Era mio padre 1
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
Capitolo 1 – L’istruttore
Non c’era amore. Non c’era dolcezza. Solo legno freddo contro la pelle e sangue tra le cosce.
Me lo ricordo bene il giorno in cui è tornato.
Aldo.
Il bastardo.
Lo chiamavano “zio”, ma nessuno sapeva da dove cazzo venisse davvero. Forse era mio parente. Forse no. A me bastava quello sguardo. Quella voce. Quella presenza. Era un lupo con mani da contadino.
Uno che non ti chiede se sei pronta. Ti scardina le gambe, ti apre la bocca e ti prende tutto quello che vuole.
Quel giorno aveva una camicia nera sbottonata, le maniche rimboccate, le mani callose. Gli occhi puntati su di me come una lama nel ventre. Avevo le tette dritte sotto la maglietta e la fica umida da giorni. Appena lo vidi mi venne da sorridere. Ma non lo feci. Mi morsi la lingua in gola solo l’idea che mi potesse annusare. Penetrare.
E così accadde.
Non subito.
Prima mi fece aspettare. Come si aspetta la punizione. Quella giusta. Quella che ti cambia.
Un biglietto. Scritto con una calligrafia storta e lenta, come un taglio su carta ruvida:
«Stasera. Dietro il noce.»
Mi tremavano le gambe. Non per paura. Ma per fame.
Ci andai con la figa già aperta, come un animale che sa che sta per essere spellato. Senza mutande, con la pelle ancora sporca di sudore e terra.
Mi aspettava lì. Seduto. Un coltello infilato nella cintura.
Mi alzò la gonna. Non mi parlò. Non mi accarezzò. Mi sputò sulle labbra della fica.
«Troppo pulita. Così non impari un cazzo.»
Mi afferrò i capelli, mi strinse il cranio e mi sbatté la faccia sul tronco.
Il legno graffiava. Il muschio mi entrò nelle narici.
Poi sentii la lama sfiorare la schiena.
Non tagliò. No.
La usò per spingermi ad aprire le gambe.
«Resta così. Se chiudi le cosce, ti levo la pelle.»
Mi strinse le caviglie con una corda ruvida. Mi fece stare piegata.
Nuda, umiliata, in offerta.
Poi iniziò.
Non mi scopò. No. Prima mi marcò.
Con un ramo spezzato. Me lo passò tra le labbra della figa. Duro, ruvido, ancora bagnato di linfa.
Lo girò.
Lo premette.
Mi fece gridare.
E quando tentai di spostarmi, mi sferrò uno schiaffo sulla schiena che mi fece perdere il fiato.
«Devi imparare a godere nella merda.»
E lo fece. Me lo infilò. A forza. Il ramo. Dentro.
Gridai.
Ma non mi fermai.
Poi si sbottonò. Il cazzo uscì duro come un bastone. Più grosso del ramo. Più grosso del mio dolore.
Mi prese. Da dietro.
Un colpo. Secco.
Il secondo, più profondo.
Il terzo… mi squarciò. Lo sentii. La figa si aprì.
Forse mi stavo lacerando. Forse no. Non mi importava.
Ogni botta era una bestemmia. Ogni respiro era veleno.
«Chi sei?» mi urlò contro, mentre mi scopava come una bestia nel bosco.
«La tua cagna…» dissi a denti stretti.
«No. Sei nessuno. Sei un buco. Sei una carne da addestrare.»
Sborrò dentro. Senza parole. Solo un grugnito. Come un animale.
Io sentii il calore dentro e l’odore ferroso della mia figa sporca.
Mi lasciò lì. Legata. Sporca. Sanguinante. Tremante.
Non c’era amore. Non c’era dolcezza. Solo legno freddo contro la pelle e sangue tra le cosce.
Me lo ricordo bene il giorno in cui è tornato.
Aldo.
Il bastardo.
Lo chiamavano “zio”, ma nessuno sapeva da dove cazzo venisse davvero. Forse era mio parente. Forse no. A me bastava quello sguardo. Quella voce. Quella presenza. Era un lupo con mani da contadino.
Uno che non ti chiede se sei pronta. Ti scardina le gambe, ti apre la bocca e ti prende tutto quello che vuole.
Quel giorno aveva una camicia nera sbottonata, le maniche rimboccate, le mani callose. Gli occhi puntati su di me come una lama nel ventre. Avevo le tette dritte sotto la maglietta e la fica umida da giorni. Appena lo vidi mi venne da sorridere. Ma non lo feci. Mi morsi la lingua in gola solo l’idea che mi potesse annusare. Penetrare.
E così accadde.
Non subito.
Prima mi fece aspettare. Come si aspetta la punizione. Quella giusta. Quella che ti cambia.
Un biglietto. Scritto con una calligrafia storta e lenta, come un taglio su carta ruvida:
«Stasera. Dietro il noce.»
Mi tremavano le gambe. Non per paura. Ma per fame.
Ci andai con la figa già aperta, come un animale che sa che sta per essere spellato. Senza mutande, con la pelle ancora sporca di sudore e terra.
Mi aspettava lì. Seduto. Un coltello infilato nella cintura.
Mi alzò la gonna. Non mi parlò. Non mi accarezzò. Mi sputò sulle labbra della fica.
«Troppo pulita. Così non impari un cazzo.»
Mi afferrò i capelli, mi strinse il cranio e mi sbatté la faccia sul tronco.
Il legno graffiava. Il muschio mi entrò nelle narici.
Poi sentii la lama sfiorare la schiena.
Non tagliò. No.
La usò per spingermi ad aprire le gambe.
«Resta così. Se chiudi le cosce, ti levo la pelle.»
Mi strinse le caviglie con una corda ruvida. Mi fece stare piegata.
Nuda, umiliata, in offerta.
Poi iniziò.
Non mi scopò. No. Prima mi marcò.
Con un ramo spezzato. Me lo passò tra le labbra della figa. Duro, ruvido, ancora bagnato di linfa.
Lo girò.
Lo premette.
Mi fece gridare.
E quando tentai di spostarmi, mi sferrò uno schiaffo sulla schiena che mi fece perdere il fiato.
«Devi imparare a godere nella merda.»
E lo fece. Me lo infilò. A forza. Il ramo. Dentro.
Gridai.
Ma non mi fermai.
Poi si sbottonò. Il cazzo uscì duro come un bastone. Più grosso del ramo. Più grosso del mio dolore.
Mi prese. Da dietro.
Un colpo. Secco.
Il secondo, più profondo.
Il terzo… mi squarciò. Lo sentii. La figa si aprì.
Forse mi stavo lacerando. Forse no. Non mi importava.
Ogni botta era una bestemmia. Ogni respiro era veleno.
«Chi sei?» mi urlò contro, mentre mi scopava come una bestia nel bosco.
«La tua cagna…» dissi a denti stretti.
«No. Sei nessuno. Sei un buco. Sei una carne da addestrare.»
Sborrò dentro. Senza parole. Solo un grugnito. Come un animale.
Io sentii il calore dentro e l’odore ferroso della mia figa sporca.
Mi lasciò lì. Legata. Sporca. Sanguinante. Tremante.
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