Di nuovo noi...quinta parte

di
genere
etero

Il silenzio che seguì fu denso, come se persino l’aria si fosse fatta più carica. Claudia restava appoggiata allo schienale della poltrona, la pelle ancora sensibile al minimo movimento, il cuore che batteva in un ritmo profondo, quasi sconosciuto. Non parlava, non ancora. Aveva bisogno di ascoltare il corpo, quello che tremava appena, e la mente, che faticava a decifrare ciò che stava sentendo.

Eva era in piedi, un passo più in là, la schiena contro la parete del camerino, la canottiera ancora sgualcita, il trucco un po’ meno perfetto di prima ma lo sguardo più fiero, più vivo. Con movimenti lenti, prese a rimettersi in ordine, infilando i leggings con la naturalezza di chi non ha nulla da nascondere, e tutto da mostrare. Ogni suo gesto sembrava studiato, ma naturale, come se vivesse in perfetto accordo con ciò che era.

Claudia la osservava in silenzio, ipnotizzata. Dentro di lei qualcosa si muoveva: non solo il ricordo del piacere, ma la consapevolezza — netta, quasi vertiginosa — di aver appena varcato una soglia. Non c’erano né vergogna né rimorso. Solo un senso profondo di vulnerabilità nuova, inaspettata, quasi timida.

E fu proprio quella fragilità, così insolita per lei, che la spinse a rompere il silenzio.

«Non mi aspettavo… questo. Così.»

Eva, senza voltarsi, sorrise. «Lo so.»

«È stato… lungo. Intenso. Mi sento… diversa.»

Eva si girò, le si avvicinò senza fretta, con passo morbido. Si chinò leggermente verso di lei e le posò una mano sul ginocchio, con una leggerezza quasi affettuosa. «Perché sei diversa. Non perché hai fatto qualcosa di nuovo. Ma perché ti sei lasciata andare. Senza maschere.»

Eva si sollevò lentamente, le dita ancora intrecciate a quelle di Claudia. «Aspettami qui un momento» disse con un mezzo sorriso, quello che prometteva segreti ma non li svelava subito. La luce morbida del camerino accarezzava la curva dei suoi fianchi mentre usciva in punta di piedi, lasciando dietro di sé una scia lieve di profumo e presenza.

Claudia restò immobile, ancora avvolta da una calma irreale. Non sapeva cosa aspettarsi, ma non aveva alcuna intenzione di muoversi.

Pochi minuti dopo, Eva rientrò con una piccola scatola nera lucida, legata con un sottile nastro dorato. I suoi occhi verdi scintillavano, ma c’era qualcosa di più serio, quasi cerimoniale, nel modo in cui la porgeva.

«Per te,» disse con voce morbida. «Dentro c’è qualcosa che parla di me. E anche un messaggio per te.»

Claudia prese la scatola tra le mani. Era più pesante di quanto sembrasse, compatta, elegante. Il suo cuore rallentò un istante, come se l’oggetto avesse un’energia propria.

Eva si chinò appena, portando le labbra vicino al suo orecchio. Il tono era basso, rotondo, quasi ipnotico.
«Se un giorno deciderai che mi vuoi rivedere… basterà aprirla. Ma sappi che, la prossima volta, non sarà così breve. E non sarai tu a decidere come andrà.»

Eva restava ancora vicina, una mano sulla guancia di Claudia, l’altra che, con delicatezza disarmante, le accarezzava il fianco nudo. Il corpo della donna era ancora avvolto solo dalla canottiera in tulle, sottile e trasparente, che lasciava poco all’immaginazione e molto alla contemplazione. Il bacio arrivò silenzioso, pieno, con le labbra che si cercavano senza fretta. Le dita della commessa salirono lungo il busto fino a posarsi sul seno, lento e profondo il gesto, più intimo di mille parole.

Quando il bacio si staccò, Eva non si mosse. Solo un sussurro, caldo e rotondo, accarezzò l’orecchio di Claudia:
«Non è una minaccia… è solo una promessa.»

Fu solo nel momento in cui si staccò davvero che notò la macchia, una chiazza chiara sul tulle, evidente ora che la luce del camerino tornava a dominare la scena.

Sollevò un sopracciglio, maliziosa.
«Mi sa che questa canottiera ha avuto un piccolo… battesimo. Difficile da rimettere in vendita.»

Claudia abbassò lo sguardo e sorrise. Prese la stoffa tra le dita, la esaminò per un istante, poi senza dire nulla se la sfilò con naturalezza. Il gesto fu elegante, quasi lento, come se stesse celebrando la chiusura di un rito. Arrotolò la canottiera e la infilò con cura nella borsetta.
«Grazie del regalo» mormorò, senza aggiungere altro.

Eva prese la giacca in pelle, ancora poggiata sullo schienale dello sgabello, e la aiutò a rimetterla. Le mani le scivolarono sulle braccia nude, poi sistemarono i lembi davanti al petto. Ma Claudia, prima che Eva potesse chiudere il bottone, posò una mano leggera sulla sua.
«No… lasciala così.»

Lo sguardo tra loro fu breve ma carico. Poi Claudia si voltò, aprì la tenda del camerino e uscì. Marco era lì, in piedi, come se non si fosse mai mosso. Lo guardò, gli prese il braccio con gesto affettuoso e complice, e insieme si diressero verso l’uscita.

Attraversarono il negozio con passo lento, consapevole, silenziosi ma legati da una tensione evidente. La luce filtrava dal centro commerciale già più rarefatto, e la serranda, abbassata a metà da Eva prima di condurla nel camerino, ora creava una soglia simbolica: il passaggio tra ciò che era stato e ciò che sarebbe venuto.

Claudia si chinò appena per superarla, il movimento elegante e fluido. In quel gesto, la giacca aperta si spostò quanto bastava a rivelare alla luce esterna la visione del suo corpo, i seni liberi e fieri, accarezzati dal raggio obliquo di un neon commerciale.

Fu un attimo. Ma chi era lì a guardare — impiegati, commessi, passanti — trattenne il respiro. Alcuni scrollarono le spalle fingendo indifferenza, altri si fermarono fingendo distrazione. Ma lo stupore era nell’aria, denso come profumo lasciato dietro una scia.

Eva, rimasta dietro il banco, osservava in silenzio. Un braccio piegato, la mano che sosteneva il mento, lo sguardo fisso sulla donna che stava uscendo, e sull’uomo che l’accompagnava con fierezza muta.

Appena usciti dal negozio, Claudia si fermò un istante sotto la luce pallida del corridoio del centro commerciale. Il tempo sembrava essersi contratto, dilatato, sfilacciato. Guardò l’orologio digitale appeso sopra uno degli ingressi principali e strabuzzò gli occhi.

«Ma… è già pomeriggio inoltrato?» chiese sorpresa, rallentando il passo.

Marco annuì con un mezzo sorriso, ancora con lo sguardo acceso da tutto ciò che aveva appena vissuto — e visto. «Direi proprio di sì. Sei stata nel camerino con Eva per due ore filate.»

Claudia si voltò di scatto verso di lui, le labbra socchiuse per la sorpresa. «Due ore?»

Lui annuì di nuovo, più lento, come se stesse pesando il ricordo.

Lei fece per rispondere, ma un lieve indolenzimento, profondo e diffuso nel basso ventre, le ricordò che sì, poteva essere davvero passato così tanto tempo. Un sorriso le si disegnò sulle labbra, tra l’incredulità e la compiaciuta consapevolezza.

Poi si voltò verso di lui, gli occhi lucidi e ancora ombreggiati dal trucco un po’ sfatto, e lo scrutò come a cercare qualcosa in fondo al suo sguardo.

«Hai gradito lo spettacolo?» chiese piano, quasi provocatoria.

Marco la guardò dritta negli occhi. Non ci fu esitazione, né ironia. Solo una parola, pronunciata con voce roca e piena:

«Divine.»

Claudia rise appena, piegando la testa sul suo braccio come a nascondere l’effetto di quella risposta.

Il ritorno a casa fu silenzioso, ma non vuoto. Tra Claudia e Marco aleggiava una sorta di intimità nuova, più densa, fatta di sguardi rapidi e respiri lenti. Una cena leggera, consumata quasi distrattamente, servì più a riportarli alla realtà che a placare la fame — quella era già stata saziata, abbondantemente.

Quando finalmente si ritrovarono nel letto, lei lo guardò con un misto di dolcezza e colpa. Il suo corpo era esausto, ma sapeva che anche Marco aveva bisogno — non solo di un gesto fisico, ma di essere riportato dentro quella complicità.

Così si avvicinò, lo baciò con lentezza e lo condusse verso un piacere più morbido, offerto solo con le labbra e la dedizione di chi conosce a fondo il corpo che ama. Lui non disse nulla, ma la tensione che lo attraversava parlò per lui, sciogliendosi in un silenzio pieno di gratitudine.

Il mattino seguente fu indulgente. Claudia si svegliò tardi, la luce già piena nella stanza. Si stiracchiò lentamente, e subito il corpo le restituì il ricordo del giorno precedente. Dolorini piacevoli si irradiavano dalla schiena, dai fianchi, dalle cosce. Ogni fibra sembrava aver trattenuto un frammento di piacere.

Restò un momento distesa, godendosi quella strana euforia stanca, poi si voltò verso il comodino. La borsetta era lì, e dentro, come un richiamo sottile, la scatola nera che Eva le aveva consegnato con quel sorriso enigmatico.

La prese tra le mani e sciolse lentamente il nastro dorato. Il coperchio si sollevò con un piccolo fruscio.

Dentro, adagiato su un velo di tessuto nero, c’era un collare in pelle, lucido e robusto, sagomato con cura, impreziosito da anelli metallici dorati. Una catenella, fine ma resistente, era agganciata a un piccolo moschettone, e terminava con una maniglia lavorata in metallo chiaro, curva come una promessa sussurrata.

Sotto al collare, un bigliettino scritto a mano.

Claudia lo prese con delicatezza. Il cartoncino era spesso, elegante. Al centro, con una calligrafia elegante ma decisa, c’era solo un numero di cellulare.

Restò a fissare il bigliettino per un tempo indefinito, il numero inciso nella mente con la stessa chiarezza del profumo che Eva aveva lasciato sulla sua pelle. Poi, lentamente, sollevò di nuovo il collare dalla scatola. La pelle era morbida, cedevole al tatto, ma rivelava una solidità inconfondibile. I dettagli dorati, discreti ma preziosi, catturavano la luce del mattino.

Si alzò dal letto, ancora scalza, e raggiunse lo specchio lungo del corridoio. Si osservò. La camicia da notte, morbida e aperta sul décolleté, lasciava spazio all’immaginazione. Ma quello che stava per fare non aveva nulla a che vedere con l’immaginazione.

Sollevo i capelli e, con calma, si mise il collare. Lo chiuse con decisione, sentendo lo scatto metallico della fibbia dietro la nuca. La pelle del cinturino aderì al collo come un abbraccio silenzioso. Si guardò: il metallo rifletteva la luce con eleganza, la catena dorata pendeva sul davanti, come un simbolo, un’eco delle parole di Eva.

Si voltò leggermente, trovando l’angolazione giusta, e con il telefono si scattò una foto. Solo le spalle, il collo, il collare ben visibile. Nulla di esplicito. Tutto suggerito. Ma il messaggio, quello, era chiarissimo.

La guardò per un attimo, quella foto. Poi, senza titubare, aprì l'app di messaggistica, digitò il numero con lentezza quasi cerimoniale… e allegò l’immagine.

Premette “Invia”.

Pochi minuti dopo il cellulare vibrò sul comodino con un suono breve, secco. Claudia si voltò subito, il cuore che riprese a battere più in fretta, come se avesse atteso quel segnale da ore, non da pochi minuti.

Lo schermo mostrava solo il numero. Nessun nome.

Aprì il messaggio.

L’immagine si caricò lentamente, come se il tempo stesso si fosse rallentato per aumentarne l'effetto. Comparve un dettaglio: un seno pieno, femminile, contenuto da un reggiseno in pizzo nero a mezza coppa, che lasciava scoperti i capezzoli. Lì, proprio al centro, due piercing brillavano al sole, piccoli anelli d’argento che scintillavano come gioielli su un segreto svelato.

Poi, in alto, le labbra: carnose, a cuore, truccate di un rosso profondo, tese in un bacio muto verso l’obiettivo. La foto finiva lì, come un invito, come una porta aperta su un mondo che prometteva bellezza, potere e sottomissione in un equilibrio ipnotico.

Il telefono vibrò ancora tra le mani di Claudia. Sullo schermo: videochiamata in arrivo.

Esitò un istante. Era in piedi, ancora scalza, con la sottoveste nera che le accarezzava le cosce e il collare di pelle ben allacciato al collo. I capelli scompigliati ricadevano sulle spalle, una sensualità naturale, senza filtri.
Sorrise, accettò la chiamata.

Eva apparve subito. L’inquadratura era ravvicinata, a mezzo busto. I suoi capelli biondi e lisci scendevano perfettamente ordinati sulle spalle. Indossava una camicetta in raso, color cipria, annodata in vita, con i primi bottoni slacciati quel tanto che bastava per mostrare chiaramente il reggiseno nero a balconcino, quello della foto. I capezzoli, trafitti da piercing, si intuivano appena sotto la trama lucida del tessuto. Le labbra a cuore, vestite di rosso scuro, si curvarono in un sorriso che sapeva di complicità e provocazione.

«Buongiorno, bellezza» disse, con voce calda, quasi musicale.

Claudia si spostò leggermente dallo specchio, tenendo il telefono all’altezza del petto. Il collare rifletteva la luce e la sottoveste lasciava trasparire l’ombra morbida del suo corpo ancora indolenzito. I capelli sciolti le cadevano disordinati sulle spalle, ma il suo sguardo era vivo, acceso.

«Ti ho svegliata?» domandò Eva.

«No… ero sveglia. Stavo solo guardando… il giorno che comincia. Con altri occhi.»

Eva si chinò un poco verso la fotocamera, senza perdere il sorriso. «E hai pensato bene di cominciare così.»

Claudia non rispose. Sollevò appena il telefono, mostrando il collare. «Mi sembrava giusto rispondere alla tua scatola.»

«Hai fatto molto di più. Ora sei dentro.»

Un silenzio sottile. Poi Claudia disse, con un tono meno sicuro: «Devo parlarne con Marco. È parte di me. E io… be’, sono tutta un livido. Ovunque.»

Eva rise piano. «È stato solo un primo assaggio. Ma sì, sei stata… ben lavorata.»

Fu in quel momento che una nuova notifica illuminò lo schermo. Claudia la guardò, ancora con Eva in linea.

Una foto.
Aprì.

Un attimo di respiro trattenuto. Poi l’immagine comparve: il punto vita di Eva, leggings di pelle neri, lucidi, il tessuto visibilmente tirato a segnare una presenza sotto la superficie, evidente, viva, impossibile da ignorare. La tensione era più che un messaggio: era un richiamo.

Dall’altra parte, Eva non aveva bisogno di spiegare.
La voce si abbassò, più roca, più scura.
«L’hai vista.»

Claudia annuì lentamente, le labbra socchiuse.

«Ho ancora voglia di te» mormorò Eva.
«Ma la prossima volta… non ci sarà più fretta. E non sarai tu a decidere quando basta.»

Il silenzio tra loro fu lungo solo un battito. Claudia tenne lo sguardo fisso sullo schermo, ancora illuminato dalla figura magnetica di Eva. Ma qualcosa nei suoi occhi era cambiato. Era la stessa donna che aveva vissuto l’estasi del giorno prima, la stessa che indossava un collare come segno di un gioco iniziato. Eppure, ora… era anche un’altra.

Serrò la mascella. Prese fiato. E parlò con una voce diversa, più bassa, ma tagliente come vetro levigato.

«Eva, ascoltami bene. Perché non lo ripeterò due volte.»

L’altra sullo schermo inarcò un sopracciglio, ma non disse nulla.

«Non fraintendere ciò che hai visto in me. Non confondere il mio desiderio di esplorare con l’idea che io sia disposta a cedere la mia libertà. Quello che è successo tra noi è stato meraviglioso. Sconvolgente. E ti ringrazio per questo. Ma sono io a decidere. Sempre.»

Si avvicinò leggermente alla videocamera, abbassando appena il tono.

«Sono io che mi sono concessa. Io che ho scelto di lasciarmi toccare, esplorare, piegare persino, per il nostro piacere. Ma era una mia decisione. Non frutto di controllo, non sottomissione vera. Un gioco. Un gioco che conosco bene, che so maneggiare. E che padroneggio quando decido di abbandonarmi.»

Eva non interruppe. Ma lo sguardo si fece più vigile, più attento.

Claudia continuò, il petto che si sollevava sotto la sottoveste, il collare che ora sembrava più un ornamento che un vincolo.

«Nella mia vita, nel mio corpo, nel mio letto, non c’è spazio per chi pensa di poter comandare. Io posso seguire, sì. Posso anche inginocchiarmi. Ma solo se scelgo di farlo. Non accetto minacce, anche se mascherate da promesse. Non accetto imposizioni, anche se dette con voce morbida.»

Fece una pausa. Il cuore le batteva forte, ma non per paura. Perché stava tracciando una linea netta.

«Se vuoi giocare con me, se vuoi vedermi ancora… è con me che tratti. Non con il mio desiderio, non con il mio corpo. Con me. Con la mia testa. Con la mia volontà. E se ti va bene… potrai scoprire che, quando sono io a scegliere di lasciarmi andare, posso essere il regalo più prezioso che tu abbia mai avuto.»

Poi si raddrizzò e concluse con fermezza:

«Questa è l’unica condizione. Prendere… o lasciare.»

Sul display, per un attimo, Eva rimase in silenzio. Lo sguardo fisso, il sorriso svanito. Solo il respiro ancora visibile nel sollevarsi delle sue spalle. Era la prima volta che qualcuno la metteva con le spalle al muro.

Per qualche secondo ancora, lo schermo rimase silenzioso. Dall’altra parte, Eva osservava Claudia con attenzione, ma era chiaro che non si aspettava la piega che aveva preso la conversazione. L’espressione sul suo viso era tesa, trattenuta, come se stesse cercando di capire quanto potere le stava sfuggendo dalle mani.

Claudia non abbassò mai lo sguardo. La voce le uscì chiara, piena, senza esitazioni.

«Se ti eccita che io indossi il collare, se durante un rapporto ti stimola vedermi sottomessa… allora sì, potremmo anche giocarci. Potrebbe piacermi. Ma che sia chiaro: è solo un gioco, e lo decido io.»

Fece una breve pausa, abbastanza da lasciare che ogni parola si depositasse.

«Se scelgo di piegarmi, se ti do il permesso di guidarmi… è per mio piacere. È mia la scelta. E mia sarà sempre la possibilità di dire no. E quando dico no, non c’è equivoco. Non c’è dibattito. Non c’è fantasia che tenga.»

Eva trattenne il fiato, immobile.

Claudia si chinò un poco verso lo schermo, e con uno sguardo che non tremava concluse:

«Ora chiudo. Rifletti bene su quello che ti ho detto. Con molta attenzione. Io so perfettamente cosa rischio di perdere… ma anche tu lo sai. Sei davvero sicura di voler rischiare tutto questo?»

E senza attendere replica, chiuse la videochiamata con un tocco deciso. Lo schermo si oscurò.

Rimase immobile per un istante, poi allentò la fibbia e tolse il collare con gesto misurato. Lo posò con cura sul letto, come un oggetto ancora carico di significato, ma ora completamente sotto il suo controllo.

Prese in mano il telefono e salvò il numero:
Eva.
Solo il nome. Il resto, lo avrebbe gestito lei, al suo tempo.

Si avviò verso il bagno, il corpo ancora avvolto nella luce del mattino. La doccia calda la accolse con un vapore avvolgente. Scelse un olio aromatico alla vaniglia e pepe rosa, e si dedicò a coccolarsi lentamente, le mani che scorrevano tonificanti sulla pelle sensibile. Ogni goccia che scivolava addosso era una conferma: era padrona di sé, del proprio desiderio e del proprio corpo.

Ancora avvolta nel tepore della doccia, Claudia prese l’asciugamano più grande, lo avvolse intorno al corpo e uscì lentamente nel bagno inondato di vapore. Sul grande specchio appannato compariva solo la sua sagoma sfocata. Passò una mano decisa sul vetro, lasciando che il riflesso emergesse nitido.

Si guardò.

Era sempre lei. Ma non del tutto.

Le spalle, solitamente morbide, ora si portavano più dritte, come se qualcosa dentro di lei le avesse ridato una postura dimenticata. La schiena, nella sua curva naturale, sembrava più femminile, più flessuosa, e quella linea si chiudeva in un movimento tondo e invitante sulle natiche, ancora leggermente arrossate dal giorno prima. Il seno, umido e nudo, le sembrava più alto, più pieno, quasi se ne avesse preso coscienza per la prima volta. Il ventre, pur senza essere scolpito, era piatto, disteso, compatto, come levigato.

Fu quando lo sguardo le cadde sul basso ventre che qualcosa si mosse.

Quel piccolo ciuffo ordinato, che aveva sempre considerato femminile e naturale, ora lo percepiva fuori luogo. Superfluo. Non brutto. Solo... non più suo.

Non rifletté troppo.

Prese il rasoio di Marco dal bordo del lavandino, lo insaponò con cura, e con movimenti calmi, meticolosi, tolse ogni ombra di pelo. Ogni tratto lasciava la pelle più liscia, più nuda, più consapevole. Più adatta a ciò che stava diventando.
Sorrise appena, chinandosi per controllare i dettagli.
Più avanti penserò a qualcosa di definitivo, si disse, ma per ora... era perfetta così.

Si asciugò con lentezza, poi si mise davanti allo specchio per i capelli. Scelse di legarli in una coda bassa, sensuale e morbida, lasciando alcuni ciuffi più ribelli cadere sulle tempie.

Poi andò verso l’armadio. Non aveva voglia di vestirsi “bene”, ma nemmeno di tornare quella di prima.
Scelse un paio di leggings da casa, ma si rese conto subito che non avevano nulla a che vedere con quelli di Eva. I suoi erano comodi, sì… ma non dicevano nulla.
Poi prese una camicia ampia, la indossò lasciandola aperta fin dove serviva, chiudendo solo un paio di bottoni al centro, abbastanza per non essere nuda, ma anche per far intuire ciò che sotto non c’era.

La chiave ruotò nella serratura e la porta si aprì con il consueto scatto secco. Marco entrò togliendosi la giacca, ancora con il nodo della cravatta allentato e le occhiaie di una giornata intensa.

La casa era immersa in una penombra morbida, rischiarata solo dalla luce calda della cucina. Claudia era lì, appoggiata al bancone, un calice di vino bianco freddo tra le dita, vestita con leggins aderenti e una camicia sbottonata appena quanto bastava per stuzzicare, ma non svelare.

Non disse nulla subito. Lo aspettò con lo sguardo. Lui ricambiò.

«Hai preparato qualcosa di buono… o sei tu la portata principale?» mormorò, sorridendo.

Lei rise piano e gli porse un secondo calice. «Solo vino. E due coscienze da alleggerire.»

Si spostarono sul divano, seduti vicini ma con il corpo rilassato. Lui appoggiò il bicchiere sul tavolino. Lei incrociò le gambe, i piedi nudi tirati sotto.

Fu Marco a rompere il silenzio.

«Hai pensato a ieri?»

Lei annuì, ma poi aggiunse: «Più che pensarci, l’ho rivissuto. E ho bisogno di parlarne. Davvero.»

Lui la guardò serio. «Parla.»

Claudia prese un sorso di vino e lasciò che il bicchiere restasse tra le mani. «Quando ho aperto la tenda del camerino… sapevo cosa stavo facendo. Ma non mi aspettavo quello che ho provato. Ho visto gli sguardi, le bocche socchiuse. Ho percepito i pensieri — anche quelli non detti. E non era paura, non era vergogna. Era potere. Era come… averli in pugno.»

Marco non la interruppe. Solo bevve piano, poi annuì lentamente.

«E quando ti sei girata, lasciando intravedere tutto… l’hai fatto per loro o per me?»

«Per entrambi. Per te perché sei il mio complice. Per loro… perché volevo sentirmi desiderata. Ma alle mie condizioni. E sai cosa mi ha colpita? Che nessuno ha osato fare un passo. Solo guardare. Come se io fossi... qualcosa di inaccessibile. Una visione.»

Marco inspirò lentamente. Il tono della voce cambiò, più basso. «Io ti guardavo da lontano, e vedevo come ti guardavano. E non riuscivo a smettere di eccitarmi. Avevo la bocca secca. Lo stomaco in gola. Mi sono sentito orgoglioso. Ero con la donna che tutti stavano sognando. E sapevo che alla fine... saresti tornata da me.»

Claudia lo guardò, poi poggiò il bicchiere e si avvicinò un po’. «Quando la commessa mi ha toccata, quando ha detto che voleva sorprendermi… ho capito che non era solo gioco. Era una prova. Una sfida. E io l’ho accettata.»

«E hai vinto» disse lui.

Lei scosse la testa. «No. Abbiamo vinto. Perché tu non hai fatto un passo indietro. Non sei fuggito. Sei rimasto lì. Hai guardato. Hai stretto i pugni. Ma non mi hai mai fatto sentire in colpa.»

Un silenzio breve. Poi Claudia concluse, con voce più ferma:

«Voglio vivere tutto. Ma solo se so che siamo insieme. Se sento che, anche quando mi perdo… sei lì. Non per controllarmi, ma per tenermi in equilibrio.»

Rimasero ancora qualche secondo in silenzio, le dita intrecciate, il vino dimenticato sul tavolino. Poi fu Claudia a prendere la parola, con la voce che cercava il giusto equilibrio tra fermezza e dolcezza.

«Oggi Eva mi ha chiamata.»

Marco sollevò lo sguardo su di lei, senza sorpresa, ma con una nuova attenzione. «Immaginavo. Dopo ieri... non sembrava il tipo da restare in silenzio.»

Claudia annuì, poi si staccò leggermente, come per darsi spazio. «Mi ha detto che la prossima volta si prenderà tutto il tempo. Che sarà lei a decidere come dovranno andare le cose. Lo ha detto con quel tono morbido e caldo che ti entra sotto pelle. Ma dentro... c’era una promessa di dominio. E qualcosa in me si è acceso, sì, ma anche qualcosa si è ribellato.»

Marco ascoltava in silenzio, gli occhi fissi nei suoi.

«Le ho risposto chiaro, Marco. Le ho detto che la mia sottomissione può essere un gioco, sì. Ma solo se lo scelgo io. Le ho detto che se dico no, è no. Punto. E che nessuno, per quanto seducente, potente o irresistibile, potrà mai pensare di farmi sua a comando.»

«Giusto» disse lui piano. «Era il momento di dirlo.»

«Non so come lo ha presa» continuò Claudia. «Ma non mi importa. L’ho detto per me. E anche per te. Per noi.»

Marco si appoggiò allo schienale, riflettendo. Poi si voltò verso di lei.

«Posso dirti la verità?»

Lei annuì.

«Io ho voluto tutto questo. Ho spinto io, ti ho guardata uscire dal tuo guscio, ti ho spinta a sedurre, a farti guardare, a farti prendere. E sì… anche l’idea che qualcun altro ti tocchi mi eccita da morire. Ma mai, nemmeno un secondo, ho pensato che tu dovessi obbedire a qualcuno.»

Si fermò un attimo, cercando le parole.

«Mi piace il gioco, Cla. Mi piace guardarti forte, e poi vederti cedere, ma solo perché lo vuoi tu. Non perché qualcuno ti comanda. Tu sei la donna che amo, e se ogni tanto ti concedi, se ti lasci andare… deve essere una tua conquista, non una mia rinuncia.»

Lei abbassò lo sguardo, poi lo rialzò lentamente. «Allora siamo d’accordo? Questo gioco... può andare avanti, ma con le mie regole. E con la tua complicità. Nessun altro possesso. Solo desiderio condiviso.»

Marco si chinò verso di lei, sfiorandole il volto. «Siamo d’accordo. E se ogni tanto dovrai rimettere qualcuno al suo posto… sappi che per me, è anche quello un piacere da guardare.»

Claudia si alzò dal divano con grazia rilassata, i muscoli appena accennati delle gambe che si muovevano fluidi sotto i leggings scuri. Raccolse i due calici ancora mezzi pieni, poi si avviò verso la cucina con passo lento, ma deciso. Marco la seguiva con lo sguardo, come incantato da ogni movimento.

«Ah, a proposito…» disse lei, voltandosi appena sopra la spalla, con voce casuale. «Oggi ho usato il tuo rasoio. Cambia la lametta, mi raccomando.»

Marco aggrottò la fronte, spaesato. «Il mio rasoio? Perché?»

Claudia posò i bicchieri nel lavello, poi si voltò appoggiandosi con una mano al piano cucina, il sorriso che le saliva piano agli angoli della bocca. «Perché il mio cespuglio è ormai solo un ricordo. Da oggi mi voglio liscia. Pulita. Sempre.»

Marco sgranò gli occhi, colto completamente di sorpresa. Per un attimo trattenne il respiro, poi si strozzò con la propria saliva che cercava di mandare giù al momento sbagliato. Tossì, batté una mano sul petto, mentre gli occhi gli brillavano di stupore e puro desiderio.

«Tutto bene?» chiese lei divertita, con un sopracciglio alzato.

Lui annuì tra due colpi di tosse. «Perfettamente. Solo… non me l’aspettavo.»

Claudia rise. Una risata cristallina, piena, calda, di quelle che si sentono nello stomaco prima ancora che nelle orecchie. Rideva come non rideva da anni. Di gioia, di libertà. Di sé.

Poi, senza dire nulla, ripassò davanti a lui, lo sguardo malizioso fisso nei suoi occhi. E mentre attraversava il salotto, lasciò cadere la camicia a terra con un gesto fluido, come se le fosse semplicemente scivolata via.

Indossava solo i leggings. La pelle nuda della schiena e dei fianchi, la curva dei seni appena accennata nel movimento, il girovita segnato dalla cintura elastica che ora pareva disegnarle la vita come un tratto d’artista.

Arrivata sulla soglia della camera da letto, si fermò.

«Vuoi vedere com’è venuta?»

Claudia oltrepassò la soglia della camera senza voltarsi, ma sapeva di essere seguita da uno sguardo affamato, rapito, grato.

Due passi ancora, e con la stessa leggerezza con cui aveva lasciato cadere la camicia, sfilò i leggings, facendoli scivolare lentamente lungo le gambe fino a lasciarli cadere sul pavimento come una seconda pelle abbandonata.

La sua nudità non era sfacciata, ma piena. Totale. Reale.
Un’opera viva: i fianchi morbidi, la schiena arcuata nel gesto naturale di sdraiarsi, i seni liberi che si sollevavano al ritmo del respiro, la pelle liscia e dorata dalla luce della sera. E al centro, il segreto svelato, un’assenza di peli che non toglieva nulla, ma esaltava tutto.
Una tela pulita, viva, pronta a essere vissuta.

Si stese sul letto con un movimento fluido, le braccia piegate sotto la testa, una gamba leggermente piegata sull’altra. Lo sguardo rivolto al soffitto, ma il sorriso — quel sorriso lento, malizioso e fiero — era per lui.

Marco non disse nulla.
Non servivano parole.

Si alzò, come attirato da una forza primordiale.
Non da istinto.
Ma da un desiderio più profondo, quello di esserci, di unirsi, non solo nel corpo, ma nel significato.

La raggiunse piano, con la calma di chi ha capito che ogni gesto può essere sacro.
Le si sdraiò accanto, le accarezzò una guancia, poi il fianco, come a chiedere il permesso anche dove già sapeva di essere il benvenuto.

La prese tra le braccia, la baciò.
Non fu sesso.
Fu un atto pieno d’amore.
Fu complicità pura, pelle su pelle, ma soprattutto anima su anima.
I loro corpi si cercarono e si trovarono, non per brama, ma per gioia di appartenersi, per condividere, abbracciare la trasformazione che avevano vissuto e che, insieme, stavano scegliendo di abitare.

Fu lento. Fu profondo. Fu vero.

Le lenzuola ancora calde scivolavano leggere sulle gambe intrecciate, mentre il silenzio nella stanza si fece complice, protettivo. La luce ormai fioca della notte accarezzava i profili dei loro corpi stesi, segnando curve e respiro con una dolcezza quasi irreale.

Marco la fissava, gli occhi aperti su di lei. Non era solo desiderio, era curiosità profonda, bisogno di comprenderla ancora, ancora meglio.

«Ti piacerebbe incontrarla di nuovo, vero?»
La voce era bassa, ma non gelosa. Solo vera.

Claudia si voltò lentamente, il seno che sfiorò il suo petto nel movimento. Lo guardò, le pupille scure, lucide, dense, e poi si chinò su di lui. Le sue labbra cercarono le sue, non in un bacio profondo, ma in uno che morse piano, che rubò fiato più che offrirlo, che parlò senza parole.

«Certo che vorrei incontrarla di nuovo,» sussurrò. «E lo farò. Ma solo alle mie condizioni.»

La sua voce era calda, ferma, attraversata da una calma consapevole. Si sdraiò di nuovo, girata verso di lui, un braccio piegato sotto il viso.

«Lei è fantastica, sì. Una macchina, se vogliamo, una creatura perfetta per il sesso, sicura, dominante… ma non è me. Io sono unica. Irripetibile. È solo lei a perdere, se non sa restare al mio passo.»

Marco le passò una mano tra i capelli, senza bisogno di aggiungere altro. Si conoscevano troppo bene per dover spiegare cosa significasse quella risposta.

Si addormentarono poco dopo.
Non stretti in un abbraccio da copertina, ma l’uno accanto all’altra, come due corpi che sanno di appartenersi, due storie che da anni condividono spazio, tempo, parole e silenzi.

Il sabato mattina filtrava tra le tende con una luce morbida, calda e indulgente. Nessuna sveglia, nessun impegno: solo il tempo ritrovato, lento e pieno.

Claudia si alzò prima, scalza, con il corpo ancora disteso dal piacere della notte. Passò davanti allo specchio nuda, apprezzando i segni sottili sulla pelle come tracce di una notte vissuta, e si concesse una doccia rapida, solo per lavare via il sudore sottile del sonno e dell’abbandono.

Quando uscì dal bagno, non si rivestì in fretta. Oggi non usciva, non aveva appuntamenti. Ma voleva essere bella per sé. E per lui.

Aprì con calma il cassetto della lingerie e scelse un tanga in raso color vino, appena profilato in pizzo, e un reggiseno balconcino coordinato, che sollevava e raccoglieva il seno in modo sensuale ma naturale, esaltandone la rotondità e il volume.
Poi tirò fuori la minigonna nera in pelle, aderente, corta quanto bastava per stuzzicare l’immaginazione e sfiorare appena il bordo delle autoreggenti velate, nere, che facevano da cornice alle sue gambe snelle.

Sopra, la giacca di pelle abbinata, morbida, foderata in raso, la infilò lentamente, godendosi la carezza fredda e liscia del tessuto sulla pelle nuda, soprattutto là dove il reggiseno finiva e la giacca cominciava. Il solo chiudere il bottone al centro le fece sorridere: era coperta, ma non troppo. Perfetta.

Si sedette allo specchio e iniziò a truccarsi con calma. Non troppo, ma con attenzione. Matita nera a sottolineare lo sguardo, ombretti caldi, mascara abbondante sulle ciglia, labbra disegnate e poi riempite con un rosso amaranto opaco, leggero ma deciso. Ogni gesto era sicuro, esperto, di chi ha imparato ad amare il proprio volto, con ogni suo segno.

I capelli, ancora leggermente umidi, erano sciolti sulle spalle. Mosse qualche ciocca con le dita, ma non riusciva a decidersi.

Si alzò e uscì dalla stanza, passando nel soggiorno.

Marco era in cucina, ancora in t-shirt e boxer, seduto al tavolo con una tazzina in mano. Quando la vide arrivare così, vestita senza motivo apparente, restò immobile. Il braccio a metà del gesto. Poi...
La tazzina si inclinò.
Il caffè colò lento sul piattino, poi sul tavolo. Lui nemmeno se ne accorse.

Claudia lo guardò, come se nulla fosse. Un sopracciglio sollevato, un sorriso malizioso.

«Secondo te… coda o sciolti?»

Marco, ancora imbambolato, rispose con un filo di voce. «Coda.»

Lei annuì, tornò allo specchio e legò i capelli con un elastico sottile, lasciando una coda alta e tirata, sensuale e aggressiva, che lasciava liberi il collo e le spalle. Un tocco da combattente, ma elegante.
Si osservò ancora un istante. Sorrise.

Era pronta. Ma per nessuno. Solo per sé.
E per lui, che ancora asciugava il tavolo con un tovagliolo, come in trance.

Marco asciugava ancora lentamente il bordo del tavolo, ma lo sguardo era fisso su di lei. Quella donna, che conosceva da una vita, che aveva visto struccata, spettinata, incinta, addormentata sul divano, ora camminava davanti a lui come una visione uscita da un sogno erotico con l’anima.

Lei se ne accorse, naturalmente. Claudia era maestra nel riconoscere quegli occhi. Passò accanto a lui con la coda che dondolava ritmica sul collo nudo e lo sguardo finto distratto.

«Dove stai guardando, eh?»

Marco si finse serio. «Controllavo la tenuta delle cuciture della giacca. È importante che la pelle non sia troppo tirata.»

Lei si chinò, il viso vicino al suo orecchio. «Stai attento allora… perché se continuo a gonfiarmi d’orgoglio potresti vederla esplodere.»

Scoppiarono entrambi a ridere.

Lui cercò di afferrarla, ma Claudia fu più veloce. Fece il giro del tavolo danzando sui piedi nudi, sollevando appena l’orlo della minigonna con le dita per provocarlo.

«Dove vai, pantera?»

«In camera… a riprovare tutto da capo. Magari ho sbagliato collant!»

«No! Ferma! I collant sono perfetti!»
«Ah… quindi guardavi proprio quelli?»
«No, cioè sì, cioè… cosa mi stai facendo dire?»

Ridevano insieme, di gusto, di cuore, come non capitava da tempo. Era quella felicità vera e semplice, fatta di una giornata senza orari e della meraviglia di potersi ancora desiderare nonostante tutto, o forse proprio grazie a tutto.

Claudia si fermò e si sedette sulle ginocchia davanti a lui, le mani sulle sue cosce, il viso sollevato.

«Ti ricordi quando ci facevamo scherzi di questo tipo anche vent’anni fa?»

«Certo. Solo che allora tu portavi una t-shirt larga e io ancora i capelli lunghi.»

«E adesso?»

«Adesso sei un sogno in minigonna e io un marito completamente fottu—»

DRIN.

Il telefono di Claudia vibrò sul tavolo. Lo schermo illuminò la stanza per un istante.

Videochiamata in arrivo.
Eva.

Claudia guardò il nome sullo schermo per un secondo ancora, poi — senza fretta, ma senza esitazioni — accettò la chiamata. Il sorriso sulle labbra non si era ancora sciolto del tutto. La voce fu allegra, ironica, come se il mondo non si fosse appena fermato.

«Buongiorno, Eva.»

L’immagine apparve subito. Eva era seduta a letto, lo sfondo sfocato di una stanza elegante ma in penombra. I capelli biondi, spettinati, scendevano disordinati sulle spalle nude. Addosso una camicetta sgualcita, chiaramente indossata in fretta. Il trucco sfumato, le ciglia senza definizione, le labbra naturali. Niente del controllo assoluto del giorno prima.

Claudia la fissò per un attimo in silenzio. Un pensiero rapido le attraversò la mente:
I ruoli si sono invertiti.

«Stai bene?» chiese infine, con tono sincero. «Sembri... meno Eva del solito.»

L’altra abbassò lo sguardo, poi tornò su di lei. Il suo tono non aveva il solito velato comando, ma una strana tensione vulnerabile.

«Avevo deciso di dimenticarti» disse con un filo di voce. «Dopo quella telefonata. Dopo come mi hai messa al muro. Non sono abituata ad essere… rifiutata. O contraddetta.»

Claudia non rispose. Solo lasciò che l’altra continuasse.

«Ma non ci sono riuscita. Non ho dormito. Ogni volta che chiudevo gli occhi… eravamo di nuovo lì. Il camerino. La tua pelle. Il tuo odore. Il modo in cui mi hai baciata, il tuo seno contro il mio. La tua bocca...»

Eva si interruppe, si passò una mano tra i capelli con un gesto stanco.
«Ho cercato di convincermi che fosse un capriccio. Ma non lo è. Tu non lo sei. Non posso accettare del tutto le tue regole, Claudia. Ma... non posso nemmeno perderti. Non adesso.»

Il sorriso di Claudia si fece più sottile, ma non meno caldo. Si sistemò meglio sul divano, una gamba piegata sotto di sé. Era bellissima e sicura, un’eleganza pericolosa nella sua calma, con ancora il volto truccato e il collo allungato dalla coda alta.

«Eva» disse, lentamente. «Tu sei splendida. Audace. Una forza della natura. Ma per la prima volta, forse, hai trovato qualcuno che ti regge lo sguardo. Che non si lascia travolgere. E che, quando decide di concedersi… lo fa come un dono. Non come una resa.»

Eva rimase in silenzio, lo sguardo che oscillava tra desiderio e incertezza.

«Non ti ho rifiutata» continuò Claudia. «Ti ho solo detto la verità. Se vuoi me, se vuoi questa me, sarà con le mie regole. Perché ho già vissuto troppo tempo assecondando desideri altrui. Ora… so cosa mi accende. E mi accende essere desiderata, non dominata.»

Poi, con voce più bassa, più rotonda:
«E se ti fa paura, non giudicarti. Ma sappi che anche nella tua incertezza… sei terribilmente seducente.»

Eva chiuse gli occhi un istante. Quando li riaprì, c’era una fiamma diversa.

«Va bene» sussurrò. «Accetto. Per ora. Ma sappi che… quando sarai mia, sarà come dici tu. Ma farò in modo che tu voglia concedermi il resto. E quando succederà… non vorrai più tornare indietro.»

Claudia sorrise. «Forse. Ma sarà sempre una mia scelta. Ricordatelo.»

Un lungo silenzio colmo di tensione. Poi Eva si lasciò andare a un sorrisetto stanco ma sincero. «Sai che sei incredibilmente pericolosa?»

Claudia non abbassò lo sguardo. Lo tenne fisso nello schermo, negli occhi di Eva, che ora sembravano brillare di un’energia nuova, un desiderio incanalato ma ancora in attesa di un varco.

«Vieni a cena da noi, questa sera» disse, con tono limpido ma basso, come se pronunciare quella frase troppo forte potesse farla sparire.

Eva si irrigidì per un istante, poi il sorriso tornò sulle sue labbra, stavolta sincero, aperto, quasi grato.

«Davvero?»
«Sì. Ho voglia di rivederti. In un altro contesto. Di parlarci. Di… vederti.»

Eva si leccò appena il labbro inferiore, annuendo. «Mi piace. Ma…» fece una pausa, alzando un sopracciglio, «che ruolo ha Marco, in questa cena?»

A quella domanda, Claudia non rispose subito. Il sorriso si affievolì, gli occhi si spostarono — quasi involontariamente — verso di lui.
Marco era ancora in cucina, ma l’aveva ascoltata. E nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono, ci fu qualcosa di smarrito nei suoi occhi.
Una frazione di secondo in cui nessuno dei due seppe davvero cosa pensare.

Claudia si morse l’interno della guancia, appena. Poi, con voce più lieve: «Ci guarda.»

Eva rise piano, una risata bassa e sorniona, mentre si toglieva una ciocca di capelli dal viso.

«Mi piacciono i maschi come Marco» disse, languida. «Quelli che guardano... ma sanno anche aspettare il momento giusto. Chissà, magari... potremmo persino chiederti se vuoi avere due uomini insieme. O potremmo chiedere a lui se mi vuole provare.»

Claudia sbatté appena le palpebre. La frase la colse di sorpresa, e per un istante il controllo sembrò scivolarle tra le dita. Non era impreparata alla sensualità di Eva, ma a quella piega improvvisa, non era del tutto pronta.

Sul viso, però, non comparve turbamento. Solo silenzio. E quel sorriso enigmatico, appena accennato, che lasciava ogni porta socchiusa.

Claudia rimase immobile per un istante, poi si sporse leggermente verso lo schermo. Le labbra si piegarono in un sorriso lento, non complice… ma sovrano.

«Ti aspettiamo alle sette questa sera» disse con voce bassa ma ferma.
Fece una breve pausa.
«Portati un cambio per domani mattina.»

Dall’altra parte dello schermo, Eva si irrigidì appena, sorpresa, ma non spiazzata.
La bocca si schiuse un istante, il respiro breve, le pupille più dilatate.

Poi, senza fiatare, annuì.
E sorrise.
Un sorriso diverso da tutti quelli visti finora: non più da predatrice, ma da donna che ha capito di avere trovato, per una volta, chi sa tenere le redini insieme a lei.

Lo schermo si spense.
Claudia restò un attimo lì, immobile, poi si voltò lentamente verso Marco.

«Abbiamo ospiti per cena» disse con naturalezza.

Marco, ancora fermo, non replicò subito. Poi si avvicinò piano.
«Serve che metta lo spumante in fresco?»
«Magari due bottiglie.»

Lo schermo si era appena spento, ma nell’aria restava sospesa l’ultima frase di Eva, come una vibrazione che nessuno dei due riusciva a ignorare del tutto.

Claudia si voltò lentamente verso Marco, il bicchiere ancora tra le dita, ma con lo sguardo diverso. Più profondo. Più diretto.

«Hai sentito cosa ha detto, vero?»

Marco annuì, ma non parlò subito. Si passò una mano tra i capelli, come se cercasse le parole più che una posizione comoda.

«Sì. L’ho sentito.»

«Ha parlato di fare tutto con me» continuò Claudia, «ma anche... con te. Magari solo con te.»

Il silenzio durò qualche istante ancora, poi fu lei a romperlo.

«Cosa ne pensi, Marco?»

Lui si schiarì la voce, il tono basso, quasi colto in fallo.
«L’idea di... di giocare con te, entrambi... mi eccita. Mi incuriosisce. Mi spinge oltre. Non lo nego. Ma... l’idea di essere da solo, io ed Eva, senza di te...»
Scosse appena la testa, con un sorriso incerto. «Un po’ mi mette in imbarazzo. Come se mi mancasse l’asse. Come se fossi fuori da quello che siamo.»

Claudia lo fissò a lungo, poi si alzò piano e si avvicinò a lui. Gli sedette accanto, le gambe piegate sotto il corpo, e appoggiò la mano sulla sua coscia, con un gesto leggero.

«Te lo chiedo in modo diretto, Marco. Ti è mai capitato di pensare… di provare il corpo di un uomo?»

Lui trattenne il respiro. Non per difensiva, ma per sorpresa. Poi distolse lo sguardo un istante, lo riportò su di lei.
Non c’era rabbia nei suoi occhi, né paura. Solo un’onestà fragile e disarmante.

«Non lo so» ammise. «Non ci ho mai pensato davvero. E adesso... non riesco a capire se sono solo suggestionato… o se c’è una parte di me che è curiosa. Ma non ho una risposta, Cla. Non ancora.»

Lei non disse nulla. Gli fece solo scorrere il pollice sul dorso della mano. Il contatto era calmo, solido, senza fretta.

La cucina profumava di agrumi e mare, i piatti erano pronti, le luci abbassate al punto giusto. La cena era lì, come una promessa… ma la serata doveva ancora iniziare davvero.

Claudia, con le mani ancora leggermente umide, si voltò verso Marco.
«Mi aiuti a scegliere l’outfit per stasera?»
La voce era neutra, ma il sorriso negli occhi diceva tutt’altro.

Lui poggiò il canovaccio, la seguì in camera senza fare domande.
Lo aspettava qualcosa di più di una semplice scelta tra due abiti.

Appena entrati, Claudia accese solo la luce morbida del comò. La stanza si riempì di riflessi caldi. Si voltò verso di lui con un guizzo ironico sul viso.
«Cominciamo dall’intimo, se non ti dispiace.»

Marco si sedette sul bordo del letto. Non parlava, ma lo sguardo era attento, vivo, acceso.

Claudia aprì il cassetto lentamente. Non aveva fretta. Ne tirò fuori una scatola in cartone rigido, l’aprì e cominciò a sfilare i capi ad uno ad uno.

«Allora… prima opzione: tulle nero trasparente, con cuciture verticali e piccolo fiocco tra le coppe.»
Lo indossò rapidamente, senza imbarazzo, lasciando cadere la camicia da casa con noncuranza.
Il balconcino sosteneva, modellava, lasciava intravedere.
Scelse un tanga coordinato, sottile, appena velato.
«Troppo audace?» chiese girandosi lentamente davanti a lui, i capelli raccolti, la schiena dritta.

Marco deglutì, poi sollevò un sopracciglio. «È un sì. Ma voglio vedere il resto.»

Lei sorrise e sfilò tutto con disinvoltura.
«Seconda opzione: pizzo bianco. Più romantico, con dettagli in seta.»

Lo indossò con un’aria più dolce, lasciando che il reggiseno disegnasse linee più morbide, quasi da sposa. Si voltò lentamente, fece scorrere una mano lungo il fianco.
«Troppo innocente per stasera?»
Marco annuì piano. «Per Eva? Sì. Troppo bianco. Troppo brava.»

«Terza ed ultima» annunciò.
Tirò fuori un completo color bordeaux intenso, pizzo geometrico, coppe semi-rigide, tanga con apertura laterale regolabile. Lo infilò con lentezza, lasciando scivolare la pelle nuda sotto il tessuto.

Quando si voltò di nuovo, il gioco era cambiato.
Non stava più mostrando. Stava dichiarando.

«Questo ti piace?» chiese.

Marco si alzò in piedi, le si avvicinò senza toccarla, guardandola come chi sa che qualcosa di grande sta per iniziare.

Claudia aprì il secondo cassetto dell’armadio con la solennità di un rito.
«Ora arrivano quelli veri, Marco» disse mentre infilava una mano tra la seta e il raso.
«Non parliamo di completini da letto… questi sono pezzi da indossare sotto. Da battaglia. Da farti tremare solo al pensiero di cosa nascondo sotto l’abito.»

Marco era rimasto in piedi. Non riusciva a stare seduto.

Lei prese il primo completo, lo srotolò come se maneggiasse un gioiello.

«Prima opzione. Raso blu elettrico. Guarda i bordi…»
Li alzò alla luce: piccoli punti luce incastonati come brillanti brillavano lungo le cuciture.
Infilò il push-up con un gesto deciso: il seno venne sollevato, modellato, incorniciato da quella curva tesa di lucentezza blu.

Il tanga era un’arma sottile. Taglio altissimo, sgambatissimo, che slanciava i fianchi e lasciava scoperta la curva piena delle natiche.
Poi il dettaglio finale: reggicalze sottili, quasi invisibili, che agganciavano calze velate con bordo lucido.

Si voltò lentamente verso Marco, tirando su la coda alta.
«Dici che è troppo per una cena tra amici?» chiese, sorridendo.

Lui non rispose. Doveva ricordarsi di respirare.

Lei, intanto, cambiava già.

«Secondo. Pizzo rosso fuoco.»

Lo estrasse come un trofeo. Un corpetto strutturato, con coppe semi-rigide che raccoglievano il seno sotto una trama quasi gotica. I dettagli laterali lasciavano intravedere la pelle, il perizoma era minimale, perfetto sotto la minigonna.
Le autoreggenti in pizzo, nere, chiudevano la visione.

Quando si guardò allo specchio, era l’inferno vestito di passione.
Si voltò verso il marito con uno sguardo tagliente.
«Questa è la versione pericolosa. Quella da farle capire che il fuoco non è solo suo.»

Marco emise un mezzo gemito. «Sono… sono tutte da arresto.»

Lei rise, e passò al terzo.

«Ultimo. Il mio preferito, forse.»

Un body nero in spandex lucido, semitrasparente davanti, con una profonda scollatura a V che arrivava quasi all’ombelico.
Dietro, nulla.
Taglio a tanga, completamente aperto sulla schiena.
Lo indossò in silenzio, chiudendo l’ultima zip con uno scatto secco.

Si voltò, lo guardò dritto negli occhi.

Era una visione fantascientifica. Un mix tra dominatrice e musa.

«È questo il mio preferito» disse Marco, con la voce bassa e roca.
«Ma non so se riuscirei a starti seduto accanto per tutta la cena.»

Claudia si voltò verso lo specchio, osservò il riflesso.
«Allora forse è proprio quello giusto.»

Marco non aveva mai distolto lo sguardo. Non c’erano più battute, né risate.
Solo lui, in piedi, di fronte alla donna che aveva sposato — e che in quel momento gli sembrava appartenere a un regno più alto, più audace, più puro nella sua sensualità.

Lei si voltò appena, ancora nel body nero in spandex, il tessuto che abbracciava il seno e la vita, lasciando libera la schiena, scoperta, con quel taglio netto a tanga che esaltava la curva perfetta dei glutei.

Lui si avvicinò di un passo. «Scegli questo» disse con voce bassa, ma ferma.
«Ma abbinalo… a un paio di autoreggenti velate, quelle con la riga dietro.»

Lei non rispose subito. Il sorriso che si aprì fu lento, pieno, pericoloso.

«Sai che quella riga guida l’occhio… dritto dove deve andare, vero?»

Marco annuì, un respiro profondo come unica risposta.

Claudia si voltò, si chinò sul terzo cassetto con un gesto studiato ma fluido.
Scelse una confezione ancora intatta. Velate, 20 denari, nere con la riga sottile, verticale, elegante e indecente allo stesso tempo.

Si sedette sul bordo del letto e cominciò a infilarle lentamente, una gamba alla volta, lisciando il tessuto con le mani esperte.
Quando fu in piedi, gli fece percorrere la linea verticale con lo sguardo, voltandosi a metà, il profilo netto del corpo che brillava sotto la luce.

«Allora?» chiese.

Marco non disse nulla. Ma lo sguardo era così denso che parlava da solo.

Claudia si avvicinò, lo sfiorò con le dita appena sotto la cintura, poi si allontanò.
«Perfetto. Ora scegliamo l’abito sopra. Eva dovrà guadagnarsi ogni centimetro di ciò che non vede.»

Claudia aprì l’anta dell’armadio con gesto deciso.
«Abbiamo l’intimo, abbiamo le calze… ora serve il guscio. Il pacco. Il trucco.»

Marco si era seduto sul bordo del letto, non più in silenzio da spettatore, ma in attesa, come chi assiste a qualcosa di unico.

Lei prese un tubino nero classico, morbido, elegante. Lo indossò lentamente, facendo scorrere la zip su per la schiena. Si voltò allo specchio, poi da lui.

«Allora?»

Il vestito cadeva bene, fasciava, ma non raccontava abbastanza. Era perfetto in ogni senso, eppure… mancava di anima.

Marco fece un piccolo gesto con la mano, indeciso.
«È bellissimo. Ma… è come se fossi vestita da qualcun’altra.»

Claudia non ebbe bisogno di altre parole. Lo sfilò senza rimpianto.

Il secondo tentativo fu più audace: tailleur nero, giacca corta e avvitata, con scollo netto e un solo bottone, e gonna a matita, strettissima, che si fermava poco sopra il ginocchio.

Lo indossò senza reggiseno, solo il body sotto.
La giacca abbracciava il seno con un’aggressività contenuta, lasciando intuire le forme sotto lo spandex. La gonna, a ogni passo, costringeva il bacino a oscillare in modo ipnotico.

Si girò lentamente. Era perfetta.

Marco trattenne il fiato, ma poi sollevò appena la mano.
«È... potentissima. Ma forse… troppo diretta. Fa capire troppo.»

Claudia alzò un sopracciglio, compiaciuta. «Quindi vuoi qualcosa che nasconda per intrigare?»

«Esatto.»

Lei sorrise. E tirò fuori l’ultima opzione.

Lo appese davanti a lui prima ancora di indossarlo.
Un completo giacca e pantaloni, blu primaverile, con riflessi lucidi e bordi in raso.
Il tessuto, un cotone sottilissimo, si muoveva con la luce. Puro, fluido, quasi liquido.

Indossarlo fu una danza. Il pantalone si adattò alle sue gambe come una seconda pelle, accarezzando le cosce, delineando i fianchi.
La giacca, chiusa con due bottoni sotto il seno, lasciava una scollatura naturale, profonda ma pulita.

Poi il colpo finale: una collana lunga, sottile, dorata, che scendeva tra i seni fino all’ombelico.
Le ultime gocce erano come punte di luce che si perdevano tra la stoffa e il corpo.

Infine, un paio di occhiali dalla montatura trasparente, messi senza esagerazione.
Un tocco da segretaria — ma di quelle che mettono in crisi i piani di carriera dei dirigenti.

Si voltò lentamente.
Marco rimase muto. Poi si alzò e fece due passi verso di lei.

«Sei... impossibile. Non c’è niente che lasci intravedere, ma tutto grida: toglimi. È un abito d’alta strategia. Elegante. Letale.»

Claudia si voltò allo specchio. Si toccò i fianchi, stirò una piega invisibile sul pantalone.

Claudia si sedette davanti allo specchio, la giacca già indossata, i pantaloni tesi sulle gambe come un rivestimento liquido. Il blu dell’abito, così lucente e deciso, sembrava accendere ogni sua curva con riflessi discreti. La collana lunga tra i seni e la montatura trasparente degli occhiali completavano quell’aria da tentazione travestita da efficienza.

Mancava solo il trucco. Ma quello, era la sua firma.

Rinunciò al fondotinta — troppo caldo per rischiare che il volto le si sciogliesse sotto la luce, sotto gli sguardi. Voleva che la pelle respirasse, che fosse vera.

Tracciò un filo deciso di eyeliner nero sopra le palpebre, con una punta affilata verso l’esterno, quasi a richiamare una piega da diva degli anni Sessanta.
Poi, ciglia finte, spesse ma non eccessive, che battevano lente come ventagli, pronte ad accompagnare sguardi da mozzare il fiato.

Scegliendo l’ombretto, optò per una sfumatura azzurra, leggera ma in perfetto accordo con l’abito, come un’eco metallica e raffinata. Il blu del vestito si rifletteva negli occhi, amplificandoli, rendendoli più intensi, quasi liquidi.

Poi, le labbra.
Prese con cura la matita, delineò il contorno con precisione millimetrica, poi riempì con un rosso acceso, quasi aranciato, lucido, persistente, implacabile.
Un colore che dominava ogni altro dettaglio. Un invito. Una promessa. Una sfida.

Infine, si alzò, fece un paio di passi verso lo specchio intero.
Prese le sue Louboutin nere, le calzò con un movimento fluido, familiare.
Tacco 12. Filo sottile tra femminilità e dominio.
Camminò lentamente sul tappeto, sentendo il suono secco del tacco su ogni pensiero che aveva lasciato alle spalle.

Si voltò verso Marco, che la osservava come se stesse guardando una tempesta elegante incarnata in una donna.

«E ora?» chiese lei, alzando lo sguardo da sopra gli occhiali.

Marco scosse appena la testa, con un sorriso incredulo.

«Adesso… prego che Eva sia pronta. Perché io non lo sono.»

Marco si preparò in silenzio, ma con cura. Sapeva bene che questa volta non era il protagonista, e non fingeva il contrario.
Indossò un pantalone in lana leggera, blu scuro, abbinato a una giacca più chiara, tono su tono, che esaltava le spalle e cadeva bene lungo il busto.
Sotto, una camicia in lino bianca, con il primo bottone lasciato aperto: rilassato ma elegante, come uno di quegli uomini che sanno stare un passo indietro senza per questo passare inosservati.

Aveva appena finito di sistemare i polsini quando il campanello suonò.

Un ding secco, limpido, che attraversò l’aria come una nota di tensione contenuta.

Marco si voltò verso Claudia.
Lei era già in posizione: in piedi nel soggiorno, un calice di vino tra le dita, il corpo slanciato dall’abito azzurro, le gambe incrociate e le labbra rosse come un crimine non ancora commesso.
Non disse nulla. Gli fece solo un cenno con il mento.

Era lei a reggere la scena. Lui era il cerimoniere.

Si avviò verso la porta con passo calmo, una tensione sottile sotto la pelle.
Ogni suono sembrava amplificato: il clic della maniglia, il fruscio del tessuto della giacca, il suo stesso respiro.

La porta si aprì lentamente. La luce dell’ingresso — dorata, calda, discreta — sfiorò prima il contorno del corpo, poi esplose sulla figura intera.

Eva.

In piedi sulla soglia, un'apparizione carica di simboli, come una santa in pelle di peccato.

Indossava un abito lungo in seta rossa, aderente come un drappo sacro cucito sul peccato.
Il tessuto, lucido e liquido, abbracciava ogni curva con spietata precisione, scivolando lungo i fianchi e aprendosi, al centro, in uno spacco vertiginoso che si fermava un attimo prima dell’indicibile.
Ad ogni passo, le autoreggenti nere si lasciavano intravedere, spezzando la verticalità della gamba con un orlo di promessa non detta.

La parte superiore del vestito era un corsetto senza spalline, strutturato e maliziosamente generoso, che sosteneva il seno pieno senza bisogno di altro che pura geometria e volontà.
La schiena, quasi completamente nuda, rifletteva la luce come seta viva.

Al collo, un filo di perle bianche.
Sottili. Classiche. L’unico dettaglio che parlava di innocenza.
O forse… che la evocava solo per sovvertirla.

I capelli sciolti, lisci, lucidi, cadevano perfetti sulle spalle, incorniciando il volto.
Il trucco era misurato: eyeliner pulito, rossetto color carne appena lucido, il giusto equilibrio per lasciare parlare il corpo.

Ai piedi, un contrasto tagliente:
décolleté blu elettrico, lucide, vertiginose, che rompevano la monocromia con un colpo di scena visivo.
Un richiamo al coraggio, non all’eleganza.
Una scelta di chi non cerca di piacere: vuole essere ricordata.

Marco restò immobile per un istante, l’aria incastrata nei polmoni.
Poi, come se ricordasse il copione, si fece da parte e le fece un cenno.

«Benvenuta.»

Lei entrò con passo sicuro.

Appena varcata la soglia, Eva non perse tempo.
Con passo fluido, si avvicinò a Marco, una pantera vestita da regina, e senza dire una parola gli posò una mano sulla nuca, delicata ma ferma.
Le dita, fredde di seta, si insinuarono nei suoi capelli, tirandolo a sé con una lentezza studiata.

Lui ebbe solo il tempo di inspirare.

Le loro labbra si incontrarono con un tocco che bruciava.
Non fu un bacio timido, né un saluto di circostanza.
Fu un bacio languido, profondo, perverso nel suo controllo.
Le bocche si cercarono e si trovarono, e subito le lingue si intrecciarono, in un ritmo lento, umido, carico di una sensualità quasi oscena.

Il tempo si fermò.

Dalla soglia del soggiorno, Claudia osservava.
Non si mosse. Non parlò.

E fu allora che Eva aprì gli occhi.

Due smeraldi brillanti, precisi, lucidissimi.
Li puntò dritti su di lei.

Era un’esecuzione, non un gesto d’amore.
Il bacio continuava, languido e ipnotico, ma quello sguardo era tutto per Claudia.

Non c’era sfida.
Non c’era gelosia.
Solo una voracità affamata, un desiderio crudele e magnetico.
Uno sguardo che diceva:
“Guarda cosa sto facendo. Immagina cosa potrei fare con te.”

Il corpo di Eva, stretto nel drappo rosso, sembrava scolpito.
Le perle sul collo tremavano impercettibilmente a ogni respiro.
Il seno sospinto dal corsetto si sollevava appena, e la riga nera delle autoreggenti si intuiva nel fruscio appena percettibile dello spacco che si apriva ad ogni minimo movimento.

Claudia sentì qualcosa muoversi dentro di sé.
Non fastidio.
Non gelosia.
Un richiamo oscuro e irresistibile.

Il bacio si sciolse con lentezza, come miele che si stacca dal cucchiaio.
Marco fece un mezzo passo indietro, quasi barcollando, colto alla sprovvista dalla potenza di quel contatto. Le labbra gli ardevano ancora, e il respiro gli usciva irregolare, tra il desiderio e l’incredulità.

Eva, invece, era perfettamente composta.
Gli porse la mano con un'eleganza teatrale e un sorriso lucido sulle labbra ancora umide.
«Perdonami, sono stata una maleducata. L’altro giorno non ci siamo nemmeno presentati.»
Fece una leggera inclinazione del capo.
«Io sono Eva. Se non ricordo male… tu sei Marco.»

Lui annuì, incapace di articolare una risposta.
Le sue dita incontrarono le sue, fredde e precise, e nel tocco sentì la stessa autorità che aveva sentito nella bocca, nella lingua, nella presa.

Eva aprì la sua borsa — ampia, nera, stranamente funzionale rispetto al resto del suo outfit scarlatto — e ne estrasse una piccola scatolina rettangolare.
Gliela porse con naturalezza, come se gli stesse offrendo una mentina.

«Hai per caso problemi cardiaci?»

Marco scrollò il capo, perplesso.
«No, perché?»

«È Viagra.»
Sorrise. «Prendilo. Ti servirà, stanotte.»
Poi aggiunse, con un lampo negli occhi:
«Ti sto facendo un favore.»

Gli lasciò in mano la scatola, poi con gesto deciso gli consegnò la borsa.
«Portamela in salotto, amore.»

E senza attendere risposta, si voltò.

Ogni passo sul parquet era una sentenza di desiderio, lo spacco dell’abito che si apriva al ritmo dei suoi fianchi, lasciando una scia di pelle, seta e potere.

Claudia era rimasta immobile fino a quel momento.
Lo sguardo fisso. La bocca appena socchiusa. Le mani strette attorno al calice.

Ma quando Eva le fu di fronte, fu come una scintilla silenziosa che prende fuoco al primo respiro.

Si fermarono a pochi centimetri.
Nessuna parola. Nessun preambolo.
Solo mani che si cercarono, si trovarono, si insinuarono.

Eva le sollevò la giacca, una mano che scivolava lungo i fianchi come una corrente elettrica sotto il tessuto leggero, trovando la pelle tesa dei fianchi, la curva delle autoreggenti.
Claudia rispose con un gesto altrettanto netto: una mano dietro la nuca dell’altra, l’altra che scendeva lungo la schiena nuda fino alla base del corsetto.

Il bacio fu lento ma affamato.
Nessuna esitazione. Solo labbra che si prendevano.
Lingue che danzavano, si cercavano, si spingevano.

Il profumo di Eva — muschio, ambra e vaniglia — inondava Claudia come un richiamo animale, mentre le loro mani si affondavano l’una sull’altra come se stessero leggendo in braille il desiderio.

«Sei una visione» mormorò Eva, senza staccare la fronte dalla sua.

«Anche tu, tesoro» rispose Claudia, con un sorriso da regina e l’alito caldo che accarezzava la pelle dell’altra.

E si baciarono di nuovo.
Non per presentarsi. Non per salutarsi.
Ma per ricordarsi a vicenda quanto poco fosse rimasto tra il pensiero e il piacere.

La serata era appena iniziata....

Spero che vi stia piacendo, come per la scorsa serie prediligo l'approccio mentale e non quello fisico per la descrizione dei miei racconti. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-05-09
1 . 8 K
visite
2 7
voti
valutazione
7.7
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Di nuovo noi...quarta parte

racconto sucessivo

L'oscuro passeggero
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.