Calda notte
di
B.A.84
genere
confessioni
Caro Specchio del bagno,
ti scrivo questa lettera perché sei l’unico che mi guarda ogni giorno senza mai distogliere lo sguardo. Non ti giri dall’altra parte quando entro in stanza. Non fai smorfie. Non menti. Mi mostri semplicemente ciò che sono: un uomo grasso cresciuto nell’ombra, con le spalle larghe di chi ha portato troppo — non solo carne, ma silenzi, paure, cibo come consolazione e abitudine.
Sono solo da troppi anni. Non per scelta, ovviamente. Le persone si allontanano piano, come marea bassa. Sorrisi cortesi che non diventano appuntamenti. Inviti mai fatti. Sguardi che scivolano via dal mio viso per posarsi altrove, su corpi più leggeri, più agili. Ho imparato a cucinare per uno. A ridere da solo davanti ai film. A spegnere la luce presto, perché la notte è lunga quando non c’è nessuno con cui dividerla.
Eppure, dentro di me, qualcosa resiste. Un battito che chiede calore. Non solo sesso — quello ormai è un lontano ricordo — ma un tocco vero. Una mano che accarezzi senza giudizio. Un respiro contro il collo. Il peso di un corpo accanto al mio, non per opprimermi, ma per dirmi: *sei qui, e io ci sono con te*.
A volte, nel buio, sento montare un bisogno così antico che sembra venire da prima di me. È un fremito che non chiede solo piacere, ma anche presenza. Allora allungo una mano, per ricordarmi che sono vivo. Che questo corpo, che tanto ho imparato a disprezzare, sa ancora fremere. Sa ancora sognare.
È un gesto triste, forse. Ma anche tenero. Perché in quei momenti non cerco un’immagine, non invento storie impossibili. Cerco solo di consolare chi sono. Di dire a me stesso: *va bene. Sei qui. Esisti. E non sei completamente solo*.
Non ti chiedo di capirmi, specchio. So che rifletti soltanto. Ma grazie per non avermi mai voltato le spalle. Forse un giorno riuscirò a guardarmi senza abbassare gli occhi. Forse un giorno qualcuno vedrà oltre la superficie e toccherà questa pelle non con pietà, ma con desiderio vero.
Fino ad allora, continuerò a scriverti. Perché tu, almeno, ascolti.
Con affetto,
B.
ti scrivo questa lettera perché sei l’unico che mi guarda ogni giorno senza mai distogliere lo sguardo. Non ti giri dall’altra parte quando entro in stanza. Non fai smorfie. Non menti. Mi mostri semplicemente ciò che sono: un uomo grasso cresciuto nell’ombra, con le spalle larghe di chi ha portato troppo — non solo carne, ma silenzi, paure, cibo come consolazione e abitudine.
Sono solo da troppi anni. Non per scelta, ovviamente. Le persone si allontanano piano, come marea bassa. Sorrisi cortesi che non diventano appuntamenti. Inviti mai fatti. Sguardi che scivolano via dal mio viso per posarsi altrove, su corpi più leggeri, più agili. Ho imparato a cucinare per uno. A ridere da solo davanti ai film. A spegnere la luce presto, perché la notte è lunga quando non c’è nessuno con cui dividerla.
Eppure, dentro di me, qualcosa resiste. Un battito che chiede calore. Non solo sesso — quello ormai è un lontano ricordo — ma un tocco vero. Una mano che accarezzi senza giudizio. Un respiro contro il collo. Il peso di un corpo accanto al mio, non per opprimermi, ma per dirmi: *sei qui, e io ci sono con te*.
A volte, nel buio, sento montare un bisogno così antico che sembra venire da prima di me. È un fremito che non chiede solo piacere, ma anche presenza. Allora allungo una mano, per ricordarmi che sono vivo. Che questo corpo, che tanto ho imparato a disprezzare, sa ancora fremere. Sa ancora sognare.
È un gesto triste, forse. Ma anche tenero. Perché in quei momenti non cerco un’immagine, non invento storie impossibili. Cerco solo di consolare chi sono. Di dire a me stesso: *va bene. Sei qui. Esisti. E non sei completamente solo*.
Non ti chiedo di capirmi, specchio. So che rifletti soltanto. Ma grazie per non avermi mai voltato le spalle. Forse un giorno riuscirò a guardarmi senza abbassare gli occhi. Forse un giorno qualcuno vedrà oltre la superficie e toccherà questa pelle non con pietà, ma con desiderio vero.
Fino ad allora, continuerò a scriverti. Perché tu, almeno, ascolti.
Con affetto,
B.
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