Lo stalker parte 4
di
Ripe (with decay)
genere
sentimentali
“Ma allora non hai capito niente!”
Non ci credeva. Era di nuovo lì, un sentore di alcol sulla bocca. Quando farfugliò qualcosa di incomprensibile il miasma si fece più forte. Non aveva mai avuto il coraggio delle grandi occasioni. Simulava uno sguardo determinato che in realtà era l'imitazione di ciò di cui avrebbe avuto bisogno.
Le aveva fatto la posta. Per giorni si era impuntato ad incastrarla in un frangente compromettente. Bazzicando nei pressi del portone aspettava. Osservava tutti, tutti osservavano lui. La testa dei condomini, ormai assuefatti alla sua presenza, si affollava di interrogativi. Affatto propensi al saluto poco mancò che lo mandassero in quel posto.
Ciò non lo aveva reso più cauto. Arrivava dopo il lavoro. Spesso quel fantomatico unico cliente della giornata si era già dileguato. A volte lo seguì mentre si allontanava, e si chiedeva da dove fosse entrato. Lo riconosceva per l’aspetto furtivo, l’incognita nel volto, l’espressione sibillina. Poteva essere il suo nuovo boyfriend, quello dei weekend, che ogni tanto cenava da lei. Avrebbe ammazzato anche questo.
L'estraneo che entrò nel palazzo dopo aver chiamato con un laconico “sono io” non ebbe rimostranze da fare quando lo seguì. Immaginò fosse un inquilino. Uno prese l’ascensore, l’altro salì le rampe. Lo scorse mentre scendeva dal settimo. Lo stomaco gli si rivoltò. Dopo mezz’ora si fermò davanti a quella porta. Avrebbe potuto aspettare mezz'ora come un’ora, era tutta una questione di banconote. Udì in sordina armeggiare, dei passi leggeri, uno scambio di battute uomo donna. La sua voce. Un commiato? Avveniva al 27.
Per giorni si era appostato, per giorni aveva bevuto fino a stordirsi. Ci stava facendo l'abitudine. Non era così male ubriacarsi come se non ci fosse domani. Fulminò il cliente a cui sbarrava la strada con un ringhio, poi si concentrò sulla donna. “Hai bisogno di soldi” si interessò. L'altro rimase un po' interdetto. Tirò fuori di tasca sei biglietti da cinquanta. Rincuorato, il cliente si defilò alla chetichella. Di nuovo resistette alla tentazione di rincorrerlo per azzuffarsi.
“Che cosa hai intenzione di fare”.
Sorrise con vago sadismo. “Non è abbastanza chiaro? Avvalermi delle tue prestazioni professionali”.
“Sei un bastardo”.
“Non sai quanto”.
“Vattene”.
“Non me ne vado”. Le infilò il piccolo rotolo sopra l'orecchio. “Cosa devo fare?”
“Non abbiamo concordato nessun appuntamento”.
“Ormai sono qui. Approfittane. Cosa devo fare?”
“Un cliente al giorno, se ho deciso di avere un cliente quel giorno”.
“Oggi ne avrai due. Non puoi dire di no al tuo ex. O preferisci un po' di cagnara?”
“Sì, tu sei bravo a farla” acconsentì. “Hai bevuto. Chi si presenta così di solito lo caccio via”.
“Di solito?”
“Vai a lavarti e poi raggiungimi sul letto. Ti ricordi ancora come si fa un bidè?”
“Sei una stronza”.
“Oh non sai quanto”.
Fece quello che aveva chiesto poi si presentò in camera: lui nudo, lei col négligé. Era sdraiata, a gambe aperte, le braccia rigide lungo il corpo come se l’avesse tramortita con una bastonata. La sovrastò come un animale. Lei aveva un profumo di fiori e giorni passati. “Un po' di verve?”
Per tutta risposta, da quel corpo morto si levarono gemiti. “Troppo presto?”, si premurò di informarsi. Poi volse il capo verso la sveglia sul comodino. “Dovresti sbrigarti, ti rimane poco tempo”.
Ma prima ancora che distogliesse gli occhi dal display per tornare a guardarlo fu invasa dal suo desiderio. Era bagnata fradicia, lui lo aveva capito e non aveva chiesto permesso. Il viso contratto in una smorfia di sorpresa si sciolse nell’impertinenza del piacere. Alle tre di notte si staccarono l’uno dall’altra. Paolo non ricordava una notte di sesso così viva neppure ai primi appuntamenti. Tra un amplesso e l'altro avevano parlato, ma il segreto che li divideva, il mistero che rendeva peggiore la notte non riusciva a rompere la conchiglia, restava serrato come un tesoro.
“Vuoi che vada via?” sussurrò.
Si accoccolò contro di lui, passando il suo braccio dietro la testa. “No, aspetta la mattina”.
“Avviso che entro dopo”.
“Va bene. Facciamo colazione insieme”.
Si alzarono sul tardi. Mangiarono in silenzio, poi quando ancora stava sbocconcellando Barbara gli si sedette sopra e lo sfinì. Nascose il viso in mezzo ai seni e pianse. Profumava di rugiada sull’erba, di pane fresco e notti serene, come quelle che non aveva più conosciuto. Ma mentre si allontanava per farsi la doccia sfilando la vestaglia notò un segno dietro la spalla sinistra. La prese per una mano e l’attirò a sé. L’ecchimosi stava maturando. “Che cos’è?”
“Niente” rispose evitante.
“Niente è troppo poco. È stato lui?”
Pensava al ragazzo della sera prima. Barbara sciolse la tensione in una dolce risata. “Ma no, non farebbe del male a una mosca”, rispose. E distratta, soprappensiero, con un sorriso tenero ed ambiguo aggiunse: “È poco più di un ragazzo. Pensa che mi porta sempre dei fiori”.
Dei fiori? Osservò in giro quell'ambiente per lui così poco familiare, che forse tale sarebbe rimasto. Notò l’unico vaso dove una esuberante rosa rossa si ergeva in tutto lo splendore circondata da una corte di piccole orchidee bianche. Sembrava un’isola di beatitudine lambita dalle onde d'oblio di qualche sconosciuto fiume Lete.
Lo accompagnò con gentilezza verso la porta. Lui incerto, lei una statua. Gli indicò l’uscita. Le parole che doveva dire non seppero travolgere la diga delle labbra. Aveva troppo da dire, troppo da assolvere. Lasciò che lei lo spingesse fuori.
Restò come intrappolato in un incubo per un tempo infinito. Forse, in realtà, aveva sostato una manciata di secondi sul vestibolo.
Se non aveva altro modo per entrare in contatto con lei decise di proteggerla dai rischi di quella vita. Nonostante le apparenze di una forza interiore sufficiente ad affrontare le minacce che l’estraneità comportava come prezzo inevitabile, la soluzione più logica era costringerla ad accettarlo nel ruolo di tutore.
“Ma che scemenza” protestò lei. “Cosa pensi di fare? Di vivere appostato tutte le volte giù in strada?”.
“No. Hai degli appuntamenti. Mi comunichi il giorno e l’ora e io ti raggiungo”. Indicò il pavimento. “Qui”.
“Qui?” – scandalizzata.
“Certo, qui. Come faccio a capire cosa sta succedendo per intervenire in tempo?”.
A braccia conserte si affacciò alla finestra e vi rimase così a lungo da costringerlo a sedersi. Ogni tanto scuoteva la testa.
“Ti va una birra?” le chiese ad un tratto. Era sicuro che sarebbero rimasti in quella situazione di stallo per tutta la notte se non avesse trovato modo di scuoterla.
Andarono in un pub. C’erano molti ragazzini. Loro non erano vecchi, ma i tre lustri di differenza si facevano notare, soprattutto da parte della chiocciata che li circondava e pigolava come un asilo incustodito. Alla seconda la udì mormorare “Sei sicuro?”
“Se non lo fossi non te lo avrei proposto”.
“Per me non cambia niente”, tenne a precisare. Fissava gli auspici contenuti nei vortici di schiuma e lisciava il bordo con il dito.
“Va bene”.
Non ci credeva. Era di nuovo lì, un sentore di alcol sulla bocca. Quando farfugliò qualcosa di incomprensibile il miasma si fece più forte. Non aveva mai avuto il coraggio delle grandi occasioni. Simulava uno sguardo determinato che in realtà era l'imitazione di ciò di cui avrebbe avuto bisogno.
Le aveva fatto la posta. Per giorni si era impuntato ad incastrarla in un frangente compromettente. Bazzicando nei pressi del portone aspettava. Osservava tutti, tutti osservavano lui. La testa dei condomini, ormai assuefatti alla sua presenza, si affollava di interrogativi. Affatto propensi al saluto poco mancò che lo mandassero in quel posto.
Ciò non lo aveva reso più cauto. Arrivava dopo il lavoro. Spesso quel fantomatico unico cliente della giornata si era già dileguato. A volte lo seguì mentre si allontanava, e si chiedeva da dove fosse entrato. Lo riconosceva per l’aspetto furtivo, l’incognita nel volto, l’espressione sibillina. Poteva essere il suo nuovo boyfriend, quello dei weekend, che ogni tanto cenava da lei. Avrebbe ammazzato anche questo.
L'estraneo che entrò nel palazzo dopo aver chiamato con un laconico “sono io” non ebbe rimostranze da fare quando lo seguì. Immaginò fosse un inquilino. Uno prese l’ascensore, l’altro salì le rampe. Lo scorse mentre scendeva dal settimo. Lo stomaco gli si rivoltò. Dopo mezz’ora si fermò davanti a quella porta. Avrebbe potuto aspettare mezz'ora come un’ora, era tutta una questione di banconote. Udì in sordina armeggiare, dei passi leggeri, uno scambio di battute uomo donna. La sua voce. Un commiato? Avveniva al 27.
Per giorni si era appostato, per giorni aveva bevuto fino a stordirsi. Ci stava facendo l'abitudine. Non era così male ubriacarsi come se non ci fosse domani. Fulminò il cliente a cui sbarrava la strada con un ringhio, poi si concentrò sulla donna. “Hai bisogno di soldi” si interessò. L'altro rimase un po' interdetto. Tirò fuori di tasca sei biglietti da cinquanta. Rincuorato, il cliente si defilò alla chetichella. Di nuovo resistette alla tentazione di rincorrerlo per azzuffarsi.
“Che cosa hai intenzione di fare”.
Sorrise con vago sadismo. “Non è abbastanza chiaro? Avvalermi delle tue prestazioni professionali”.
“Sei un bastardo”.
“Non sai quanto”.
“Vattene”.
“Non me ne vado”. Le infilò il piccolo rotolo sopra l'orecchio. “Cosa devo fare?”
“Non abbiamo concordato nessun appuntamento”.
“Ormai sono qui. Approfittane. Cosa devo fare?”
“Un cliente al giorno, se ho deciso di avere un cliente quel giorno”.
“Oggi ne avrai due. Non puoi dire di no al tuo ex. O preferisci un po' di cagnara?”
“Sì, tu sei bravo a farla” acconsentì. “Hai bevuto. Chi si presenta così di solito lo caccio via”.
“Di solito?”
“Vai a lavarti e poi raggiungimi sul letto. Ti ricordi ancora come si fa un bidè?”
“Sei una stronza”.
“Oh non sai quanto”.
Fece quello che aveva chiesto poi si presentò in camera: lui nudo, lei col négligé. Era sdraiata, a gambe aperte, le braccia rigide lungo il corpo come se l’avesse tramortita con una bastonata. La sovrastò come un animale. Lei aveva un profumo di fiori e giorni passati. “Un po' di verve?”
Per tutta risposta, da quel corpo morto si levarono gemiti. “Troppo presto?”, si premurò di informarsi. Poi volse il capo verso la sveglia sul comodino. “Dovresti sbrigarti, ti rimane poco tempo”.
Ma prima ancora che distogliesse gli occhi dal display per tornare a guardarlo fu invasa dal suo desiderio. Era bagnata fradicia, lui lo aveva capito e non aveva chiesto permesso. Il viso contratto in una smorfia di sorpresa si sciolse nell’impertinenza del piacere. Alle tre di notte si staccarono l’uno dall’altra. Paolo non ricordava una notte di sesso così viva neppure ai primi appuntamenti. Tra un amplesso e l'altro avevano parlato, ma il segreto che li divideva, il mistero che rendeva peggiore la notte non riusciva a rompere la conchiglia, restava serrato come un tesoro.
“Vuoi che vada via?” sussurrò.
Si accoccolò contro di lui, passando il suo braccio dietro la testa. “No, aspetta la mattina”.
“Avviso che entro dopo”.
“Va bene. Facciamo colazione insieme”.
Si alzarono sul tardi. Mangiarono in silenzio, poi quando ancora stava sbocconcellando Barbara gli si sedette sopra e lo sfinì. Nascose il viso in mezzo ai seni e pianse. Profumava di rugiada sull’erba, di pane fresco e notti serene, come quelle che non aveva più conosciuto. Ma mentre si allontanava per farsi la doccia sfilando la vestaglia notò un segno dietro la spalla sinistra. La prese per una mano e l’attirò a sé. L’ecchimosi stava maturando. “Che cos’è?”
“Niente” rispose evitante.
“Niente è troppo poco. È stato lui?”
Pensava al ragazzo della sera prima. Barbara sciolse la tensione in una dolce risata. “Ma no, non farebbe del male a una mosca”, rispose. E distratta, soprappensiero, con un sorriso tenero ed ambiguo aggiunse: “È poco più di un ragazzo. Pensa che mi porta sempre dei fiori”.
Dei fiori? Osservò in giro quell'ambiente per lui così poco familiare, che forse tale sarebbe rimasto. Notò l’unico vaso dove una esuberante rosa rossa si ergeva in tutto lo splendore circondata da una corte di piccole orchidee bianche. Sembrava un’isola di beatitudine lambita dalle onde d'oblio di qualche sconosciuto fiume Lete.
Lo accompagnò con gentilezza verso la porta. Lui incerto, lei una statua. Gli indicò l’uscita. Le parole che doveva dire non seppero travolgere la diga delle labbra. Aveva troppo da dire, troppo da assolvere. Lasciò che lei lo spingesse fuori.
Restò come intrappolato in un incubo per un tempo infinito. Forse, in realtà, aveva sostato una manciata di secondi sul vestibolo.
Se non aveva altro modo per entrare in contatto con lei decise di proteggerla dai rischi di quella vita. Nonostante le apparenze di una forza interiore sufficiente ad affrontare le minacce che l’estraneità comportava come prezzo inevitabile, la soluzione più logica era costringerla ad accettarlo nel ruolo di tutore.
“Ma che scemenza” protestò lei. “Cosa pensi di fare? Di vivere appostato tutte le volte giù in strada?”.
“No. Hai degli appuntamenti. Mi comunichi il giorno e l’ora e io ti raggiungo”. Indicò il pavimento. “Qui”.
“Qui?” – scandalizzata.
“Certo, qui. Come faccio a capire cosa sta succedendo per intervenire in tempo?”.
A braccia conserte si affacciò alla finestra e vi rimase così a lungo da costringerlo a sedersi. Ogni tanto scuoteva la testa.
“Ti va una birra?” le chiese ad un tratto. Era sicuro che sarebbero rimasti in quella situazione di stallo per tutta la notte se non avesse trovato modo di scuoterla.
Andarono in un pub. C’erano molti ragazzini. Loro non erano vecchi, ma i tre lustri di differenza si facevano notare, soprattutto da parte della chiocciata che li circondava e pigolava come un asilo incustodito. Alla seconda la udì mormorare “Sei sicuro?”
“Se non lo fossi non te lo avrei proposto”.
“Per me non cambia niente”, tenne a precisare. Fissava gli auspici contenuti nei vortici di schiuma e lisciava il bordo con il dito.
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