La Professoressa e l’Allieva 1
di
Fuuka
genere
dominazione
Il corso di “Teoria Critica della Letteratura Moderna” era un girone dantesco. A presiederlo, come una divinità terribile e magnifica, c’era la Professoressa Suzuka Watanabe. Non era semplicemente una docente; era un’istituzione, una leggenda vivente nel campus. La sua intelligenza era affilata come una katana, la sua bellezza così austera e perfetta da incutere timore. Alta, con un corpo statuario fasciato in abiti impeccabili e severi, capelli neri come inchiostro raccolti in uno chignon che non aveva mai un capello fuori posto, e occhi scuri che sembravano capaci di leggere non solo le parole di un testo, ma l’anima di chi le stava di fronte.
Io, Aiko, ero solo una delle tante matricole perse in quel mare di volti. Eppure, mi sentivo diversa. Mentre gli altri temevano il suo sguardo, io lo cercavo. Mentre gli altri tremavano quando li interrogava, io anelavo a quel momento, pregando di avere la risposta giusta, di poter brillare per un solo istante sotto la sua attenzione. La sua severità non mi spaventava; mi affascinava. La sua mente brillante era un faro, e io non desideravo altro che navigare verso quella luce.
La selezione avvenne a metà semestre. La Professoressa Watanabe aveva la fama di scegliere ogni anno un solo studente, il “preferito”, da seguire personalmente per un progetto di ricerca avanzato. Era un onore paragonabile a essere scelti da un dio per ascendere all’Olimpo. Nessuno sapeva con che criterio scegliesse. Quel giorno, alla fine di una lezione massacrante in cui aveva demolito pezzo per pezzo le teorie di un mio collega, i suoi occhi si posarono su di me.
«Signorina Aiko», la sua voce era velluto e ghiaccio, un suono che riempì l’aula magna e zittì ogni respiro. «Il suo ultimo saggio sull’alienazione in Mishima era… adeguato. Ma manca di profondità. La sua analisi è superficiale, scolastica. Si fermi nel mio ufficio dopo la lezione».
Il cuore mi martellò nel petto. “Adeguato” dalla sua bocca era quasi un complimento, ma l’umiliazione pubblica era parte del suo metodo. Feci come mi era stato ordinato. Attesi fuori dal suo ufficio, tremante, finché la porta non si aprì.
L’ufficio era il suo santuario: ordinato, minimalista, con scaffali di libri che arrivavano al soffitto. Lei era seduta dietro una massiccia scrivania di mogano. Non mi invitò a sedere.
«La sua mente ha del potenziale, Aiko», disse, senza alzare lo sguardo da alcune carte. «Ma è indisciplinata. Pigra. Si accontenta della superficie. Io detesto la superficialità. Tuttavia, vedo una scintilla. Una fame di conoscenza che gli altri idioti in quella classe non possiedono».
Alzò finalmente gli occhi su di me. Mi sentii nuda, ogni mia insicurezza esposta.
«Voglio fare di lei il mio progetto speciale quest’anno. Significa che dovrà dedicarsi a me completamente. Le sue serate, i suoi fine settimana, il suo tempo libero… apparterranno a me. Saranno lezioni private, intensive. Qui, o a casa mia. Sradicherò la sua mediocrità e la trasformerò in eccellenza. Ma la avverto: sarà brutale. Non accetto fallimenti, né lamentele. È disposta a pagare questo prezzo per la vera conoscenza?».
La domanda andava oltre l’accademia. Lo sentivo nelle sue parole, nel modo in cui mi scrutava. Stava offrendo un patto, un accordo faustiano. E io, senza un briciolo di esitazione, annuii.
«Sì, Professoressa. Farò tutto quello che mi chiederà».
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso quasi impercettibile. «Bene. La prima lezione privata sarà domani sera, alle nove. A casa mia. Le manderò l’indirizzo. Si presenti puntuale. E Aiko… venga preparata. A tutto».
La casa della Professoressa Suzuka era esattamente come l’avevo immaginata: un appartamento moderno e impeccabile in cima a un grattacielo, con una vetrata che dominava le luci della città. L’arredamento era essenziale, dominato dai colori nero, bianco e grigio. Non c’era nulla di superfluo.
Mi accolse sulla porta. Non indossava i suoi soliti tailleur, ma un semplice abito nero di seta che le scivolava addosso, rivelando più di quanto nascondesse. I capelli erano sciolti, una cascata di seta nera sulle spalle. Era ancora più bella, e ancora più intimidatoria.
«Entra, Aiko. Togliti le scarpe. E il cappotto».
La sua voce era bassa, quasi un sussurro. Obbedii in silenzio. Mi condusse nel suo studio, simile a quello dell’università ma più intimo. Al centro, però, non c’era una scrivania, ma una poltrona di pelle nera e un pesante tavolo di legno basso.
«Siediti per terra», ordinò.
Mi sedetti sui talloni, sul tappeto. Lei prese posto sulla poltrona, sovrastandomi. Le sue gambe si accavallarono, rivelando uno spacco vertiginoso lungo la coscia.
«Stasera non parleremo di Mishima», disse, la voce calma e controllata. «Parleremo di te. Del tuo corpo. Un intelletto disciplinato richiede un corpo disciplinato. Il tuo corpo è teso, Aiko. Lo vedo da come ti muovi, da come ti siedi. È un corpo che non conosce la sottomissione. E finché il tuo corpo non imparerà a obbedire, la tua mente non potrà mai raggiungere il suo pieno potenziale. Questa è la nostra prima lezione: l'obbedienza assoluta».
Il mio respiro si bloccò. Quello non era un corso di letteratura.
«Alzati e mettiti di fronte a me», continuò. Mi alzai, le gambe che tremavano. «Voglio che ti metta in ginocchio».
Esitai per un microsecondo. I suoi occhi si scurirono. «Ti ho dato un ordine, Aiko».
Caddi in ginocchio davanti a lei. La distanza tra noi era minima. Il suo profumo – un misto di sandalo e qualcosa di pulito, quasi sterile – mi avvolse.
«Bene. Ora, appoggia le mani sulle mie ginocchia». Le sue ginocchia erano fasciate dalla seta liscia e fredda. Appena le toccai, lei si mosse, afferrandomi i polsi con una forza sorprendente. Con un gesto fluido, mi fece girare e mi spinse a pancia in giù sul tappeto, bloccandomi le braccia dietro la schiena. Ero completamente immobilizzata.
«Lezione numero due», sussurrò al mio orecchio, il suo fiato caldo sulla mia pelle. «La resistenza è inutile. Più ti opponi, più stretta sarà la mia presa. Devi imparare a cedere. A lasciarti andare. Capito?».
«S-sì, Professoressa», balbettai, il viso schiacciato contro il morbido tappeto.
«Bene». Sentii la sua mano scivolare lungo la mia schiena, fermandosi sulla curva del mio sedere. Potevo sentire il calore attraverso i miei jeans. «Hai un corpo reattivo. Vediamo quanto è reattiva la tua pelle».
SCHIAFFO.
Il suono secco echeggiò nella stanza silenziosa. Un dolore acuto e bruciante esplose sulla mia natica destra. Rimasi senza fiato.
SCHIAFFO.
Sulla sinistra, questa volta. Più forte. Un gemito mi sfuggì dalle labbra.
«Silenzio», ordinò lei. «Non emetterai un suono a meno che non ti dia il permesso. Conterai solo i colpi. A voce alta e chiara. Ricominciamo. Uno».
SCHIAFFO.
«Uno», sussurrai, la voce rotta.
SCHIAFFO.
«Due…». Le lacrime iniziarono a pungermi gli occhi, ma non erano lacrime di dolore. Erano lacrime di shock, di eccitazione, di una resa che non sapevo di desiderare così tanto. Il rituale continuò, implacabile. La sua mano si abbatteva sulle mie natiche con una precisione ritmica, e io contavo, la mia voce che diventava sempre più un ansimo. Il dolore si stava trasformando, diventando un calore pulsante, una strana forma di piacere umiliante. Stava marchiando il suo territorio, stava scrivendo le sue regole sulla mia pelle.
Quando si fermò, il mio sedere era in fiamme. Mi lasciò i polsi.
«Alzati e guardami», disse.
Mi rimisi in ginocchio, il viso rosso per il pianto e l'umiliazione. Lei mi guardava dall'alto, il volto impassibile, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma scura e trionfante.
«Questo è solo l'inizio, Aiko. La tua educazione è appena cominciata. Ora, spogliati. Lentamente. Voglio vedere il corpo che d'ora in poi mi apparterrà».
Sotto il suo sguardo implacabile, iniziai a obbedire, le dita tremanti che slacciavano i bottoni, la mente svuotata da tutto tranne che dalla sua voce e dalla promessa di una sottomissione così totale da annientare ogni parte di me, per poi ricostruirmi a sua immagine e somiglianza.
Il silenzio nello studio era denso, rotto solo dal mio respiro affannoso e dal fruscio dei miei stessi vestiti. Ogni movimento era un'impresa. Le mie dita, goffe e insensibili, faticavano a slacciare i bottoni della camicetta. Sentivo lo sguardo della Professoressa Suzuka su di me, non lascivo, ma analitico, come quello di uno scienziato che osserva un campione al microscopio. Non mi stava spogliando con gli occhi; mi stava dissezionando.
Feci scivolare la camicetta dalle spalle. L'aria fredda della stanza mi accarezzò la pelle accaldata, facendomi venire la pelle d'oca. Poi toccò ai jeans. Li sbottonai e li abbassai lentamente, rivelando le mutandine di pizzo e, soprattutto, i segni rossi che la sua mano aveva lasciato sulla mia pelle. Per un istante, un'ondata di vergogna mi travolse. Poi, slacciai il reggiseno. Infine, con un'esitazione che mi costò un'occhiata severa da parte sua, abbassai anche l'ultimo velo di tessuto, rimanendo completamente nuda di fronte a lei, in ginocchio sul suo tappeto.
«In piedi», ordinò. La sua voce non ammetteva repliche.
Mi alzai, sentendomi goffa, esposta, vulnerabile come non mai in vita mia. Le braccia mi pendevano inerti lungo i fianchi, non sapendo dove nascondermi.
«Girati. Lentamente».
Obbedii, compiendo una rotazione completa su me stessa. Lei si alzò dalla poltrona per la prima volta, muovendosi con una grazia felina. Si avvicinò, e sentii il suo calore alle mie spalle. Le sue dita fredde mi sfiorarono la schiena, tracciando la linea della mia spina dorsale. Sussultai.
«Ferma», mormorò. «Non un muscolo. Il tuo corpo deve imparare la stasi assoluta, l'immobilità di un oggetto. Solo io ho il diritto di animarlo».
Le sue mani iniziarono un'ispezione metodica. Palparono le mie spalle, le mie braccia, scesero lungo i miei fianchi. La sua non era una carezza, ma una valutazione. Sentii le sue dita premere sulla mia vita, poi sui miei fianchi.
«La struttura è buona», commentò, con lo stesso tono con cui avrebbe giudicato la sintassi di una frase. «Ma sei flaccida. Ti manca tonicità. Da domani, aggiungerai un'ora di allenamento al tuo programma giornaliero. Voglio che questo corpo diventi un tempio di disciplina, non un giardino incolto».
Si spostò di fronte a me. I suoi occhi scuri scrutarono il mio seno, il mio ventre. Un dito tracciò il contorno del mio ombelico, facendomi contrarre i muscoli addominali.
«Hai paura, Aiko?», chiese, vedendo il mio tremito.
«Sì, Professoressa», ammisi a voce bassa.
«Bene. La paura è un eccellente strumento pedagogico. Ti tiene sveglia. Ti rende ricettiva». Si inginocchiò davanti a me, portando il suo viso all'altezza del mio ventre. Il suo sguardo risalì lentamente, fino a incrociare il mio. «Ma la paura non basta. Serve anche il desiderio. E io ti insegnerò a desiderare ciò che decido io, quando lo decido io».
Si alzò e si diresse verso un elegante armadietto di legno laccato nero. Lo aprì, rivelando un interno foderato di velluto rosso. Dentro, disposti con una precisione chirurgica, c'era un arsenale di oggetti che mi fece mancare il respiro. Non erano volgari sex toys di plastica colorata, ma strumenti di una bellezza inquietante: vibratori di vetro nero, plug anali d'acciaio che sembravano gioielli, fruste sottili di cuoio intrecciato, manette di pelle. Erano oggetti che parlavano la sua lingua: controllo, potere, estetica del dolore e del piacere.
Prese un oggetto lungo e sottile, un vibratore di silicone nero opaco, e tornò verso di me.
«Sdraiati sulla schiena», ordinò. «Gambe divaricate».
Il mio corpo si mosse quasi da solo, un automa che rispondeva ai suoi comandi. Mi sdraiai sul tappeto, esponendole la mia totale vulnerabilità. Il cuore mi batteva all'impazzata, un ritmo selvaggio che contrastava con la calma glaciale che mi circondava.
«Voglio che tu guardi», disse, posizionandosi tra le mie gambe. «Voglio che tu veda come il tuo corpo reagisce ai miei stimoli. Non chiudere gli occhi. Mai».
La punta fredda del vibratore mi toccò l'interno coscia. Sussultai, un gemito strozzato in gola. Lei lo fece scivolare lentamente verso l'alto, esplorando la mia pelle con una lentezza esasperante. Quando raggiunse il mio clitoride, lo accese.
Una scossa elettrica mi attraversò. La vibrazione era bassa, profonda, un ronzio che sembrava risuonare direttamente nelle mie ossa. Istintivamente, strinsi le cosce, ma la sua mano libera si posò sul mio ginocchio, fermandomi.
«Rilassati. Apriti. Accetta».
La sensazione era travolgente. Un piacere acuto, quasi doloroso, cominciò a montare dentro di me, un'onda inarrestabile. Mi morsi il labbro per non urlare.
«No», disse lei, leggendomi nel pensiero. «La tua bocca deve rimanere aperta. Il tuo respiro, libero. Non devi soffocare nulla».
Il piacere cresceva, diventava un bisogno disperato. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi, una supernova pronta a esplodere. Stavo per venire, non potevo fermarlo. Ma nel momento esatto in cui stavo per raggiungere l'apice, lei spense il vibratore e lo allontanò.
Il mio corpo si contorse per la frustrazione. Un lamento mi uscì dalle labbra. Ero sospesa in un limbo intollerabile, un abisso di desiderio insoddisfatto.
«Vedi, Aiko?», la sua voce era calma, didattica. «Il tuo corpo è un animale stupido. Brama il rilascio, la gratificazione immediata. Ma io ti insegnerò il controllo. Tu verrai solo quando io ti darò il permesso. Il tuo orgasmo non ti appartiene più. È mio. Un privilegio che ti concederò solo quando te lo sarai guadagnato».
Lo riaccese. Di nuovo, mi portò sull'orlo del baratro, facendomi sentire le prime contrazioni dell'orgasmo, solo per poi fermarsi di nuovo. E poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta, la frustrazione era più acuta, il desiderio più lancinante. Il piacere era diventato una forma di tortura squisita. Stavo piangendo in silenzio, le lacrime che scivolavano sulle tempie, il corpo scosso da tremiti incontrollabili.
«Basta... per favore...», supplicai, la voce irriconoscibile.
I suoi occhi si indurirono. «Non sarai tu a decidere quando è abbastanza. Non supplicherai mai per farmi smettere. Supplicherai per avere di più. Supplicherai per avere il permesso di venire. Dillo».
Ero distrutta, svuotata di ogni volontà. C'era solo lei, il suo potere, e il mio corpo che urlava.
«La prego, Professoressa... mi dia il permesso...», sussurrai, l'ultima briciola di orgoglio sbriciolata.
Mi guardò per un lungo istante, un giudice che pondera una sentenza. Poi, un sorriso quasi crudele le increspò le labbra.
«Guadagnatelo».
Riportò il vibratore su di me, questa volta premendo con più forza, aumentando l'intensità delle vibrazioni. Era troppo. L'onda tornò, più forte di prima, un tsunami di sensazioni. Stavo per perdere il controllo, ma il suo sguardo mi teneva prigioniera.
«Ora, Aiko», sussurrò. «Puoi venire. Per me».
Fu come se avesse aperto una diga. L'orgasmo mi travolse con una violenza inaudita, una scarica elettrica che mi fece inarcare la schiena e urlare il suo nome. Il mio corpo fu scosso da spasmi profondi e incontrollabili, un rilascio così totale da lasciarmi senza fiato, tremante e svuotata sul suo tappeto.
Quando riaprii gli occhi, lei era in piedi sopra di me, che mi guardava con un'espressione di fredda soddisfazione. Aveva spento e pulito il vibratore, riponendolo al suo posto. Era di nuovo la Professoressa Watanabe, composta e inavvicinabile.
«La lezione è finita. Rivestiti», disse, con un tono che non lasciava trasparire nulla di ciò che era appena accaduto. «La prossima volta, lavoreremo sulla tua capacità di accettare oggetti più grandi. Voglio che il tuo corpo impari a essere un recipiente vuoto, pronto a essere riempito dalla mia volontà. Ci vediamo giovedì, in aula. E non aspettarti un trattamento di favore. Anzi».
Mi lasciò lì, nuda e distrutta sul pavimento del suo studio. Mentre mi rivestivo con gesti lenti e doloranti, capii. Quello era il mio nuovo mondo. Un mondo dove il dominio accademico e quello sessuale erano diventati una cosa sola. Un mondo dove io non ero più Aiko, la studentessa. Ero la sua creatura. E non desideravo altro.
Io, Aiko, ero solo una delle tante matricole perse in quel mare di volti. Eppure, mi sentivo diversa. Mentre gli altri temevano il suo sguardo, io lo cercavo. Mentre gli altri tremavano quando li interrogava, io anelavo a quel momento, pregando di avere la risposta giusta, di poter brillare per un solo istante sotto la sua attenzione. La sua severità non mi spaventava; mi affascinava. La sua mente brillante era un faro, e io non desideravo altro che navigare verso quella luce.
La selezione avvenne a metà semestre. La Professoressa Watanabe aveva la fama di scegliere ogni anno un solo studente, il “preferito”, da seguire personalmente per un progetto di ricerca avanzato. Era un onore paragonabile a essere scelti da un dio per ascendere all’Olimpo. Nessuno sapeva con che criterio scegliesse. Quel giorno, alla fine di una lezione massacrante in cui aveva demolito pezzo per pezzo le teorie di un mio collega, i suoi occhi si posarono su di me.
«Signorina Aiko», la sua voce era velluto e ghiaccio, un suono che riempì l’aula magna e zittì ogni respiro. «Il suo ultimo saggio sull’alienazione in Mishima era… adeguato. Ma manca di profondità. La sua analisi è superficiale, scolastica. Si fermi nel mio ufficio dopo la lezione».
Il cuore mi martellò nel petto. “Adeguato” dalla sua bocca era quasi un complimento, ma l’umiliazione pubblica era parte del suo metodo. Feci come mi era stato ordinato. Attesi fuori dal suo ufficio, tremante, finché la porta non si aprì.
L’ufficio era il suo santuario: ordinato, minimalista, con scaffali di libri che arrivavano al soffitto. Lei era seduta dietro una massiccia scrivania di mogano. Non mi invitò a sedere.
«La sua mente ha del potenziale, Aiko», disse, senza alzare lo sguardo da alcune carte. «Ma è indisciplinata. Pigra. Si accontenta della superficie. Io detesto la superficialità. Tuttavia, vedo una scintilla. Una fame di conoscenza che gli altri idioti in quella classe non possiedono».
Alzò finalmente gli occhi su di me. Mi sentii nuda, ogni mia insicurezza esposta.
«Voglio fare di lei il mio progetto speciale quest’anno. Significa che dovrà dedicarsi a me completamente. Le sue serate, i suoi fine settimana, il suo tempo libero… apparterranno a me. Saranno lezioni private, intensive. Qui, o a casa mia. Sradicherò la sua mediocrità e la trasformerò in eccellenza. Ma la avverto: sarà brutale. Non accetto fallimenti, né lamentele. È disposta a pagare questo prezzo per la vera conoscenza?».
La domanda andava oltre l’accademia. Lo sentivo nelle sue parole, nel modo in cui mi scrutava. Stava offrendo un patto, un accordo faustiano. E io, senza un briciolo di esitazione, annuii.
«Sì, Professoressa. Farò tutto quello che mi chiederà».
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso quasi impercettibile. «Bene. La prima lezione privata sarà domani sera, alle nove. A casa mia. Le manderò l’indirizzo. Si presenti puntuale. E Aiko… venga preparata. A tutto».
La casa della Professoressa Suzuka era esattamente come l’avevo immaginata: un appartamento moderno e impeccabile in cima a un grattacielo, con una vetrata che dominava le luci della città. L’arredamento era essenziale, dominato dai colori nero, bianco e grigio. Non c’era nulla di superfluo.
Mi accolse sulla porta. Non indossava i suoi soliti tailleur, ma un semplice abito nero di seta che le scivolava addosso, rivelando più di quanto nascondesse. I capelli erano sciolti, una cascata di seta nera sulle spalle. Era ancora più bella, e ancora più intimidatoria.
«Entra, Aiko. Togliti le scarpe. E il cappotto».
La sua voce era bassa, quasi un sussurro. Obbedii in silenzio. Mi condusse nel suo studio, simile a quello dell’università ma più intimo. Al centro, però, non c’era una scrivania, ma una poltrona di pelle nera e un pesante tavolo di legno basso.
«Siediti per terra», ordinò.
Mi sedetti sui talloni, sul tappeto. Lei prese posto sulla poltrona, sovrastandomi. Le sue gambe si accavallarono, rivelando uno spacco vertiginoso lungo la coscia.
«Stasera non parleremo di Mishima», disse, la voce calma e controllata. «Parleremo di te. Del tuo corpo. Un intelletto disciplinato richiede un corpo disciplinato. Il tuo corpo è teso, Aiko. Lo vedo da come ti muovi, da come ti siedi. È un corpo che non conosce la sottomissione. E finché il tuo corpo non imparerà a obbedire, la tua mente non potrà mai raggiungere il suo pieno potenziale. Questa è la nostra prima lezione: l'obbedienza assoluta».
Il mio respiro si bloccò. Quello non era un corso di letteratura.
«Alzati e mettiti di fronte a me», continuò. Mi alzai, le gambe che tremavano. «Voglio che ti metta in ginocchio».
Esitai per un microsecondo. I suoi occhi si scurirono. «Ti ho dato un ordine, Aiko».
Caddi in ginocchio davanti a lei. La distanza tra noi era minima. Il suo profumo – un misto di sandalo e qualcosa di pulito, quasi sterile – mi avvolse.
«Bene. Ora, appoggia le mani sulle mie ginocchia». Le sue ginocchia erano fasciate dalla seta liscia e fredda. Appena le toccai, lei si mosse, afferrandomi i polsi con una forza sorprendente. Con un gesto fluido, mi fece girare e mi spinse a pancia in giù sul tappeto, bloccandomi le braccia dietro la schiena. Ero completamente immobilizzata.
«Lezione numero due», sussurrò al mio orecchio, il suo fiato caldo sulla mia pelle. «La resistenza è inutile. Più ti opponi, più stretta sarà la mia presa. Devi imparare a cedere. A lasciarti andare. Capito?».
«S-sì, Professoressa», balbettai, il viso schiacciato contro il morbido tappeto.
«Bene». Sentii la sua mano scivolare lungo la mia schiena, fermandosi sulla curva del mio sedere. Potevo sentire il calore attraverso i miei jeans. «Hai un corpo reattivo. Vediamo quanto è reattiva la tua pelle».
SCHIAFFO.
Il suono secco echeggiò nella stanza silenziosa. Un dolore acuto e bruciante esplose sulla mia natica destra. Rimasi senza fiato.
SCHIAFFO.
Sulla sinistra, questa volta. Più forte. Un gemito mi sfuggì dalle labbra.
«Silenzio», ordinò lei. «Non emetterai un suono a meno che non ti dia il permesso. Conterai solo i colpi. A voce alta e chiara. Ricominciamo. Uno».
SCHIAFFO.
«Uno», sussurrai, la voce rotta.
SCHIAFFO.
«Due…». Le lacrime iniziarono a pungermi gli occhi, ma non erano lacrime di dolore. Erano lacrime di shock, di eccitazione, di una resa che non sapevo di desiderare così tanto. Il rituale continuò, implacabile. La sua mano si abbatteva sulle mie natiche con una precisione ritmica, e io contavo, la mia voce che diventava sempre più un ansimo. Il dolore si stava trasformando, diventando un calore pulsante, una strana forma di piacere umiliante. Stava marchiando il suo territorio, stava scrivendo le sue regole sulla mia pelle.
Quando si fermò, il mio sedere era in fiamme. Mi lasciò i polsi.
«Alzati e guardami», disse.
Mi rimisi in ginocchio, il viso rosso per il pianto e l'umiliazione. Lei mi guardava dall'alto, il volto impassibile, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma scura e trionfante.
«Questo è solo l'inizio, Aiko. La tua educazione è appena cominciata. Ora, spogliati. Lentamente. Voglio vedere il corpo che d'ora in poi mi apparterrà».
Sotto il suo sguardo implacabile, iniziai a obbedire, le dita tremanti che slacciavano i bottoni, la mente svuotata da tutto tranne che dalla sua voce e dalla promessa di una sottomissione così totale da annientare ogni parte di me, per poi ricostruirmi a sua immagine e somiglianza.
Il silenzio nello studio era denso, rotto solo dal mio respiro affannoso e dal fruscio dei miei stessi vestiti. Ogni movimento era un'impresa. Le mie dita, goffe e insensibili, faticavano a slacciare i bottoni della camicetta. Sentivo lo sguardo della Professoressa Suzuka su di me, non lascivo, ma analitico, come quello di uno scienziato che osserva un campione al microscopio. Non mi stava spogliando con gli occhi; mi stava dissezionando.
Feci scivolare la camicetta dalle spalle. L'aria fredda della stanza mi accarezzò la pelle accaldata, facendomi venire la pelle d'oca. Poi toccò ai jeans. Li sbottonai e li abbassai lentamente, rivelando le mutandine di pizzo e, soprattutto, i segni rossi che la sua mano aveva lasciato sulla mia pelle. Per un istante, un'ondata di vergogna mi travolse. Poi, slacciai il reggiseno. Infine, con un'esitazione che mi costò un'occhiata severa da parte sua, abbassai anche l'ultimo velo di tessuto, rimanendo completamente nuda di fronte a lei, in ginocchio sul suo tappeto.
«In piedi», ordinò. La sua voce non ammetteva repliche.
Mi alzai, sentendomi goffa, esposta, vulnerabile come non mai in vita mia. Le braccia mi pendevano inerti lungo i fianchi, non sapendo dove nascondermi.
«Girati. Lentamente».
Obbedii, compiendo una rotazione completa su me stessa. Lei si alzò dalla poltrona per la prima volta, muovendosi con una grazia felina. Si avvicinò, e sentii il suo calore alle mie spalle. Le sue dita fredde mi sfiorarono la schiena, tracciando la linea della mia spina dorsale. Sussultai.
«Ferma», mormorò. «Non un muscolo. Il tuo corpo deve imparare la stasi assoluta, l'immobilità di un oggetto. Solo io ho il diritto di animarlo».
Le sue mani iniziarono un'ispezione metodica. Palparono le mie spalle, le mie braccia, scesero lungo i miei fianchi. La sua non era una carezza, ma una valutazione. Sentii le sue dita premere sulla mia vita, poi sui miei fianchi.
«La struttura è buona», commentò, con lo stesso tono con cui avrebbe giudicato la sintassi di una frase. «Ma sei flaccida. Ti manca tonicità. Da domani, aggiungerai un'ora di allenamento al tuo programma giornaliero. Voglio che questo corpo diventi un tempio di disciplina, non un giardino incolto».
Si spostò di fronte a me. I suoi occhi scuri scrutarono il mio seno, il mio ventre. Un dito tracciò il contorno del mio ombelico, facendomi contrarre i muscoli addominali.
«Hai paura, Aiko?», chiese, vedendo il mio tremito.
«Sì, Professoressa», ammisi a voce bassa.
«Bene. La paura è un eccellente strumento pedagogico. Ti tiene sveglia. Ti rende ricettiva». Si inginocchiò davanti a me, portando il suo viso all'altezza del mio ventre. Il suo sguardo risalì lentamente, fino a incrociare il mio. «Ma la paura non basta. Serve anche il desiderio. E io ti insegnerò a desiderare ciò che decido io, quando lo decido io».
Si alzò e si diresse verso un elegante armadietto di legno laccato nero. Lo aprì, rivelando un interno foderato di velluto rosso. Dentro, disposti con una precisione chirurgica, c'era un arsenale di oggetti che mi fece mancare il respiro. Non erano volgari sex toys di plastica colorata, ma strumenti di una bellezza inquietante: vibratori di vetro nero, plug anali d'acciaio che sembravano gioielli, fruste sottili di cuoio intrecciato, manette di pelle. Erano oggetti che parlavano la sua lingua: controllo, potere, estetica del dolore e del piacere.
Prese un oggetto lungo e sottile, un vibratore di silicone nero opaco, e tornò verso di me.
«Sdraiati sulla schiena», ordinò. «Gambe divaricate».
Il mio corpo si mosse quasi da solo, un automa che rispondeva ai suoi comandi. Mi sdraiai sul tappeto, esponendole la mia totale vulnerabilità. Il cuore mi batteva all'impazzata, un ritmo selvaggio che contrastava con la calma glaciale che mi circondava.
«Voglio che tu guardi», disse, posizionandosi tra le mie gambe. «Voglio che tu veda come il tuo corpo reagisce ai miei stimoli. Non chiudere gli occhi. Mai».
La punta fredda del vibratore mi toccò l'interno coscia. Sussultai, un gemito strozzato in gola. Lei lo fece scivolare lentamente verso l'alto, esplorando la mia pelle con una lentezza esasperante. Quando raggiunse il mio clitoride, lo accese.
Una scossa elettrica mi attraversò. La vibrazione era bassa, profonda, un ronzio che sembrava risuonare direttamente nelle mie ossa. Istintivamente, strinsi le cosce, ma la sua mano libera si posò sul mio ginocchio, fermandomi.
«Rilassati. Apriti. Accetta».
La sensazione era travolgente. Un piacere acuto, quasi doloroso, cominciò a montare dentro di me, un'onda inarrestabile. Mi morsi il labbro per non urlare.
«No», disse lei, leggendomi nel pensiero. «La tua bocca deve rimanere aperta. Il tuo respiro, libero. Non devi soffocare nulla».
Il piacere cresceva, diventava un bisogno disperato. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi, una supernova pronta a esplodere. Stavo per venire, non potevo fermarlo. Ma nel momento esatto in cui stavo per raggiungere l'apice, lei spense il vibratore e lo allontanò.
Il mio corpo si contorse per la frustrazione. Un lamento mi uscì dalle labbra. Ero sospesa in un limbo intollerabile, un abisso di desiderio insoddisfatto.
«Vedi, Aiko?», la sua voce era calma, didattica. «Il tuo corpo è un animale stupido. Brama il rilascio, la gratificazione immediata. Ma io ti insegnerò il controllo. Tu verrai solo quando io ti darò il permesso. Il tuo orgasmo non ti appartiene più. È mio. Un privilegio che ti concederò solo quando te lo sarai guadagnato».
Lo riaccese. Di nuovo, mi portò sull'orlo del baratro, facendomi sentire le prime contrazioni dell'orgasmo, solo per poi fermarsi di nuovo. E poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta, la frustrazione era più acuta, il desiderio più lancinante. Il piacere era diventato una forma di tortura squisita. Stavo piangendo in silenzio, le lacrime che scivolavano sulle tempie, il corpo scosso da tremiti incontrollabili.
«Basta... per favore...», supplicai, la voce irriconoscibile.
I suoi occhi si indurirono. «Non sarai tu a decidere quando è abbastanza. Non supplicherai mai per farmi smettere. Supplicherai per avere di più. Supplicherai per avere il permesso di venire. Dillo».
Ero distrutta, svuotata di ogni volontà. C'era solo lei, il suo potere, e il mio corpo che urlava.
«La prego, Professoressa... mi dia il permesso...», sussurrai, l'ultima briciola di orgoglio sbriciolata.
Mi guardò per un lungo istante, un giudice che pondera una sentenza. Poi, un sorriso quasi crudele le increspò le labbra.
«Guadagnatelo».
Riportò il vibratore su di me, questa volta premendo con più forza, aumentando l'intensità delle vibrazioni. Era troppo. L'onda tornò, più forte di prima, un tsunami di sensazioni. Stavo per perdere il controllo, ma il suo sguardo mi teneva prigioniera.
«Ora, Aiko», sussurrò. «Puoi venire. Per me».
Fu come se avesse aperto una diga. L'orgasmo mi travolse con una violenza inaudita, una scarica elettrica che mi fece inarcare la schiena e urlare il suo nome. Il mio corpo fu scosso da spasmi profondi e incontrollabili, un rilascio così totale da lasciarmi senza fiato, tremante e svuotata sul suo tappeto.
Quando riaprii gli occhi, lei era in piedi sopra di me, che mi guardava con un'espressione di fredda soddisfazione. Aveva spento e pulito il vibratore, riponendolo al suo posto. Era di nuovo la Professoressa Watanabe, composta e inavvicinabile.
«La lezione è finita. Rivestiti», disse, con un tono che non lasciava trasparire nulla di ciò che era appena accaduto. «La prossima volta, lavoreremo sulla tua capacità di accettare oggetti più grandi. Voglio che il tuo corpo impari a essere un recipiente vuoto, pronto a essere riempito dalla mia volontà. Ci vediamo giovedì, in aula. E non aspettarti un trattamento di favore. Anzi».
Mi lasciò lì, nuda e distrutta sul pavimento del suo studio. Mentre mi rivestivo con gesti lenti e doloranti, capii. Quello era il mio nuovo mondo. Un mondo dove il dominio accademico e quello sessuale erano diventati una cosa sola. Un mondo dove io non ero più Aiko, la studentessa. Ero la sua creatura. E non desideravo altro.
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