Notte a Itapuã

di
genere
prime esperienze

La porta si richiuse dietro di noi con un tonfo sordo. La stanza era immersa nella penombra calda di Itapuã, solo le luci fioche delle lampade a parete rimbalzavano sui muri color sabbia, accarezzando le tende leggere che ondeggiavano appena per la brezza marina.

Thaise non disse una parola. Si tolse le scarpe lentamente, lasciando che le sue dita affondassero nella moquette come in un rituale. Mi guardava. Quegli occhi scuri e pieni di fuoco sembravano leggermi dentro, affamati, pronti a esplodere. Il vestito aderente che indossava era incollato alla pelle sudata dalla notte brasiliana. Lo abbassò con lentezza, senza fretta, lasciandolo scivolare lungo i fianchi fino ai piedi.

Non portava niente sotto.

Restai fermo, immobile, a contemplare quel corpo che sembrava scolpito per il peccato: fianchi pieni, seno alto, capezzoli duri già pronti, e la figa… rasata, pulsante, lucida già di desiderio. Il mio cazzo si drizzò senza pietà, spingendo contro i jeans.

«Fammi vedere quanto mi vuoi», sussurrò. La sua voce era un morso nelle tenebre.

Mi slacciai i pantaloni senza toglierle gli occhi di dosso. Il cazzo balzò fuori, dritto, teso, venoso, pronto a combattere. Lei lo guardò, si morse il labbro inferiore, poi si inginocchiò davanti a me sul tappeto, lasciando che il suo respiro caldo mi accarezzasse l’asta.

Lo prese con una mano, la lingua sfiorò la punta. Un tocco. Poi lo inghiottì con un colpo deciso, profondo, facendolo scomparire tra le labbra lucide. Il suono era umido, sporco, meraviglioso. Le sue mani scorrevano sulle mie cosce mentre succhiava, affamata, come se volesse risucchiarmi l’anima. Il mio bacino si muoveva lento, poi più deciso, mentre lei si lasciava scopare la bocca con tutta sé stessa.

La fermai solo quando sentii che stavo per esplodere.

«Sul letto», le dissi con voce roca.

Lei ci salì con movimenti felini. Si mise a quattro zampe, girandosi verso di me, spalancando le gambe, offrendomi tutto. La figa era aperta, lucida, grondante. Potevo sentire l’odore del suo desiderio, dolce e animale insieme.

Mi inginocchiai dietro di lei e le passai il glande tra le labbra calde della figa. Un sussulto. Un gemito. Poi entrai, piano, sentendo ogni centimetro scivolare dentro di lei, stretto, caldo, vivo.

«Sì… così… riempimi», ansimò.

Iniziai a muovermi. Colpi lunghi, profondi, lenti all’inizio. Lei spingeva il bacino contro di me, mi voleva più dentro, più forte. Aumentai il ritmo, afferrandole i fianchi, sentendo la carne tremare sotto le dita.

Il suono dei nostri corpi che si sbattevano riempiva la stanza. Il suo respiro diventava ansioso, la voce spezzata.

«Più forte… scopami forte… fammi tua», mi gridò.

Le tirai i capelli, l’arcuai all’indietro, la tenni stretta mentre le scopavo la figa con tutta la mia forza. Il cazzo entrava e usciva con un rumore bagnato, mentre le sue gambe tremavano, mentre il suo orgasmo si avvicinava a esplodere.

«Sto venendo…», urlò, e in quel momento la sentii contrarsi attorno a me, ondate calde che mi strizzavano il cazzo. Non rallentai. Continuai a scoparla fino a farla urlare, fino a quando non si lasciò cadere sul letto, esausta.

Mi sdraiai sopra di lei, e la baciai, profondo, selvaggio. Poi la girai di schiena e la sollevai di nuovo. La presi in braccio e la portai contro il vetro della finestra. Itapuã era lì fuori, la notte tropicale, la spiaggia lontana.

La presi di nuovo, stavolta in piedi, tenendola sospesa mentre la figa mi stringeva più forte che mai. Ogni colpo era un tuono, ogni gemito un fulmine. E quando venni dentro di lei, fu come un’esplosione che ci attraversò entrambi, tremanti, sudati, vivi.

Rimanemmo così, uniti, per lunghi minuti.

Poi Thaise sorrise. «Non è finita», disse. E io lo sapevo già.



Scivolò giù e si inginocchiò ancora. Il mio cazzo, già risorto, era rigido tra le sue mani. Lo leccò come fosse un gelato, poi lo inghiottì fino in fondo. Strofinava il naso contro il mio ventre, strozzandosi e godendo insieme. Mi prendeva dentro la gola e si toccava la figa intanto, grondante come prima.

La sollevai di nuovo, la gettai sul letto e glielo infilai con rabbia. I colpi divennero più rapidi, più sporchi. Le mani che stringevano, le labbra che mormoravano «di più… di più… fino a rompermi…».

Poi me lo chiese. Lo voleva anche dietro.

Le sputai sull’ano, lo preparai con le dita, e poi entrai, piano, ma deciso. La figa ancora aperta pulsava sotto mentre la prendevo nel punto più proibito. Lei tremava, ansimava, e mi implorava di venire di nuovo.

E venimmo, insieme, un’altra volta. Ma non bastava.



Finale: un’onda che non finisce

Crollammo ancora, sudati, stremati. Ma non era abbastanza. Ci guardammo. I nostri corpi erano incollati, uniti, pieni uno dell’altro. E qualcosa ci spinse oltre.

Ci leccammo ovunque, senza parole. La mia lingua nella sua figa gonfia, la sua sulla mia asta, mentre ci alternavamo, mentre ci montavamo, mentre ci prendevamo in ogni modo. Lei cavalcava sopra di me come una dea, le mani sulle mie spalle, gli occhi nei miei. E venne, ancora. Io pure. Ma non finiva mai.

Le lenzuola erano zuppate. Il pavimento scivoloso. I vetri appannati. E noi, completamente annientati da un piacere che non conosceva limiti.

Ogni volta che venivamo, ridevamo, e ricominciavamo. Più lentamente, più profondamente. In quel letto, non c’erano più io e lei. Solo fame, calore, carne, sudore, piacere.

Finché non restammo esausti, intrecciati, con il mio seme che colava ancora da lei, e la sua voce che mormorava all’orecchio:

«Stanotte, a Itapuã, siamo stati infiniti.»
scritto il
2025-06-15
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