Mia mamma è una troia

di
genere
incesti

Appena oltrepassata la soglia, i rumori dal fondo della sala ci avvolsero: gemiti amplificati dalle casse, colpi secchi, respiri spezzati. Sullo schermo, una donna allargava le cosce tra due uomini, il corpo esposto senza vergogna, mentre il pubblico osservava nel silenzio ovattato di quel piccolo cinema porno. Gli occhi si abituarono piano all’oscurità, distinguendo figure tra le poltrone lise: una coppia rannicchiata nelle prime file, due uomini soli poco più indietro. Ci sistemammo in fondo, nell’ultima fila, le sedie scricchiolanti sotto il peso dei nostri corpi e del non detto.
Mamma teneva lo sguardo fisso sul film, una tensione inquieta nel modo in cui si aggiustava i capelli, accavallava e scioglieva le gambe, tamburellava le dita sulle ginocchia nude. Mi chinai verso di lei, la bocca quasi a sfiorarle l’orecchio.
— Allora, ti piace? —
La voce le uscì piatta, volutamente distante.
— Così, così. —
Nel buio, il tono era più una difesa che una confessione. Le dita però continuavano a scivolare sulla pelle, inquiete.
Poco dopo la porta si aprì di nuovo: tre persone entrarono, sagome appena illuminate dalla luce che colava dal corridoio. Rimasero fermi un attimo, immobili, occhi spalancati per spezzare la cecità improvvisa. Poi uno si avvicinò alla coppia davanti, sedendosi qualche posto più in là; gli altri due presero posto nella fila immediatamente davanti alla nostra, così vicini da sentire il loro respiro pesante, l’odore acre di sudore e dopobarba.
Mamma si sistemò meglio sulla poltrona, il mento appena alzato, la bocca serrata in una smorfia di falsa indifferenza. Dallo schermo i suoni si facevano più sporchi, più invadenti, come se cercassero di insinuarsi sotto i vestiti di chiunque fosse seduto lì dentro. Ogni tanto una risata sommessa, il fruscio di una zip che si abbassa, il suono liquido della saliva che si mescola al respiro.
Sentii una mano appoggiarsi sullo schienale davanti a noi, dita larghe, nervose, e il fruscio dei pantaloni abbassati. Uno dei due uomini davanti cominciò a muoversi piano, la spalla che tremava sotto la camicia. L’altro fissava lo schermo con un’attenzione feroce, ma la testa piegata verso mamma tradiva un interesse diverso.
Le presi il polso. Lei si lasciò fare senza guardarmi, il volto rivolto allo schermo ma le narici che si dilatavano, la pelle d’oca lungo le braccia. Lentamente, feci scivolare la sua mano sulla mia coscia, sentivo il calore salire, il battito accelerare sotto le dita. Lei rimase ferma, solo un piccolo movimento del pollice che accarezzava la stoffa.
— Se vuoi, possiamo andare via — sussurrai, la voce roca, il desiderio ormai scoperto.
Lei sorrise appena, senza voltarsi.
— Aspettiamo ancora un po’. —
La sala era diventata più calda, satura di umidità e aspettativa. Davanti a noi, uno degli uomini iniziò a muoversi più veloce, il rumore sordo della pelle contro la pelle. Qualcuno tossì, un altro si aggiustò i pantaloni. Dal fondo arrivava il profumo dolciastro del sudore misto a quello più pungente, animale, della paura e dell’eccitazione.
Mamma sollevò la mano e la portò alle labbra, mordicchiandosi piano il dito indice. Si girò, finalmente, e mi guardò negli occhi. Dentro quello sguardo c’era tutto: la vergogna, la curiosità, la voglia di restare. Un attimo dopo la sua bocca si aprì.
— Fammelo sentire… qui. Adesso. —
Mi avvicinai, il fiato corto, mentre lo schermo proiettava una sequenza di corpi intrecciati e la sala vibrava di una tensione elettrica, animale. mamma scostò la borsa dalle ginocchia, la fece cadere a terra senza curarsene, poi lasciò che la mia mano si infilasse tra le sue cosce nude sotto la gonna leggera. Il tessuto era già caldo, umido dove la pelle cedeva al desiderio.
Il rumore di una zip abbassata mi distrasse: l’uomo davanti si stava toccando, senza pudore, il braccio che si muoveva con un ritmo sfacciato. Ogni tanto lanciava una rapida occhiata a mamma, poi tornava a concentrarsi sul film, le labbra aperte su un respiro affamato.
Mamma strinse le cosce attorno alle mie dita, mi tirò a sé con un gesto improvviso, le labbra quasi a sfiorare il mio orecchio.
— Non fermarti. Voglio che mi tocchi mentre tutti guardano. Voglio sentire che rischio di farmi vedere.
Il battito del cuore mi martellava nelle tempie, la mano scivolava ormai senza ostacoli. Lei lasciò cadere la testa all’indietro, gli occhi chiusi, il petto che si sollevava e abbassava in onde corte. Dal fondo della sala arrivava un gemito più forte, la donna sullo schermo urlava, il ritmo si faceva feroce.
Le dita di mamma cercavano le mie, si intrecciavano, si spingevano ancora più in basso. I suoi fianchi cominciavano a muoversi piano, un’oscillazione che seguiva il battito sporco della scena proiettata. Gli uomini davanti rallentarono, sentendo l’atmosfera cambiare, forse percependo la corrente che scorreva tra noi.
La mia bocca si avvicinò al collo di mamma, la lingua sulla pelle calda, salata. Lei trattenne il respiro, poi lo lasciò andare con un piccolo rantolo. Le sue mani, ora, si muovevano sicure, aprendomi la cintura, cercando la carne nuda. Nessuno nella sala sembrava scandalizzato: i suoni si mescolavano, le mani si agitavano, il piacere diventava una lingua comune.
— Fammi venire qui, — sussurrò, il volto ancora nascosto dall’ombra.
Davanti a noi, l’uomo che si stava toccando si voltò appena, il viso deformato da una smorfia tra il desiderio e l’incredulità. Gli occhi di mamma lo fissarono un istante, senza paura.
Le dita di mamma affondarono sotto la cintura, trovando il mio sesso teso e vivo. Le sue unghie graffiavano piano, abbastanza da farmi fremere, mentre la sala intorno a noi sembrava stringersi, ridursi solo a respiri, gesti, gemiti trattenuti. Il buio proteggeva e insieme esponeva: sapevamo di essere osservati, sapevamo che ogni gesto poteva essere visto, raccontato, desiderato dagli altri.
Uno degli uomini davanti si voltò per pochi secondi, lo sguardo fisso sulle mani di mamma che lavoravano decise. Non disse nulla, si limitò a passarsi la lingua sulle labbra, ricominciando a masturbarsi, quasi volesse sfidare il nostro ritmo, aggiungere la propria eccitazione alla nostra.
Lo schermo intanto proiettava scene sempre più violente, la donna urlava in un orgasmo che sembrava non finire mai. Il suono amplificato entrava sotto la pelle, scuoteva la pancia, accelerava il respiro di tutti. mamma piegò il busto in avanti, la bocca semiaperta sul mio collo, il fiato caldo che si confondeva col mio.
— Fammi godere, — mi sussurrò, i fianchi che spingevano contro la mia mano. — Voglio venire qui, voglio che mi sentano. —
Lasciai che le dita trovassero il ritmo giusto, affondando, accarezzando, stringendo. La sentivo pulsare sotto la pelle, le gambe che tremavano, la schiena inarcata appena. Un gemito le uscì dalle labbra, soffocato, ma abbastanza forte da far girare anche la coppia nelle prime file. Nessuno disse una parola. Solo occhi sgranati e desiderio sospeso.
Mamma mi guardò, le guance arrossate, i capelli scompigliati, il sudore che luccicava sulla pelle. Si leccò le labbra e, con una voce rotta ma decisa, disse:
— Adesso tocca a te. —
Scivolò giù, inginocchiandosi tra i sedili, il corpo raccolto tra le mie gambe, le mani che mi liberavano. La lingua umida, calda, trovò subito la strada, e ogni carezza era una scossa, un’esplosione. Dimenticai tutto il resto, la paura, la vergogna, il senso di colpa. Esisteva solo quel momento, la sua bocca su di me, il suo respiro affannoso che si mescolava al mio.
Intorno, la sala continuava a vivere la sua notte oscena: mani che si muovevano, corpi che si stringevano, sussurri che si trasformavano in gemiti. Sullo schermo, l’orgia si consumava nel delirio finale. Tra le ombre, mamma alzò lo sguardo verso di me, gli occhi pieni di fuoco.
Mamma continuò, la bocca affamata, le mani ferme a stringermi la pelle, ogni tanto uno sguardo rapido verso l’alto per misurare la mia reazione, per assaporare il potere che aveva in quel gesto. Sentivo le dita premere forte, il calore della lingua che scivolava lenta, il rumore bagnato che si perdeva tra i gemiti e le risate basse dei presenti. I sedili scricchiolavano, le ombre si spostavano appena. Qualcuno tossiva, qualcun altro sussurrava frasi troppo basse per essere comprese, ma bastava il tono per capire che la scena tra me e mamma aveva acceso altro desiderio nell’oscurità della sala.
Le mani di mamma si fecero più sicure, guidate dalla voglia di farsi notare, di essere ricordata da chiunque ci stesse spiando. Era la sua sfida: piacere senza vergogna, godere in pubblico, diventare lo spettacolo dentro lo spettacolo. Ogni tanto si fermava a guardarmi, la bocca sporca, il respiro veloce, poi riprendeva senza esitazioni, strofinandosi contro il sedile, i fianchi che si muovevano seguendo la musica oscena del film.
Quando il piacere divenne impossibile da trattenere, la afferrai per i capelli, la tirai su, la bocca ancora aperta, le labbra gonfie. Ci baciammo, profondi, voraci, il sapore della carne e della vergogna che bruciava sulla lingua. Il cuore mi martellava nel petto, le mani tremavano, la testa vuota di pensieri.
Mamma sorrise, compiaciuta, sfiorandosi le labbra con il dorso della mano, poi si rimise a posto la gonna, sistemandosi come se niente fosse. Intorno, il film proseguiva, ma ormai tutti erano più attenti a noi che allo schermo. Alcuni uomini si erano avvicinati, qualcuno tossiva per farsi notare, altri si erano lasciati andare, incapaci di resistere all’atmosfera che avevamo creato.
Mamma si voltò e mi sussurrò all’orecchio, la voce roca, impastata di desiderio e trionfo:
— Ce ne andiamo? O vuoi vedere cosa succede dopo? —
Restai un istante immobile, le dita che ancora stringevano la sua coscia, la testa pesante, il respiro corto. Lo schermo proiettava una nuova sequenza di corpi, le immagini si rincorrevano rapide, ma in sala l’attenzione era tutta per noi. Gli uomini davanti si erano voltati, i pantaloni ancora abbassati, la voglia scritta in faccia. La coppia nelle prime file si era avvicinata, la donna sussurrava qualcosa all’orecchio del compagno, ma gli occhi, quelli, erano fissi sulle nostre gambe, sulle mani ancora sporche di saliva e umori.
Mamma si alzò lentamente, la gonna appena rialzata sul fianco, si voltò verso gli spettatori, occhi accesi, sorriso che sfidava. Si inginocchiò di nuovo tra le mie gambe, ma questa volta fu più lenta, più esibita. Fece scorrere la lingua sulla mia pelle, salendo fino all’inguine, poi si girò, le spalle nude, i fianchi ben in vista sotto la luce tremolante del film.
Uno degli uomini davanti allungò una mano, esitò, poi si fermò a mezz’aria. mamma se ne accorse, gli sorrise, lasciando che la mano di quell’uomo la sfiorasse appena. L’altro si avvicinò ancora, quasi a voler capire fino a dove poteva spingersi. Io guardavo la scena, sentivo la pelle bruciare, il sangue pulsare forte nelle tempie.
Mamma si voltò verso di me, occhi lucidi, labbra gonfie, e sussurrò piano:
— Vuoi vedermi? Vuoi che mi lasci toccare davanti a tutti? —
Le sue dita mi strinsero, la voce si sciolse in un mezzo gemito. Senza aspettare risposta, allungò la mano e prese quella dell’uomo davanti, guidandola tra le sue cosce ancora bagnate. Il respiro si fece più forte, lo sentivo vibrare tra i sedili, un suono basso e feroce che accendeva ogni cosa.
La sala era un’unica carne, un desiderio collettivo che non conosceva vergogna. mamma si lasciò andare, gli occhi chiusi, il corpo aperto, le mani di quegli sconosciuti che la esploravano senza pudore. Restai a guardare, eccitato e ipnotizzato, consapevole che il punto di non ritorno era stato superato.
La mano dell’uomo si fece più audace, le dita affondavano tra le gambe di mamma, il polso tremava appena, ma non si tirò indietro. Lei gli venne incontro, aprendosi senza paura, il fiato che le usciva dalle labbra spezzato, rauco. L’altro spettatore, quello che fino a poco prima osservava in silenzio, si avvicinò, la bocca spalancata, gli occhi fissi su mamma, quasi a chiedere il permesso di toccare anche lui.
Mamma si girò di poco, gli fece cenno di avvicinarsi, poi si lasciò esplorare, le mani sconosciute che scivolavano sulla pelle, salivano sotto la gonna, stringevano, accarezzavano, penetravano senza più esitazione. Il respiro di tutti si fece più fitto, i movimenti sempre meno nascosti, la sala satura dell’odore acre di sudore, piacere, desiderio.
Mi sentivo travolto, ogni gelosia cancellata dalla vista di mamma che godeva in pubblico, che si lasciava possedere da mani estranee davanti a me, sotto gli sguardi affamati degli altri. Ero spettatore e protagonista insieme, diviso tra il bisogno di averla solo per me e l’eccitazione selvaggia che mi dava vederla donarsi.
La coppia nelle prime file non resisteva più: la donna si era tirata la maglia sopra il seno, il compagno la baciava ovunque, mentre con lo sguardo cercava i nostri movimenti, quasi volesse rubare qualche dettaglio in più. I rumori si intrecciavano: gemiti, suoni bagnati, risate soffocate.
Mamma ora si era voltata completamente, in ginocchio tra i due sconosciuti, il viso acceso, il corpo offerto, le mani che si aggrappavano a chiunque la toccasse. Ogni freno si era dissolto. Gli uomini la spogliavano, le abbassavano la gonna, le accarezzavano i seni, la stringevano tra le loro braccia. Lei gemeva, rideva, urlava il suo piacere senza vergogna, il viso rivolto a me, occhi pieni di fuoco e di una felicità feroce, quasi crudele.
Mamma urlò, ma non fu un grido di dolore. Era piacere puro, feroce, un lamento che si spandeva tra le file vuote, rimbalzava sulle pareti sporche, fece tremare i corpi di chi guardava. Le mani degli uomini la stringevano senza pietà, uno le afferrava i capelli, l’altro la teneva aperta, le dita affondate dentro di lei. mamma si lasciava scuotere, il busto arcuato, i seni scoperti sotto la luce tremolante, la voce che si spezzava in singhiozzi e risate.
Mi sentivo investito da un’onda di rabbia e desiderio. Volevo fermare tutto, prenderla e portarla via, ma non potevo. Lei era lì, al centro di tutto, e non c’era niente di più eccitante che vederla trasformarsi in oggetto di ogni fantasia, accendersi per me e per il mondo. La coppia nelle prime file si era avvicinata ancora, ora guardava senza alcun pudore, la donna aveva una mano tra le gambe e si mordeva un labbro, l’uomo con lo sguardo perso tra le cosce di mamma.
Il film sullo schermo era ormai solo un rumore di fondo, lontano, inutile. Tutta l’attenzione era su di noi, su mamma, sulle sue urla soffocate, sui gemiti che uscivano dai corpi, sui gesti che si facevano sempre più sfacciati. Le mani degli uomini la esploravano senza più nessun limite, uno si abbassò i pantaloni, la costrinse a prendere in bocca il suo sesso, mentre l’altro continuava a penetrarla con forza, il ritmo che accelerava e si faceva bestiale.
Mamma non opponeva resistenza, anzi, guidava i movimenti, rideva, gemeva, si abbandonava completamente. Ogni tanto i suoi occhi incontravano i miei e in quello sguardo c’era tutto: la sfida, la complicità, la certezza che quel momento non sarebbe mai stato dimenticato.
L’odore acre della sala era diventato insostenibile. Qualcuno dietro di noi si stava toccando, la coppia nelle prime file si era gettata l’uno sull’altra. Era un contagio, una febbre sporca e senza rimedio.
Mamma si lasciò cadere contro il sedile, il respiro spezzato, il volto bagnato di sudore e lacrime. Aveva ancora le mani degli uomini addosso, le dita che la stringevano come se non volessero lasciarla andare, ma lei ormai rideva, sfinita, i capelli incollati alle tempie, la gonna arrotolata sui fianchi. Si voltò verso di me, il sorriso sporco, la bocca ancora arrossata.
Gli uomini le accarezzarono la schiena, uno la baciò sul collo prima di ricomporsi in silenzio, la bocca ancora gonfia di voglia e di vergogna. L’altro si alzò, sistemando i pantaloni, lanciandomi uno sguardo complice e torbido.
Tutto intorno la sala era un disastro di respiri, gemiti e odori, il film ormai dimenticato, le luci dello schermo che illuminavano corpi seminudi, mani intrecciate, visi scomposti dal piacere. La coppia nelle prime file era un’unica massa di carne intrecciata, la donna aveva la testa riversa all’indietro, le cosce spalancate, l’uomo che la possedeva senza più nessun ritegno.
Mamma si raccolse un attimo, mi guardò negli occhi, la voce roca, impastata.
— Portami via. Ma domani… torniamo. Voglio ancora sentirmi guardata, voglio che tutti sappiano quanto godo per te, per loro, per noi. —
Le presi la mano, la strinsi forte, la sentii tremare. Senza parlare ci rialzammo, raccogliendo le poche cose cadute a terra, la gonna che ancora lasciava scoperta la pelle. Uscimmo dalla sala come se avessimo attraversato un incendio, i volti di chi restava ancora accesi dalla nostra follia.
Fuori l’aria notturna era un pugno freddo sul viso, le gambe di mamma ancora deboli, il cuore che batteva ovunque. La guardai, lei mi sorrise, sporca e bellissima, e capii che nulla sarebbe più stato uguale.
Camminammo in silenzio per un po’, la città deserta intorno, i passi incerti di chi ha lasciato dietro di sé qualcosa di troppo grande per essere raccontato. mamma mi teneva il braccio, le dita affondate nella pelle, ancora inquiete. Il corpo portava addosso i segni di quella notte: il profumo degli altri, la pelle arrossata, la gonna stropicciata sulle cosce.
Ci fermammo sotto un lampione spento, la luce arancione dei bar chiusi filtrava dalla strada. mamma si appoggiò al muro, mi tirò a sé senza dire nulla. Ci baciammo, ancora pieni del sapore degli altri, e fu un bacio violento, disperato, di quelli che vogliono cancellare tutto e allo stesso tempo tenerselo stretto dentro.
— Mi hai vista, — sussurrò, la voce un po’ rotta. — Mi hai visto davvero. —
La guardai, i suoi occhi erano pieni di lacrime e di una felicità oscena, feroce.
— Sì. E non voglio smettere. —
Mamma ridacchiò, si sistemò la gonna, si leccò le dita come a voler assaporare fino in fondo ciò che aveva vissuto. Si accese una sigaretta, la brace rossa che illuminava per un attimo il viso. Poi mi diede una spinta leggera sulla spalla, un gesto infantile.
— Domani voglio tornare. Ma stavolta… scelgo io chi mi guarda. Tu mi starai vicino e voglio che tu sia fiero di me. —
La seguii, senza esitare. La notte ci inghiottì di nuovo, e per la prima volta da anni mi sentii libero, il cuore pesante ma vivo. mamma camminava davanti a me, la schiena dritta, i fianchi ondeggianti, ancora nuda sotto la gonna. Sapevo che nulla avrebbe fermato la sua fame, né la mia.
Camminammo fino a casa senza parlare, ancora saturi di adrenalina e silenzio, ognuno immerso nel ricordo dei corpi, dei suoni, degli sguardi di quella sala. L’ascensore ci accolse con il suo odore metallico, le porte che si richiusero su di noi. mamma si appoggiò alle pareti, le gambe nude che tremavano leggermente, la testa inclinata all’indietro, il respiro lento, quasi assente.
Entrammo in casa senza accendere la luce. Lei lasciò cadere la borsa sul pavimento, si tolse la giacca, si avvicinò a me. Mi afferrò la nuca, mi baciò ancora: la bocca ruvida, le labbra che graffiavano, la lingua che cercava il sapore della notte appena vissuta. Le mani scesero subito sui fianchi, sulla pelle calda che sapeva di sudore e desiderio.
Ci spogliammo piano, quasi con rabbia, i vestiti che finivano a terra uno dopo l’altro. mamma mi spinse sul divano, mi salì sopra, le cosce ancora segnate, le dita che stringevano la mia schiena.
— Ti voglio ancora, — sussurrò, e questa volta la voce non aveva ombre di esitazione, solo fame. — Voglio che resti su di me, voglio sentire che sono tua anche qui, adesso, con dentro tutto quello che abbiamo portato a casa. —
La presi tra le braccia, la spinsi contro il petto, la sentii scivolare, aprirsi ancora. I nostri corpi si unirono senza dolcezza, senza freni, la stanza riempita dai nostri gemiti e dal rumore sordo dei colpi.
Mamma si muoveva sopra di me, feroce, le unghie che graffiavano, i capelli sparsi sul viso. Non c’era più differenza tra quello che avevamo vissuto fuori e quello che stavamo consumando ora. Era tutto parte dello stesso rito, lo stesso desiderio che si era acceso e non voleva spegnersi.
Quando venne, si abbandonò completamente, la testa sulla mia spalla, la pelle bagnata e tesa, il corpo che tremava ancora. Restammo così, avvinghiati, stremati, le luci della città che filtravano dalla finestra.
— Domani, — sussurrò ancora una volta, senza chiedere né promettere, — torniamo lì. E sarà ancora più vero, più nostro. —
Restammo sul divano a lungo, sudati, annodati l’uno all’altra, con il cuore che batteva ancora a tempo con i ricordi. Fuori la città cominciava a svuotarsi, i rumori lontani di qualche auto, il chiarore dell’alba che filtrava tra le persiane. mamma mi accarezzava il petto, i polpastrelli lenti, persi tra i peli e le cicatrici, le gambe ancora intorno alle mie anche dopo che ogni fremito si era spento.
— Sei diverso, — sussurrò, la voce stanca e soddisfatta. — Non pensavo che avresti voluto davvero vedermi così. —
Le sollevai il mento, fissandola negli occhi ancora lucidi.
— Non ti ho mai voluta diversa. Quella di stanotte sei tu. Quella vera. E io… sono ancora più tuo, adesso. —
Mamma sorrise, un sorriso stanco ma pieno, la faccia di chi ha perso ogni paura. Si strinse a me, il fiato caldo sulla clavicola, e per un po’ restammo così, ascoltando solo il battito dei nostri cuori e il respiro che tornava lento.
Poi si alzò, nuda, attraversò la stanza fino al bagno, lasciando impronte leggere sul parquet. La seguii, incapace di staccarmi da lei. Nella luce bianca del mattino ci guardammo allo specchio: due corpi segnati, i capelli arruffati, i volti arrossati dal piacere e dall’assenza di sonno.
Ci lavammo insieme, senza fretta, la schiuma che scivolava sulle cosce, sulle schiene, tra le dita. Ogni carezza era una promessa, una tregua dopo la battaglia. mamma si voltò, mi baciò piano sulla bocca, mi guardò come se stesse cercando un segno definitivo.
— Oggi riposiamo. Ma domani… domani voglio essere guardata di nuovo. Voglio sentire addosso quegli sguardi e sapere che tu sei lì, che mi vedi, che non hai paura. —
Annuii, sentendo un desiderio nuovo e feroce bruciare sotto la pelle.
— Ci sarò, — promisi, — sempre. —
Mamma uscì dal bagno avvolta nell’asciugamano, i capelli ancora bagnati che le cadevano sulle spalle, le gambe nude, la schiena segnata dai lividi e dai morsi della notte. Si aggirava in cucina con una calma nuova, senza nascondere nulla, come se da quel momento ogni gesto le appartenesse di diritto, senza filtri. Preparò il caffè nuda, appoggiata al piano, ogni movimento lento e consapevole, le labbra piegate in un sorriso segreto.
Mi avvicinai da dietro, la cinsi alla vita, affondando il viso tra il collo e la spalla. Sentivo l’odore del sapone, della pelle stanca, ma ancora carica di tutto quello che avevamo vissuto. Restammo così, in silenzio, mentre il caffè borbottava e il giorno filtrava oltre le tende.
Quando ci sedemmo a tavola, le tazzine tremavano tra le dita, le mani che ancora si cercavano, il bisogno di toccarsi diventato abitudine, un linguaggio nuovo. Non servivano parole, solo sguardi. Ogni tanto ridevamo per niente, per l’assurdità di quella libertà improvvisa che ancora non aveva un nome.
— Cosa diresti se domani scegliessimo insieme chi voglio che mi guardi? — domandò lei, la voce quasi allegra.
Mi fermai, la fissai, e capii che non stava scherzando. In quegli occhi c’era un lampo di sfida, la promessa di un confine ancora più in là da superare.
— Sceglieremo insieme — risposi. — Ma voglio vedere anche te guardare. Non solo essere vista. Voglio che ti piaccia anche questo.
Mamma sorrise, appoggiò la mano sulla mia, si avvicinò e mi baciò. Era un bacio pieno, sporco di promesse e di futuro.
Dopo il caffè, ci sdraiammo sul letto disfatto, nudi, senza la minima voglia di coprirci o di fingere pudore. mamma si rannicchiò al mio fianco, le dita che tracciavano linee leggere sul mio petto, ogni tanto fermandosi sopra una cicatrice, un neo, un segno della mia storia. Il silenzio era denso, carico di quella complicità nuova, animale, che ci aveva uniti durante la notte.
— A cosa pensi? — chiese lei, il tono rilassato, lo sguardo acceso.
La guardai. mamma aveva il volto sereno, ma negli occhi ardeva ancora una brace di inquietudine e desiderio.
— Penso che domani sarà diverso da tutto quello che abbiamo mai vissuto. E che non so più cosa sia vergogna, né paura. Solo fame di te. —
Lei sorrise di lato, si stiracchiò, poi mi salì addosso, i seni che sfioravano il mio petto, i fianchi che si muovevano appena.
— Allora promettimi che domani non tirerai indietro lo sguardo. Voglio vederti eccitato, voglio vedere la tua voglia per me negli occhi, mentre altri mi guardano. —
Le presi il viso tra le mani, la baciai a lungo, lento, fino a toglierle il fiato.
— Sarà così. Voglio che tu sia vera, che niente ci freni più. Voglio essere spettatore e padrone, complice e carnefice. —
Mamma rise, un suono basso, vibrante, che la percorse tutta.
— Voglio essere tua davanti a tutti, domani. E voglio vedere fino a dove puoi portarmi. —
Restammo così, intrecciati, la luce del giorno che cresceva sulle lenzuola e sui nostri corpi segnati. Non c’era più timore, solo la promessa muta di superare ancora ogni limite, insieme.
Passammo la giornata in una specie di sospensione, come se ogni gesto avesse il sapore di una vigilia. Ci muovevamo per casa quasi senza parlare, tra docce lunghe, carezze rubate tra una stanza e l’altra, lo sguardo sempre acceso da quello che ci aspettava la sera. Ogni tanto mamma mi si avvicinava di sorpresa, si lasciava toccare o mi sussurrava all’orecchio una delle sue fantasie, giocando con i limiti, scoprendo nuovi desideri che fino a poco prima non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare.
Nel pomeriggio ci chiudemmo insieme sotto le lenzuola, ma senza la furia della notte precedente. C’era una dolcezza nuova nei nostri gesti, quasi una gratitudine. mamma si addormentò con la testa appoggiata sul mio petto, le dita intrecciate alle mie. Rimasi a guardarla, il respiro calmo, il viso disteso e ancora bello, anche segnato dall’eccesso. Mi colpì la forza con cui aveva accolto tutto, la naturalezza con cui era passata dalla vergogna all’orgoglio, dalla paura all’esibizione più totale.
Al tramonto, ci preparammo lentamente, scegliendo i vestiti con cura. mamma indossò una gonna nera corta, senza biancheria, una camicia bianca sottile che lasciava intravedere i capezzoli già tesi. Si fermò davanti allo specchio, sistemò il trucco, si diede un ultimo sguardo fiero, gli occhi accesi di desiderio.
— Pronta? — le chiesi.
Lei annuì, si mise un rossetto scuro e mi prese per mano.
Uscimmo insieme nella sera che odorava di pioggia, complici e impazienti. Sapevamo già dove andare, come se quel cinema fosse diventato la nostra tana segreta, il luogo dove finalmente tutto era permesso.
Arrivati all’ingresso, mamma mi guardò con un sorriso che aveva dentro un misto di paura e fame. Entrammo, attraversando la soglia con la consapevolezza che stavolta sarebbe stato diverso, ancora più intenso, ancora più nostro.
Appena entrati nel cinema l’odore era ancora più forte della notte prima: sudore, piscio, sperma, quell’aroma inconfondibile di carne eccitata e voglia repressa che riempiva le narici e ti scuoteva le viscere. Le luci basse, lo schermo già occupato da una scena violenta: una donna a quattro zampe, due uomini che la scopavano senza pietà, urla, schiaffi, bestemmie. Le file erano più piene, il brusio era fatto di respiri pesanti, mani che si muovevano lente sopra pantaloni gonfi.
Mamma mi strinse il braccio, lo sguardo febbrile, la bocca piegata in un sorriso sporco.
— Guarda che porci, guarda che facce — sibilò, senza alcuna vergogna, — scommetto che stanotte mi vogliono tutti.
Mi guidò verso il fondo della sala, la gonna già cortissima che lasciava intravedere le cosce nude, il culo rotondo. Si voltò a guardarmi, i capelli sugli occhi, la bocca già aperta.
— Te lo immagini quanti si sono già fatti le seghe pensando a me? Stasera li voglio vedere sborrare tutti, voglio che mi vengano addosso, che mi usino come una puttana. E tu voglio che mi guardi, che mi spingi, che mi dici le peggio porcate.
Mi si rizzò subito. Mi sedetti, lei mi si mise in grembo, le cosce spalancate, il culo che sfregava sulla mia erezione dura.
— Dai, fammi vedere quanto sei sporco. Dimmelo, davanti a tutti.
La presi per i fianchi, le sussurrai con la voce roca, le mani già sotto la camicia:
— Stasera sei la puttana di tutti. Voglio vederti leccare cazzi, voglio vederti inginocchiata coi capelli tirati, con le cosce piene di sborra. Sei la mia troia, la loro troia.
Lei gemette, si piegò in avanti, la gonna ormai salita oltre le anche. Un uomo della fila davanti si voltò, occhi sbarrati, la mano già infilata nei pantaloni.
— Che cazzo guardi? — gli urlò mamma, sghignazzando — Non hai mai visto una troia che vuole farsi scopare in pubblico?
L’uomo non rispose, tirò fuori il cazzo duro, iniziò a segarsi senza alcun pudore. Un altro si avvicinò, sbottonandosi i pantaloni, la lingua fuori.
Mamma si voltò verso di me, il viso acceso, le pupille dilatate.
— Dai, dillo a tutti. Dillo che vuoi vedermi scopata qui davanti a questi schifosi.
Io non esitai, il cuore che batteva forte, la voce che tagliava l’aria.
— Voglio vederti in ginocchio, con la bocca piena di cazzi, le tette sbattute e il culo aperto. Voglio che ti usino come una puttana, che ti facciano venire in faccia, che ti trattino da vera schiava.
Mamma gemette ancora più forte, si voltò verso gli uomini davanti.
— Allora? Che cazzo aspettate? — urlò, spalancando le gambe. — Non volete una troia da sborrare stanotte?
I primi due si avvicinarono senza parole, cazzi fuori, occhi bassi, già pronti a farle quello che volevano. La sala era diventata un ring di voglie, sudore e carne esposta. Ogni inibizione sparita, ogni parola una frustata.
Il primo si inginocchiò davanti a mamma, il cazzo in mano, la punta già umida. Lei gli prese la testa, lo guardò dritto negli occhi e sputò con forza, poi gli infilò la bocca intorno al sesso, profonda, senza alcun pudore. Gorgogliava, sbavava, si faceva scopare la bocca con rabbia, gemendo a ogni affondo. L’altro le afferrò le tette da dietro, le strinse forte, affondando le dita nei capezzoli, le mani ruvide che lasciavano segni rossi sulla pelle bianca.
— Sì, così, — urlava mamma, — fammi male, voglio sentire che mi fate vostra, che non valgo un cazzo se non per farvi venire.
L’uomo davanti le teneva la testa ferma, le pompava la bocca, i colpi veloci, sbatteva contro la gola finché lei non iniziò a lacrimare. Io la tenevo stretta, la lingua lecca¬va il sudore dal collo, la mano affondata tra le sue gambe umide.
— Sei una troia, la mia troia, la loro troia, — le ringhiavo all’orecchio, — non ti fermerai finché non ti riempiono tutta.
Un altro spettatore si avvicinò, prese il posto dell’uomo dietro, tirò su la gonna e infilò due dita dentro mamma, che urlò di piacere, la faccia deformata dal godimento. I gemiti riempivano la sala, qualcuno si era già avvicinato per guardare meglio, cazzi fuori, occhi fissi su quella scena di pura pornografia.
— Dai, riempitemi la bocca, voglio sentire il sapore di tutti, voglio essere la puttana della sala, voglio sborra ovunque — urlava mamma, con la voce roca, spezzata.
L’uomo davanti ansimava, spingeva più forte, poi con un grido le venne in bocca, mamma ingoiò senza tirarsi indietro, si pulì la bocca col dorso della mano, ridendo come una pazza.
— Avanti, il prossimo, chi cazzo aspetta? — gridò, i capelli arruffati, gli occhi lucidi di piacere. Gli uomini si facevano avanti, uno dopo l’altro, ognuno pronto a usarla, ognuno deciso a lasciare il proprio segno.
Io le tenevo la testa, il corpo che tremava, il cuore in gola. mamma gemeva, rideva, supplicava:
— Voglio tutto, voglio essere vostra, voglio che mi usiate, voglio essere ricordata, voglio che domani parliate ancora di me e di quanto godevo.
Gli uomini ormai si accalcavano intorno a noi, spingendosi per il turno, la bocca di mamma una calamita, la pelle segnata da mani e schiaffi, il trucco colato sulle guance, gli occhi persi in una trance di puro godimento. Ogni nuovo cazzo che entrava tra le sue labbra veniva accolto da un gemito soffocato, mentre le mani di qualcuno le stringevano i capelli, tirandola con forza, e altri ancora le palpeggiavano i seni, i capezzoli duri, le cosce scosse dai tremori.
— Non fermatevi, — urlava lei, la voce impastata di saliva e sperma, — usatemi, fatemi male, riempitemi la figa e la bocca, sfondate tutto, sono la vostra puttana!
Uno dietro l’altro la penetravano, alternando bocca e sesso, le dita che la aprivano senza delicatezza, la scopavano come un oggetto, le lasciavano addosso segni di morsi e graffi, la carne viva e arrossata. Alcuni si affrettavano a venire, spruzzandole addosso, sulle tette, in faccia, altri la penetravano con violenza crescente, spingendo mamma sempre più al limite, urlando insulti e porcherie, ridendo, eccitati dal suo abbandono totale.
Io ero lì, la guardavo in ogni istante, il cuore che batteva impazzito, l’orgoglio feroce di vederla diventare davvero quello che aveva chiesto: la troia della sala, il centro di ogni fantasia, il corpo che tutti avrebbero ricordato. Le carezzai i capelli sudati, le sussurrai all’orecchio, la voce spezzata dall’eccitazione:
— Sei mia, anche adesso che ti scopano tutti, sei solo mia. Guardali, sentili, vuoi ancora? Vuoi che continui? —
Mamma sollevò la testa, gli occhi rossi, la bocca sporca, e urlò più forte:
— Sì, non fermatevi, voglio sentirmi distrutta, voglio che mi spacchiate in due! Voglio che mi sborriate dentro, fuori, addosso, che mi lasciate così, sfatta, vuota, scopata da tutti!
I gemiti aumentavano, i corpi si muovevano frenetici, la sala ormai senza più regole, senza freni, un solo grande ventre caldo di desiderio. Ogni uomo che la prendeva aggiungeva una nuova cicatrice di piacere, ogni goccia di sudore, di sperma, di saliva, era parte di un rito animale.
E in tutto quel caos, mamma rideva, piangeva, godeva, la voce che si perdeva in un unico, lunghissimo orgasmo.
Quando l’ultima ondata di piacere attraversò la sala, tutto si fece improvvisamente più silenzioso. Gli uomini si allontanarono uno dopo l’altro, qualcuno rideva sommesso, altri si ricomponevano in fretta, abbassando la testa, come svegliandosi da un sogno feroce. mamma rimase in ginocchio, il corpo scosso dai brividi, il volto sporco di lacrime, saliva, sperma, la pelle rossa di morsi e carezze brutali. Si sollevò piano, le gambe che tremavano, il sorriso sfatto di chi ha attraversato il confine e adesso non teme più nulla.
Mi avvicinai, la presi tra le braccia. Non c’era bisogno di parole: lei si lasciò sostenere, poggiando la testa sulla mia spalla, ancora calda, ancora sporca, ancora bellissima. Raccogliemmo i vestiti, ci rivestimmo in fretta, lei senza mutande, la camicia stropicciata che a malapena le copriva i segni di quella notte.
Uscimmo dal cinema in silenzio, la strada deserta, l’aria che pungeva sulla pelle ancora bagnata di sudore. Nessuno ci guardava, ma il ricordo degli sguardi di decine di uomini ci seguiva fino fuori dalla porta. mamma stringeva la mia mano, le dita intrecciate alle mie, il passo incerto ma deciso.
Camminammo verso casa senza parlare. Ogni tanto ci fermavamo, lei si appoggiava al muro, mi tirava a sé, mi baciava con una fame nuova, le labbra ancora gonfie, la lingua che cercava conferme e carezze. In quell’abbraccio c’era tutto: la vergogna lasciata indietro, l’orgoglio, la certezza di aver vissuto qualcosa che nessuno avrebbe potuto toglierci.
Salimmo le scale fino al nostro pianerottolo, le mani sempre unite. Dentro casa, chiudemmo la porta, ci guardammo un attimo, poi scoppiammo a ridere, una risata piena, sporca, liberatoria. mamma si lasciò cadere sul pavimento, la schiena appoggiata al muro, la testa tra le mani.
— Non ci credo ancora, — sussurrò, la voce roca, — ma voglio rifarlo. Voglio andare ancora oltre, voglio sentire fin dove posso arrivare.
Mi sedetti accanto a lei, l’abbracciai forte. Il sudore e il sapore degli altri ancora sulla pelle, il cuore che non accennava a rallentare.
— Ci andremo, — le dissi. — Tutto quello che vuoi, ovunque vuoi arrivare, io sarò con te.
La mattina dopo, la casa era ancora piena dell’odore della notte precedente. Il sole filtrava pigro tra le tende, illuminando la pelle di mamma distesa accanto a me, il corpo segnato da morsi e carezze, i capelli sparsi sul cuscino. Si girò lentamente, un sorriso stanco ma famelico sulle labbra, mi guardò negli occhi e sussurrò:
— Invita Sandro stasera. Voglio lui qui. E portati anche la sua ragazza, quella slava… Katerina, no? Voglio vedere cosa succede.
Rimasi senza parole, il cervello ancora annebbiato dal sonno e dai ricordi sporchi. Non avevamo mai condiviso il nostro letto con altri. E mamma, fino al giorno prima, non aveva mai nemmeno nominato il nome di Sandro in quel modo. La guardai, cercando nei suoi occhi un ripensamento, una risata, un gioco. Niente. Solo quella nuova fame che le brillava dentro.
— Sei sicura? — chiesi, la voce rotta.
Lei annuì, si leccò le labbra, poi si alzò dal letto completamente nuda, sfidandomi con lo sguardo.
— Voglio qualcosa di diverso. Fallo per me. Voglio vedere cosa succede se ti guardo con un’altra, e se tu guardi me con Sandro. Voglio vedere fino a dove possiamo arrivare. —
Mi arresi. Per amore, per curiosità, forse solo per paura di perderla in quella nuova vertigine. Mandai il messaggio a Sandro nel primo pomeriggio: “Cena da noi stasera. Porta anche Katerina.” La risposta arrivò subito: “Ci saremo.”
La sera calò presto, la casa in ordine, il vino già sul tavolo. mamma aveva scelto un vestito leggero, senza nulla sotto, le gambe nude, il seno appena velato. Io giravo per il soggiorno con una fame nuova, lo stomaco stretto, la testa piena di immagini. Al primo squillo, il cuore mi balzò in gola.
Sandro si presentò con il solito sorriso scanzonato, la camicia aperta, lo sguardo da eterno ragazzino. Al suo fianco, Katerina: alta, slava, bionda come un’invasione. Un corpo da nuotatrice, le spalle larghe, le gambe chilometriche, un viso freddo, impenetrabile, gli occhi di ghiaccio. Accanto a lei, mamma sembrava più piccola, più vera, la pelle olivastra che tremava sotto quella luce nordica.
Ci sedemmo a tavola tra battute, brindisi, aneddoti volgari raccontati da Sandro che rideva e si accarezzava la barba. Katerina sorrideva a fatica, beveva con piccoli sorsi, ogni tanto mi fissava con uno sguardo che non lasciava capire nulla.
La cena filò via lenta, tra risate forzate e tensione palpabile. Dopo il dolce, mamma si alzò, prese per mano Katerina.
— Dai ragazzi, portate i bicchieri in salotto. Noi sistemiamo qui. —
Obbedimmo, lasciandole in cucina. Sedetti accanto a Sandro, il cuore che batteva a mille, il silenzio che si faceva pesante. Si sentivano solo le voci basse delle due donne, qualche risata, il rumore dell’acqua nel lavandino. Poi, dopo dieci minuti, la porta della cucina si aprì.
Mamma e Katerina entrarono insieme, completamente nude.
Lo sguardo di Sandro si spalancò in un sorriso incredulo. Io rimasi senza fiato: la mia donna, mora, sensuale, piena di curve e morsi ancora freschi; e accanto a lei, Katerina, un corpo scolpito nel marmo, seni piccoli e sodi, i capezzoli tesi, la pelle pallida e perfetta. Camminavano lente, fiere, sapendo bene di essere diventate la fantasia di ogni uomo in quella stanza.
Mamma si avvicinò a me, Katerina si mise di fronte a Sandro. Nessuna delle due disse una parola. Bastava lo sguardo: qualcosa era appena iniziato e nessuno avrebbe più potuto fermarlo.
Appena le due donne entrarono nude nel salotto, il silenzio si fece pesante, elettrico, carico di una tensione feroce. Sandro non si trattenne nemmeno un secondo: la sua risata da cialtrone si trasformò in un fischio sporco.
— Cristo santo, ma che spettacolo siete? — borbottò, già allungando le mani verso il culo di Katerina, che rimase immobile, lo sguardo gelido ma gli occhi che bruciavano di eccitazione.
Mamma mi si piazzò davanti, si inginocchiò tra le mie gambe, le tette che mi sfioravano le cosce nude. Mi guardò dal basso, il sorriso storto, la voce roca.
— Ti piace, vero? Guarda come mi metto a pecora davanti al tuo amico, — sibilò, le mani già sulla cintura dei miei pantaloni, — voglio che mi guardi, voglio che tu dica a Sandro che sono una troia pronta per lui.
Katerina si avvicinò a Sandro, si sedette sulle sue ginocchia, le gambe aperte, la figa depilata in bella vista, lo sguardo fisso su di me e su mamma. Lui le afferrò i fianchi, la tirò ancora più vicino, la bocca già sulla sua pelle.
— Dai, fammi vedere come ve la godete, — disse Katerina in un italiano tagliato dall’accento dell’est, — non fate i timidi, qui si scopa e si gode. Io voglio vederti venire in faccia a quella piccola puttana mediterranea.
Mamma rise, sbottonò i miei pantaloni con le mani che tremavano solo per l’avidità. Mi tirò fuori il cazzo, lo prese subito in bocca, bagnandolo di saliva, muovendosi lenta e poi sempre più veloce, guardandomi negli occhi come a sfidarmi.
— Dai, fallo anche tu, — urlò Sandro a Katerina, — mostrami come si succhia sul serio.
Katerina non aspettò altro: gli abbassò i pantaloni, prese il suo cazzo tra le dita lunghe e affusolate, lo sbatté contro la guancia, poi se lo infilò in bocca tutta, affondando fino in fondo, senza pietà. I rumori erano osceni, il respiro ansimante, le mani di Sandro nei capelli biondi della slava.
— Ma che schiava di merda sei, — ringhiò Sandro, — guardami, fammi vedere come ti piace. — Katerina lo fissava da sotto, la lingua che correva dal glande alle palle, un ghigno maligno sulla faccia d’angelo.
Mamma mi lasciò andare, si voltò, si mise a quattro zampe sul tappeto, il culo in aria, la figa gonfia e umida, grondante desiderio.
— Vuoi vederlo davvero, Sandro? Vieni qui, sfondami davanti a lui, fammi sentire quanto vali, fammi urlare, fammi sborrare davanti alla tua ragazza e al mio uomo.
Non ci fu esitazione: Sandro si avvicinò, afferrò mamma per i fianchi, la spinse con violenza, la infilò dentro senza neanche chiederlo. Lei urlò, rideva, gemiti sporchi, la voce rotta.
— Così! Sì, più forte, fammi sentire che mi stai spaccando, fammi sentire che sono la tua troia per questa notte! — sbraitava mamma, spingendosi contro Sandro, i colpi sordi che rimbombavano nel salotto.
Katerina guardava, si toccava la figa con due dita, la testa indietro, gli occhi socchiusi. Si girò verso di me, la voce tagliente:
— Che fai lì seduto? Vieni a prendermi, fammi urlare più forte della tua troia, mostrami quanto sai essere animale.
Mi alzai di scatto, il cazzo duro come pietra, raggiunsi Katerina che mi guardava con quel ghigno da sfida stampato in faccia. Le afferrai i capelli biondi, la tirai a me con una forza che sapeva di rabbia e fame. Lei spalancò le gambe, senza un briciolo di vergogna, mi mostrò la figa lucida e sorrise:
— Dai, fammi vedere se sei all’altezza della tua troia mediterranea.
Glielo infilai in bocca, senza dolcezza. Lei se lo prese tutto, senza tossire, senza battere ciglio, la lingua che lavorava lenta, precisa, gli occhi di ghiaccio che non si staccavano dai miei. Con una mano la tenevo per i capelli, l’altra le stringeva la mascella, costringendola a prendere ogni affondo.
Alle mie spalle, mamma urlava. Sandro la scopava senza pietà, i colpi secchi, il rumore sordo dei fianchi che sbattevano, il tappeto che scivolava sotto di loro. Lui le stringeva il culo, la penetrava fino a farle perdere la voce, la insultava a bassa voce.
— Senti come grida la tua donna, — ringhiò Sandro rivolto a me, — senti come gode se la tratto da vera cagna.
Io affondavo sempre di più in Katerina, il suo viso arrossato, la saliva che le colava dagli angoli della bocca. Si tirò indietro per un attimo, sputò tutto, si pulì con il dorso della mano e poi si rimise in ginocchio.
— Vieni, fammi vedere se sai scopare davvero una donna — disse, la voce roca.
La presi di peso, la buttai sul divano, le gambe spalancate sulle mie spalle. La penetrai con una spinta unica, affondando fino in fondo, il corpo di lei che tremava ma non arretrava. Mi guardava dritto, una mano sulle tette, l’altra che si toccava la figa.
— Più forte, dai, non risparmiarmi, fammi sentire che esisti!
Mamma ansimava, il volto schiacciato contro il tappeto, le urla soffocate dal braccio di Sandro che le stringeva i capelli e la sottometteva del tutto.
— Siete delle puttane! — gridò Sandro, — Ditecelo, chi siete stanotte?
Katerina lo fissò, la voce piena di disprezzo e fuoco.
— Siamo le vostre troie, fateci tutto, usateci finché non vi reggete più in piedi!
Le mie mani le afferravano le anche, affondavo dentro di lei senza tregua, la stanza piena di gemiti, bestemmie, sudore. mamma gridava, spingeva il culo contro Sandro, i corpi ormai incollati, senza più limiti.
La stanza era un groviglio di corpi sudati, voci rotte, carne che batteva contro carne senza più pudore. Il ritmo si fece ancora più feroce: Sandro sbatteva mamma con una forza animalesca, le mani che lasciavano impronte rosse sulle sue anche, la voce che la insultava e la faceva ridere, urlare, supplicare.
— Più forte, Sandro, spaccami tutta, fammi sentire che mi rompi, che sono solo la tua troia per stanotte! — urlava mamma, la faccia schiacciata sul tappeto, le lacrime di piacere che si mescolavano al sudore.
Io affondavo in Katerina, le mani che le stringevano il collo, il seno che saltava a ogni colpo, la figa che si stringeva intorno al mio cazzo come una morsa. Lei rideva, mi graffiava la schiena, urlava parole nella sua lingua madre, sputava e rideva ancora più forte, gli occhi che mi sfidavano a non fermarmi mai.
Alla fine, tutto esplose insieme: Sandro venne urlando dentro mamma, le dita che le scavavano i fianchi, lei che si contorceva sotto di lui, il culo ancora alto, la figa che tremava in orgasmo, il corpo scosso dai singhiozzi. Io venni dentro Katerina, un getto caldo, profondo, che la fece gemere e stringere ancora di più, le gambe serrate sulle mie anche, il respiro corto, gli occhi che si chiudevano in un lampo di piacere.
Restammo fermi, sudati, sporchi, i corpi abbandonati uno sopra l’altro, le mani che si cercavano ancora, il silenzio riempito solo dal suono del respiro affannoso e dai battiti accelerati.
Katerina fu la prima a rialzarsi. Si passò una mano tra le cosce, si sistemò i capelli, poi mi guardò e mi diede uno schiaffo leggero sulla guancia, un sorriso da strega sul volto.
— Bel gioco, mediterraneo. Mi piace quando non ci sono regole.
Sandro rise, si sdraiò a terra con le braccia dietro la testa, guardando mamma che ancora tremava, il viso sporco, i capelli scompigliati.
Mamma si voltò verso di me, un lampo negli occhi, la voce roca e rotta.
— Così ti voglio, — sussurrò, — sporco, senza limiti, senza paura. E adesso… adesso mi sento davvero libera.
Ci stringemmo tutti sul divano, le gambe intrecciate, la pelle calda che sapeva di sesso, vino, e promesse mantenute. Non servivano più parole. Bastava la stanchezza, il senso di aver bruciato ogni vergogna.
La notte si allungava pigra tra le lenzuola ancora intrise di sudore e odore di corpi. Il buio della camera era denso, ma sotto le coperte le voci basse delle due donne si facevano strada tra il mio dormiveglia. Non capivo ogni parola, solo sussurri, qualche risata soffocata, suoni morbidi di dita e pelle che si cercavano.
Mamma e Katerina, distese fianco a fianco, si sfioravano, si esploravano con una lentezza complice, ormai sciolte di ogni imbarazzo. Sentivo il respiro spezzarsi, il bisbigliarsi di confessioni, desideri, ricordi che solo due donne possono scambiarsi dopo essersi guardate davvero dentro. Katerina aveva abbattuto il suo gelo: ora la voce era bassa, tenera, un filo di accento che accendeva ogni parola.
— Sei diversa, — mormorava a mamma, — pensavo fossi solo una ragazzetta gelosa… invece tu godi davvero, non fai finta. Tu mi piaci. —
Mamma ridacchiava, la mano che scivolava sul ventre della slava, le dita che già si infilavano tra le cosce umide.
— E tu mi fai impazzire, — rispondeva, la voce roca, piena di voglia. — Non ti toglierei di dosso mai.
Si baciarono a lungo, la lingua lenta, le mani intrecciate tra le gambe, mentre i corpi si muovevano in una danza lenta e oscena. Le vedevo nella penombra, i profili che si confondevano, i piccoli gemiti che si facevano via via più forti, più sfacciati.
A un certo punto Sandro si mosse, si svegliò di colpo, ancora duro, la pelle che odorava di vino e figa. Vide le due donne strette l’una all’altra, il culo di mamma a portata di mano. Senza pensarci, si mise dietro di lei, le mani larghe che le stringevano i fianchi, il cazzo che scivolava tra le labbra gonfie, poi la penetrò in un colpo solo, senza dolcezza, la bocca che le mordeva la spalla.
Mamma gemette, la testa buttata all’indietro, i seni che premevano contro il petto di Katerina. La slava la accarezzava, la baciava, le mordicchiava i capezzoli mentre Sandro la scopava con forza, i colpi che facevano sobbalzare tutto il letto.
Non resistetti oltre. Mi avvicinai a Katerina, la presi per i capelli, la tirai verso di me. Lei mi guardò con un lampo negli occhi, si girò di schiena, mi offrì il culo sodo, le cosce forti spalancate sul letto. La presi senza esitazione, la penetrando a fondo, le mani che le stringevano la vita, il sudore che scendeva lungo la schiena.
— Più forte, — mi urlò Katerina, — fammi sentire che mi scopi davvero, fammi sentire quanto vali.
Mamma e Katerina si baciavano, si stringevano, si toccavano mentre noi uomini ci alternavamo a scoparle da dietro, spingendo fino a farle urlare, fino a consumare ogni briciolo di resistenza. Le urla delle donne si confondevano, i corpi si intrecciavano, la notte si dissolveva in una lunga, sporca sinfonia di piacere.
Quando la porta si chiuse alle spalle di Sandro e Katerina, la casa rimase inondata da un silenzio improvviso, denso, quasi irreale. Le lenzuola erano ancora sparse ovunque, il pavimento segnato dai vestiti gettati in fretta, le tracce della notte presenti in ogni angolo.
Mamma si avvicinò nuda, i capelli arruffati, gli occhi ancora pieni di sonno e di euforia. Mi abbracciò forte, la pelle calda contro la mia, il suo odore ancora misto a quello degli altri.
— Grazie, — mi sussurrò all’orecchio, la voce bassa e sincera. — Era quello che volevo. Non credevo che avrei mai potuto… ma tu mi hai fatto sentire più viva che mai.
Le accarezzai la schiena, sentendo il corpo pesante di stanchezza e piacere.
— Anche per me è stato… tutto, — ammisi, stringendola ancora, — ma adesso devo scappare. Ho una riunione alle otto, se no il capo mi ammazza.
Mamma rise, strofinandosi il viso sulla mia spalla.
— Vai. Porta questa faccia soddisfatta in ufficio, fammi immaginare le loro facce se sapessero come hai passato la notte.
Mi vestii in fretta, raccogliendo al volo i pantaloni e la camicia sparsi sul divano. Un ultimo bacio, mamma che mi stringeva ancora i fianchi, un sorriso stanco sulle labbra.
— Ci vediamo stasera? — chiese, la voce quasi un sussurro.
— Sempre, — risposi, già sulla porta, le chiavi tra le dita, il cuore che correva più veloce delle gambe.
La giornata in ufficio partì subito male. Appena arrivai, notai che c’era un’aria tesa, sguardi bassi, poca voglia di parlare. Alla macchinetta del caffè mi sussurrarono la notizia: il mio capo, quello con cui mi ero sempre trovato bene, era stato trasferito d’urgenza. Nessun preavviso, nessuna spiegazione.
Al suo posto avevano messo uno che sembrava uscito da un film sui peggiori anni Ottanta: massiccio, testa rasata, la voce che spaccava i muri e un alito da bar della stazione. Appena entrato, aveva iniziato a urlare, a insultare chiunque gli capitasse a tiro. Nessuno era risparmiato: neanche io, che pure avevo la fama di uno che si fa i cazzi suoi. Bastarono cinque minuti per essere trattato da lavativo, fancazzista, buono solo a scaldare la sedia. Ogni battuta una coltellata, ogni ordine un’umiliazione pubblica.
La giornata fu un inferno. Tornai a casa con la testa che pulsava, le mani che tremavano dalla rabbia e dalla frustrazione. Appena aprii la porta, trovai mamma in cucina, in accappatoio, i capelli ancora umidi dopo la doccia. Mi lanciò uno sguardo, capì tutto in un attimo.
— Che faccia di merda hai stasera, — sussurrò, accarezzandomi la guancia. — È andata male?
Le raccontai tutto. La voce del nuovo capo, i modi da carceriere, il senso di impotenza che mi aveva lasciato addosso.
Mamma ascoltò, poi si avvicinò, mi abbracciò da dietro, il corpo caldo che mi si incollava addosso.
— Invitalo a cena domani. —
Mi voltai di scatto, incredulo.
— Dici sul serio? Vuoi quello stronzo qui?
Lei sorrise, un lampo malizioso negli occhi. Si avvicinò, mi prese la mano e la portò tra le sue cosce nude, la pelle già calda, umida.
— Certo che lo voglio. Sono curiosa di vedere fin dove si può spingere uno così, e quanto puoi essere sporco tu davanti a lui. Fallo per me, amore. Invitalo. Poi lasciami fare.
L’idea mi mandò subito il sangue in ebollizione. L’ansia si trasformò in eccitazione, il pensiero di mamma tra le grinfie di quell’energumeno, la sfida di essere spettatore e complice.
La spinsi sul tavolo, le alzai l’accappatoio, la presi con rabbia, le mani che lasciavano segni sulla pelle, la bocca che le mordeva il collo, i suoi gemiti che riempivano la cucina.
Quella sera non lasciai mamma insoddisfatta. E mentre lei veniva urlando il mio nome, già pensavo a cosa sarebbe potuto succedere domani, quando avrei portato quell’animale nella nostra tana.
Il giorno dopo l’atmosfera in ufficio era ancora più tesa, quasi irrespirabile. L’energumeno si aggirava tra le scrivanie come un secondino in cerca di una scusa per punire qualcuno: urla, insulti, battute pesanti. Nessuno osava rispondergli, tutti a testa bassa, a subire.
Verso metà pomeriggio, col cuore in gola e la faccia di chi ha già ingoiato abbastanza merda, mi avvicinai alla sua scrivania. Lui stava sbranando un panino unto, spargendo briciole sulla tastiera, le manone che schiacciavano i tasti a caso. Mi guardò di traverso, con quell’aria da bullo che sa già come andrà a finire.
— Senta, — dissi piano, facendo il sottomesso, — stasera io e la mia compagna la invitiamo a cena. Niente di che, solo per… per conoscerci meglio. Una birra, due chiacchiere.
Mi scrutò un attimo, poi fece una risatina stronza, quasi mi sputasse addosso.
— Hai paura, eh? Vuoi tenerti buono il capo? — sbuffò, poi sogghignò, mostrando i denti gialli. — Va bene, ragazzo. Passo io da casa tua stasera. Speriamo che almeno la tua donna sia carina. —
Annuii, deglutii, mi allontanai senza replicare. Subito, in bagno, mandai un messaggio a mamma: “Viene a cena. Preparati. E stasera fammi vedere chi sei.”
Lei rispose dopo qualche minuto. Arrivò una foto: mamma davanti allo specchio, la gamba alzata sul bordo della vasca, la mano ferma mentre si rasava la figa con cura, lo sguardo sporco e fiero puntato nell’obiettivo. Nessuna parola, solo quell’immagine. Un messaggio che sapeva di sfida e promessa.
Mi si rizzò solo a guardarla. Chiusi il telefono e mi resi conto che la vera serata sarebbe iniziata solo al tramonto.
Quando rientrai a casa trovai mamma già pronta, completamente nuda in salotto, le gambe accavallate sul divano, lo sguardo di una che sapeva perfettamente dove sarebbe finita quella serata. Avevo ancora la rabbia in corpo, la tensione di una giornata passata a subire l’energumeno e a trattenere le parole.
La presi senza nemmeno salutare. La sollevai di peso, la sbattei contro il muro, le mani che le stringevano i fianchi, la bocca che mordeva la sua pelle fino a lasciarle i segni. Lei si lasciò fare, rideva, mi incitava, le gambe avvinghiate alla mia schiena.
— Sfogati, dai. Fammi vedere se hai le palle o se sei rimasto il cagnolino del tuo capo.
Il sesso fu selvaggio, rabbioso, una scarica di tutto quello che avevo ingoiato nelle ultime ventiquattr’ore. Venni urlando, lei mi graffiava la schiena, rideva di gusto. Poi restammo stesi a terra, ansimanti, il cuore che batteva come dopo una rissa.
Mamma si alzò, ancora nuda, mi lanciò un’occhiata sporca, poi sparì in bagno. Sentii l’acqua scorrere, la sua voce che canticchiava una vecchia canzone da balera. Quando uscì era trasformata: capelli raccolti, trucco leggero, un abito castigato ma attillato che lasciava intravedere la curva dei fianchi e il culo alto. Un filo di pizzo nero sotto, appena accennato dalla scollatura discreta.
Mi vestii in fretta anch’io, ancora carico di adrenalina e di aspettativa.
Alle otto in punto, il campanello suonò. Enrico, l’energumeno, era puntuale. Si presentò con una bottiglia di vino importante e un mazzo di fiori. Sembrava quasi imbarazzato, un’altra persona rispetto all’animale da fabbrica che avevo conosciuto.
— Che casa accogliente, davvero. E lei, signora, è splendida. — disse rivolgendosi a mamma, che sorrise senza civetteria.
A tavola fu perfetto: complimenti sulla cucina, domande cortesi, aneddoti divertenti. Rideva, gestiva le conversazioni, si mostrava colto e anche un po’ autoironico. Io ero spiazzato, continuavo a guardarlo aspettandomi che sbottasse, che tirasse fuori la sua solita aggressività.
Enrico si accorse del mio stupore e, dopo un brindisi, mi fissò negli occhi con un sorriso smorzato.
— Lo so cosa pensi. In ufficio sono un bastardo, qui invece sono un altro. È che… se mostri anche solo un po’ di gentilezza in quell’ambiente, ti schiacciano. Se voglio comandare, devo essere più stronzo degli altri. Ma quando torno a casa, o tra amici, non ho bisogno di recitare. La verità è che odio fare la parte del capo, ma se abbassi la guardia… ti mangiano vivo.
Mamma gli sorrise, lo ascoltava con attenzione, quasi incuriosita da quell’uomo così doppio. Io lo guardavo e mi domandavo dove sarebbe andata a finire quella cena, e quanto sarebbe bastato a tirar fuori di nuovo il lato oscuro di Enrico.
La cena scorreva in un clima surreale. Enrico, impeccabile, continuava a raccontare storie di lavoro, battute intelligenti, persino qualche ricordo tenero di famiglia che stonava con la maschera del bullo vista in ufficio. Ogni tanto lanciava a mamma uno sguardo d’ammirazione, il tono sempre rispettoso, mai sopra le righe.
Io osservavo, cercando di cogliere una crepa, un’esitazione, una traccia del vero Enrico. Ma lui non concedeva nulla: rideva, elogiava la cucina di mamma, chiedeva dettagli sulla ricetta, parlava con passione del vino che aveva portato.
Mamma, dal canto suo, giocava d’equilibrio: mai troppo ammiccante, ma nemmeno fredda. Ogni tanto le mani si sfioravano sulla tovaglia, un gesto casuale che lasciava intuire una tensione appena sotto la superficie. Quando si alzò per sparecchiare, Enrico si offrì subito di aiutare.
— No, siediti, sei ospite, — sorrise lei, portando i piatti in cucina.
Enrico mi guardò, abbassando per un attimo la voce.
— Tua mamma… è davvero una donna particolare. Ha uno sguardo che non dimentichi. — Poi, sorseggiando il vino, aggiunse: — Lo sai che non mi aspettavo una serata così? Di solito, dopo una giornata di merda, mi basta una bottiglia e il divano. Ma qui… ci si sente bene. Forse troppo bene.
Quando mamma tornò, si era tolta le scarpe, camminava a piedi nudi sul parquet, i capelli leggermente sciolti, l’abito che aderiva ancora di più ai fianchi. Mise su della musica bassa, quasi impercettibile. Si sedette di nuovo accanto a me, ma stavolta il ginocchio sfiorava quello di Enrico.
Ci fu un attimo di silenzio, denso, uno di quei momenti in cui tutti sanno che qualcosa sta per succedere. Enrico si rischiarò la voce, poi si girò verso mamma.
— Posso dire una cosa fuori luogo? — domandò, abbassando la voce di un tono. — Non ho mai visto una donna più elegante… e più pericolosa di lei. —
mamma sorrise, uno di quei sorrisi che non sono mai solo cortesia.
— Forse non mi hai ancora vista abbastanza, Enrico. —
Per la prima volta da quando era entrato, vidi il vecchio energumeno tremare appena, qualcosa negli occhi che oscillava tra desiderio e timore. Io, di fianco a mamma, sentivo il sangue scorrere più veloce.
Mamma si sporse in avanti, versò altro vino a tutti, poi si lasciò andare contro lo schienale, gambe accavallate, lo sguardo dritto negli occhi di Enrico. La tensione si fece palpabile, quasi elettrica. Enrico sembrava meno sicuro, si sistemava sulla sedia, giocherellava col bicchiere. Cercava di nascondere l’agitazione dietro il solito tono da uomo di mondo, ma ogni tanto lo tradiva un lampo negli occhi, una risata troppo forte, una mano che tremava appena.
— Sai, Enrico, — disse mamma, la voce morbida, ma tagliente, — c’è una cosa che mi incuriosisce. Come fai a tenere separate le due facce? C’è chi riesce, c’è chi scoppia. Tu sei più forte o solo più bravo a mentire?
Enrico si fece serio per un attimo. Mi guardò di sfuggita, poi tornò su mamma.
— Forse tutte e due. Ma stasera… non voglio mentire.
La musica in sottofondo girava lenta, le luci basse coloravano la stanza di riflessi caldi. mamma si avvicinò ancora, questa volta poggiando la mano sulla sua, appena un tocco, niente di esplicito, solo quella promessa che si fa pelle.
— Nemmeno io, — sussurrò, — qui siamo tra adulti, no?
Sentii il cuore martellare, lo stomaco stretto, la voglia che saliva. Enrico fissava quella mano, poi la sollevò piano, la baciò sul dorso. Un gesto lento, elegante, ma carico di una fame antica, di chi ha vissuto abbastanza da sapere dove porta un invito simile.
Mamma si voltò verso di me, negli occhi una scintilla che non avevo mai visto così viva.
— Che dici? — mi chiese piano, — pensi che Enrico sia pronto a vedere anche l’altra nostra faccia?
Il mio sorriso fu una resa, la voglia che ormai aveva cancellato ogni dubbio.
— Penso che stasera nessuno ha bisogno di fingere, — risposi.
Enrico deglutì, poi rise. Un suono basso, vero, finalmente sincero.
— Allora mostratemela, questa faccia. Se siete davvero così diversi da quello che si vede in ufficio… fatemi vedere quanto sapete sorprendermi.
Mamma si alzò lentamente, fece scivolare le dita sul braccio di Enrico e poi sul mio, una carezza per entrambi. Si avviò verso il corridoio, voltandosi appena, l’abito che lasciava intravedere le curve accese dal desiderio.
— Seguitemi, — disse, — e lasciate fuori dalla porta tutto il resto.
Ci alzammo quasi insieme, il silenzio rotto solo dal rumore sommesso dei nostri passi e dalla musica che restava a girare in sottofondo, lenta, sensuale. mamma guidava, il corpo sinuoso, i fianchi che ondeggiavano sotto il tessuto dell’abito. Aprì la porta della camera, si voltò a guardarci, un sorriso affilato sulle labbra.
Enrico mi lanciò uno sguardo misto di complicità e sfida, poi abbassò lo sguardo sul corpo di mamma che, senza dire una parola, iniziò a sbottonarsi il vestito, uno ad uno, lasciando scivolare il tessuto sulle spalle, sulle cosce, fino a restare nuda, la pelle illuminata dalla luce calda della lampada sul comodino.
Si sedette sul bordo del letto, le gambe divaricate, il respiro già più pesante. Fece cenno a Enrico di avvicinarsi. Lui, incerto solo per un istante, la raggiunse. mamma lo prese per la cravatta, lo tirò giù, gli baciò la bocca con violenza, mordendolo piano, poi si girò verso di me.
— Che aspetti? — sussurrò, — Vieni a vedere come si scioglie davvero il capo.
Enrico, ormai completamente rapito, lasciò che mamma gli sbottonasse la camicia, le mani grandi che già si perdevano tra le sue cosce, la bocca che scendeva sul collo, poi sui seni, affamato.
Io li osservavo, il desiderio mi fece tremare le mani, la mente che correva veloce tra eccitazione e incredulità. mamma, nuda e accesa, era un’altra, padrona della scena, pronta a spingere tutto oltre ogni limite.
Mi avvicinai, la sfiorai lungo la schiena, le baciai la nuca. Enrico mi lanciò uno sguardo di intesa sporca, poi senza più esitazione affondò la bocca tra le gambe di mamma, che gemette forte, le dita nei suoi capelli, il corpo che si offriva senza pudore.
— Così, fammi godere, — lo incitava, la voce roca, le gambe che si stringevano intorno alla testa del nuovo capo.
Io mi inginocchiai accanto a lei, la baciai sul petto, la sentii fremere tra le nostre mani, tra la nostra fame. In quella stanza ogni gerarchia si era dissolta, restavano solo corpi e piacere, una promessa mantenuta di libertà e sfrontatezza.
Mi avvicinai ancora, il cazzo duro che premeva contro i pantaloni, gli occhi pieni solo di mamma e del suo corpo nudo tra me e l’energumeno. Enrico le stava già leccando la figa con rabbia, il muso immerso tra le sue cosce aperte, le mani che le stringevano il culo fino a lasciarle i segni rossi.
Mamma mi guardò, il respiro corto, le pupille dilatate. Mi afferrò la testa, mi tirò a sé, mi baciò mordendomi le labbra.
— Voglio che mi scopiate tutte e due, — sibilò, la voce impastata dal piacere, — voglio vedere chi tra voi due è più sporco, più bastardo, chi mi fa urlare di più.
Enrico sollevò la testa, la bocca lucida, la barba sporca dei succhi di mamma. — Tua mamma è una troia vera, — sbottò, dandomi una spinta sulla spalla, — voglio vederla sfondata, voglio sentirla gridare mentre le riempio il culo.
Mamma scoppiò a ridere, si girò di scatto, si mise a quattro zampe sul letto, il culo in aria, la figa bagnata che pulsava tra le cosce. Si voltò verso di noi, gli occhi di brace.
— Allora fatevi sotto, fate quello che volete. Voglio sentirvi dentro, tutti e due, uno in bocca e uno dietro. Fammi vedere chi comanda davvero.
Mi abbassai i pantaloni, il cazzo già duro e gonfio. Enrico fece lo stesso, il suo sembrava una clava nelle mani grosse, le vene che spiccavano sotto la pelle. Mi avvicinai, la presi per i capelli, le infilai la mia asta tra le labbra, sentendo la sua lingua calda, affamata, che mi avvolgeva tutto.
Enrico la spinse, la afferrò per i fianchi, glielo mise contro il buco del culo senza pietà.
— Stai ferma, troia, — grugnì, — adesso ti apro per bene.
Mamma gemette forte, la bocca piena di me, i fianchi che spingevano indietro, la voce rotta:
— Sì, sfondate tutto, fatemi male, voglio sentire che mi rovinate.
Enrico la prese con forza, affondando nel suo culo con uno scatto solo, il letto che sobbalzava, io che spingevo la mia asta ancora più in fondo nella sua gola. Le mani di mamma cercavano qualcosa a cui aggrapparsi, graffiavano il lenzuolo, i gemiti strozzati da me che le sbattevo la bocca, Enrico che la martellava senza tregua.
— Guardala, guarda tua madre, — urlò Enrico, — è nata per farsi scopare, per essere riempita da veri uomini.
— Sì, sono la vostra troia, la vostra schiava, scopatemi forte, non fermatevi! — urlava mamma, le lacrime agli occhi, la pelle rossa, il corpo che tremava di piacere e di vergogna.
Il ritmo diventò sempre più feroce, il letto che batteva contro il muro, la stanza che si riempiva di suoni animali, bestemmie, risate oscene. mamma venne più volte, urlando, mentre ci alternavamo, ci scambiavamo i ruoli, la prendevamo dappertutto, il corpo pieno dei nostri morsi, le mani che lasciavano lividi e promesse.
Quando venimmo, fu una rovina: Enrico urlava, veniva dentro il culo di mamma con una potenza che le faceva scuotere tutto il corpo; io le riempivo la bocca, lei ingoiava, rideva, sputava, le labbra gonfie, la pelle ancora intrisa di sudore e umori.
Restammo sfiniti, mescolati tra le lenzuola, la camera che odorava di sesso e di vittoria. mamma si lasciò cadere tra noi, i capelli scompigliati, il viso sporco ma raggiante.
— Così, stronzi, — sussurrò, — così mi sento viva davvero.
Mi accovacciai sul letto, ancora ansimante, mentre Enrico si lasciava cadere di fianco a mamma, la pelle rossa di morsi e graffi, il respiro spezzato. La stanza era saturata dall’odore di sudore, di sborra e di desiderio consumato. mamma rideva ancora, la voce roca, sporca, la bocca piena del sapore della notte.
Enrico le diede una manata sul culo, la fece girare di schianto, la guardò dritta negli occhi.
— Sei stata una troia pazzesca, lo sai? — ringhiò, — Mi hai fatto uscire di testa.
Lei gli restituì lo sguardo, si passò la lingua sulle labbra gonfie.
— E non hai ancora visto tutto, bestione. La prossima volta portati un amico, così vediamo davvero quanto riesco a farmi usare.
Mi avvicinai, le presi il viso fra le mani, la baciai con foga, il sapore salato di tutto quello che avevamo condiviso. Il corpo di mamma era un campo di battaglia: lividi sulle anche, segni rossi sulle cosce, la figa ancora umida, il culo che pulsava di piacere.
Enrico si mise a ridere, una risata bassa, incredula, da uomo che non credeva di poter trovare una donna così fuori dagli schemi. Si voltò verso di me, per la prima volta non più da capo, ma da complice.
— Non pensavo… — disse, ancora ansimante, — Non pensavo che avrei mai trovato una coppia capace di andare così oltre. Ma adesso, cazzo, non smetterò di pensarci.
Mamma gli tirò un cuscino, ridendo sporca e selvaggia.
— Ricordati che domani in ufficio torni a fare lo stronzo, eh. — Poi si voltò verso di me, ancora nuda, il corpo stanco ma fiero. — Ma qui, qui dentro, voglio vederti ogni volta strappare quella maschera e mostrarmi l’animale che sei davvero.
Restammo ancora un po’ così, abbracciati, con i corpi aggrovigliati e il cuore che batteva forte, nessuna vergogna, solo la promessa che questa notte era solo la prima di molte altre. Ogni limite infranto diventava un invito a spingerci ancora oltre.

scritto il
2025-12-01
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