoriata, un sollievo inaspettato dopo l'orrore che avevo vissuto.
Ero distrutta. Non mi reggevo in piedi, le gambe tremavano, il mio corpo era un fascio di dolore. Loro, con una premura che mi lasciò sbalordita, m'aiutarono a rivestirmi. Il vestito di seta nera era sporco e stropicciato, ma almeno mi copriva. Poi mi sostennero e mi fecero salire in macchina, dove Tommaso dormiva tranquillo, completamente ignaro di ciò che avevo appena subito.
scritto il
2025-12-08
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