Lo stalker fine

di
genere
sentimentali

I giorni si erano arenati.
Quando gli era sfuggita di rabbia l’intenzione di andare nella villa per spaccare le ossa al suo benefattore lei aveva dato di matto. “Ho quasi finito di pagare, non rovinare tutto”.
“Dio, quel bastardo ha quasi l’età per essere tuo padre!” E non si capiva a chi fosse rivolta l’accusa.
Adesso era presa dalla frenesia, dall'ossessione per il transfert economico del sesso. Sembrava che nulla potesse appagarla a sufficienza, come se i buchi di bilancio dovessero essere forzatamente e in modo punitivo riempiti in un'altra forma di proiezione inconscia. Più era in bilico, più faceva affidamento sul proprio valore nel mercato della prostituzione, più abbracciava l'abisso.
Gli alert dal cellulare da «lavoro» subirono un incremento. Con sua sofferenza sembrava che Barbara avesse deciso di essere più partecipe nei confronti dei clienti. Aveva scoperto che molti di loro erano habitué, desideravano frequentarla ed approfittare della situazione. Erano persone per bene, in un modo o nell'altro disadattati alla vita e incapaci di relazionarsi con l’esuberante appariscenza del femminino contemporaneo. In lei avevano trovato risposte che restavano mute altrove. E lei era disponibile ad offrire quel genere di risposte. Barbara aveva scrupolosamente selezionato il numero di uomini a cui consentiva l'accesso per procurarsi l'estasi di cui avevano bisogno e che solo dentro di lei riuscivano a trovare. Perché lei era come l'amata che non avevano trovato o che avevano perduto. Questi uomini smarriti formavano un harem. Il contesto era terribile, e insopportabile per chi l'amava. Perché nonostante le premesse, era lei la vera vittima di tutto questo, lei la vittima che veniva abusata. I vasi si riempivano di fiori, le dichiarazioni di amore si moltiplicavano. Ma dietro tutte queste profferte non poteva fare a meno di scorgere cinismo.
Solo una volta con un cliente mai visto prima e che l’istinto le aveva consigliato di allontanare si verificò la circostanza tanto temuta per cui suo marito rimaneva in agguato: piombò sull’aggressore e gli aprì la fronte contro uno spigolo di calcestruzzo, tirando pugni a casaccio. Alla fine c'era sangue ovunque, ma neppure una goccia era sua.
Mentre gli medicava le nocche e ripuliva in giro lo sguardo fu attirato dal mucchietto di banconote che lo squilibrato aveva abbandonato lì prima di darsela a gambe. Più di cinquecento euro. Lei li fece sparire e aveva una luce strana negli occhi.
Aveva concentrato contro quel miserabile tutta la frustrazione patita a causa di quei gentili e sdolcinati bastardi che succhiavano avidamente dalla debolezza di una donna come mosche sul sangue di una ferita. E quanto restava di loro sembrava destinato ad essere sacrificato nel gorgo di nuovi silenzi e incomprensioni.
Durante le sempre più rare occasioni di stare insieme – che coincideva con il «prima» e il «dopo» – lei appariva sempre più cupa, triste e depressa. Quando aveva provato ad ottenere informazioni sul padre aveva eluso la domanda con un “bene” che non voleva dire niente. Dietro quel punto interrogativo si nascondeva la legittima curiosità di sapere come si sentisse veramente. Aveva l’impressione che stesse iniziando a scendere una china pericolosa.
Non osava avvicinarsi a lei per non creare alcun genere di turbamento. Lo vedeva che nei momenti in cui tale distacco veniva messo in discussione si ritraeva. E non avevano più fatto l'amore. La sola idea sembrava suscitare un viluppo elettrico di emozioni negative. Spesso sedeva davanti alla finestra, guardando fuori. Nascondeva il viso tra le mani. Con la clientela mostrava una maschera di perfezione formale: era sempre la donna di mondo che mette in soggezione. Ma non appena la porta si chiudeva tutto cambiava. Stava invecchiando prima del tempo.
Poi un giorno all'improvviso – dopo l’ennesimo weekend in cui sacro e profano, amore e violenza si confondevano – non ricevette ulteriori messaggi. L’ultima volta alla finestra dove sembrava umiliarsi l’aveva udita mormorare “Dio ti prego, fa che tutto questo finisca” aggiungendo dopo una pausa tenebrosa: “in un modo o nell’altro”.

Parole che lo avevano sconvolto.
L'esortazione ad assumere blandi antidepressivi era stata respinta con sdegno. “Non mi voglio suicidare, se è questo che temi”, lo aveva aggredito. “Inizia a farmi schifo tutto questo, nient'altro”. Aggiungendo in modo terribile: “Inizio a farmi schifo”.
Una vicenda di cronaca nera a cui non avrebbe prestato attenzione gettò un’ombra sui giorni successivi. Una escort era stata uccisa. Indugiando sulla notizia aveva appreso i particolari. Il volto della vittima attestava l'origine straniera. Ma l'immaginazione su quel ritratto sovrapponeva i lineamenti di Barbara. Nel teatro delle sue paure era lei la vittima – era lei ad essere uccisa dalla furia cieca dell'assassino – il suo corpo ad essere accoltellato con accanimento.
Tutti i giorni passavano come un incubo da cui si risvegliava con la bocca impastata in un urlo. Non aveva notizie e si sentiva incapace di reagire. Digitava un principio di frase, la lasciava in sospeso, cancellava. La tentazione di accorrere da lei era così forte che doveva imporsi di non farlo perché sapeva che non avrebbe accettato. Le sue paure erano quasi certamente eccessive, ma restare all'oscuro era altrettanto orribile che conoscere una verità spaventosa. Non avrebbe mai potuto perdonarsi alcuna leggerezza.
Così si sentì come se una mano invisibile lo stringesse alla gola il giorno in cui scoprì che il numero segreto era diventato irreperibile. Inesistente.
Aveva trovato il coraggio e le aveva scritto «posso venire?» ma la spunta di ricezione era rimasta in sospeso. Aveva davvero il terrore addosso ora. Ripeté la richiesta attraverso il vecchio numero: era attivo. Tirò un sospiro di sollievo, ma domande di ogni tipo gli affollavano la testa.
Dopo un tempo che sembrò infinito rispose «sto bene, chiamo dopo» ma sembrava non l’avesse scritto lei. Guardò la finestra vuota del televisore spento. Ritrovato nel proprio appartamento il cadavere di una presunta prostituta, uccisa con arma bianca dopo una breve colluttazione...
Accorse sotto casa. Trovare qualcuno che l’avesse vista negli ultimi giorni. L’anziana che riuscì a smuovere dall’apatia sembrò illuminarsi a sentir chiedere della vicina. “Che cara ragazza! C'è sempre quando ho bisogno. No, è già da qualche giorno che non viene a salutarmi”. Parole innocue, terribili. Appoggiò a lungo l’orecchio alla porta in attesa di un suono. Si ritrasse. Temeva invece potesse giungergli al naso l'odore dolciastro del sangue, della morte, della putrefazione. Era fuori di sé.
In ufficio seppe che era assente da alcuni giorni e chiedevano lumi. Telefonò al 112: intese subito la noncuranza con cui avrebbero trattato la questione. Salì in macchina e raggiunse l’ospedale. Davanti a suo suocero restò senza parole.
Sembrava godere di buona salute: florido, roseo in viso, attraversato da una corrente interna. Sapeva che poco prima di morire i malati danno quasi la sensazione di essere miracolosamente guariti. E mentre lo ascoltava come dall’altra parte di un muro, gli sovvenne di certe allusioni lasciate cadere a riguardo da Barbara che, reticente e riservata come sempre nelle cose che la facevano soffrire, non era riuscita a ripetere. Anche perché l’uomo che avrebbe dovuto coglierle si era dimostrato incapace di farlo.
Era allora che la crisi era deflagrata, il rapporto incrinato: nel momento in cui una delle due parti di un'unità vitale aveva smesso di ascoltare l’altra e di capirla.
«Papà non sta bene». Un'affermazione forse troppo innocua, a cui lui aveva ribadito come da un altro mondo: ha la sua età, vedrai che andrà tutto a posto. Ci sono sempre momenti nella vita di una coppia in cui si verifica un cortocircuito, e dopo le cose iniziano a non andare più. Bastano poche parole fuori posto. Non: che cos'ha, ma: andrà tutto bene, come con un raffreddore. Non come se stesse parlando della persona che lei venerava sopra ogni altra, ma di qualcuno lontano. E non c'erano mai fiori in casa, mai parole d'amore. Tutto veniva dato per scontato. Si sentiva ipnotizzato dall'idea di scoprire, scavando dentro di sé, un essere ripugnante.
Aveva a stento trattenuto le lacrime mentre gli parlava. “Non fatemi stare in pensiero” mormorava. “Dì a quella stupida di farsi sentire. Lo sai che tra qualche giorno mi dimettono?”. E sorrideva, convinto di aver preso la vita per la coda e averla costretta a girarsi. E invece ad attenderlo fuori di lì gli ultimi passi, accompagnato dallo straordinario personale di qualche centro per le terapie del dolore a prendere consapevolezza della fine.
Si rifugiò fuori in corsia. «Dove cazzo sei» imprecava, pensando a Barbara in fuga per evitare ciò che non poteva più essere evitato. Non era da lei. Glielo scrisse. Nessuna risposta.

Seppe che l’uomo non era stato dimesso perché in fin di vita, quanto per l’esito positivo degli interventi e delle cure. Dall'ufficio il responsabile lo ringraziava, ignaro che lui non aveva fatto nulla, per il sollecito rientro della moglie. In tutto questo, lei non lo cercò. Si prodigò dietro la degenza del padre, ma non ritenne mai opportuno giungere ad un chiarimento, neppure tenendo fede al messaggio in cui gli prometteva di richiamarlo. Lo aveva escluso dalla propria vita. E il tempo passato era ormai troppo.
Solo una volta si presentò sotto quelle finestre del sesto piano di una via che non avrebbe mai voluto conoscere. Pioveva. Scostò l'ombrello. La luce della camera da letto era accesa, soffusa dal paralume.
Poi un altro giorno di pioggia udì raspare alla porta. Suonò il campanello. Non attendeva nessuno. Aprì con emozione.
Era lei. Grondava. Si trascinava dietro due grosse valigie e lo sbirciava con occhi lucenti, verdi come gemme. “È finita” mormorò. “Adesso è per davvero finita”.
Deglutì. “Tuo papà?”.
Vide il suo petto sollevarsi in un profondo respiro. “Gli interventi sono riusciti. Dovrà sottoporsi per tutto il resto della sua vita a visite di controllo, sottoporsi alle terapie, eccetera, ma è vivo, è vivo”. La voce si era incrinata. Anche Paolo sentì la potenza salvifica di quelle parole.
Annuì e le sorrise. Lei non ricambiava. Si fece anzi più scontrosa in viso. “Posso entrare o devo andare in albergo?”
Le prese le valigie e l’aiutò a liberarsi. Intorno ai piedi scalzi si stava formando una pozza. La camicetta bianca era un semplice capo di vestiario buono per tutti i giorni, di quelli che usi in ufficio. La attirò a sé. La frugò negli occhi. L’altra era sparita dal suo sguardo. Era di nuovo lei, lei com’era sempre stata, come l’aveva conosciuta. Era lei come voleva che tornasse ad essere. “E tu?”
Un lampo di nervosismo le attraversò gli occhi. Scosse le spalle, ma rifiutò di rispondere. “Una doccia”. Gli prese il volto tra le mani tremanti, lo baciò in bocca. Paolo si sentì svenire. “Prima di tutto una doccia, ti prego”.
Si spogliò nuda, si avviò trionfale verso quel bagno che era stato il suo regno, ancheggiando con grazia e sensualità. Prima di entrarci si voltò a guardarlo. Il sorriso era un accenno, il capo appena inclinato, lo sguardo magnetico una promessa. «Prendimi», gli diceva il linguaggio del corpo. «Sono solo tua, adesso». “Mi lavi la schiena?”.
La seguì sotto la doccia.
Quella sera stessa, dopo cena, avevano già litigato. Ma gli angeli erano contenti.
scritto il
2025-12-07
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