Bevimi e ricordami
di
rotas2sator
genere
tradimenti
Era stato solo per l’insistenza di Luigi un collega molto stimato, che Ernesto aveva accettato di prendere in carico Camilla.
Luigi, coinvolto emotivamente dalla situazione, era stato interpellato direttamente dal marito della giovane donna, che dopo il parto stava attraversando un momento molto difficile.* Con discrezione, Luigi gli aveva trasferito il caso, preferendo non oltrepassare quella soglia.
Prima seduta
Camilla entrò nello studio alla prima seduta con passo incerto. Il viso stanco, segnato da notti insonni e da un senso di colpa che sembrava scolpito nei tratti. Ernesto la osservò mentre si alzava in piedi davanti alla scrivania: uno sguardo professionale, ma carico di empatia.
— Buongiorno, Camilla. Benvenuta. Siediti pure, renditi comoda.
Lei si accomodò lentamente sulla poltrona, incrociando le gambe con movimenti misurati. Il silenzio che seguì fu denso, ma non imbarazzante. Ernesto prese il taccuino e iniziò a scrivere, lasciandole il tempo.
— Come ti senti oggi?
Camilla abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Il pavimento sembrava più sicuro dei suoi occhi.
— Stanca… molto. E confusa. Non so nemmeno da dove cominciare.
— Va bene così. Possiamo iniziare da dove ti senti più libera. C’è qualcosa che ti pesa più del resto?
Lei alzò gli occhi, fragili ma decisi, come chi cerca aria dopo troppo tempo in apnea.
— Ho da poco avuto il mio bambino, ma non riesco a sentirmi bene con me stessa. Mi guardo e non mi riconosco. Non mi sento più… desiderabile. E questo mi fa sentire lontana da mio marito. Come se fossimo diventati due estranei. E allora… ho fatto qualcosa di… Si interruppe un istante. Poi, tutta d’un fiato: — Rendendomi conto che due studenti mi osservavano dalla finestra, mi sono spogliata per loro. L’ho rifatto altre volte, poi un giorno, quando il bambino era dai nonni, sono salita nel loro appartamento e mi sono fatta scopare. Senza ritegno. Come se volessi…essere usata, annullarmi. Il silenzio che seguì fu assoluto. Ernesto rimase immobile, il volto aperto ma composto. Non stupito, non turbato: presente.
— Capisco quanto possa essere stato forte. Il corpo cambia, ci sono tempeste ormonali, la mente si perde, e si cercano appigli. Hai cercato di ritrovare qualcosa che ti facesse sentire viva, forse…
— Sì. Non so se volevo essere punita o amata. Forse solo desiderata. Non da mio marito. Da qualcuno che non sapeva nulla di me.
— Hai vissuto un momento molto delicato. Il giudizio, adesso, non serve. Lascia che emergano le cose, anche quelle più crude. È un modo per curarsi.
Lei annuì appena. Dopo tanto tempo, finalmente, si sentiva vista.
Seconda seduta
Quando rientrò nello studio la settimana dopo, Camilla era un’altra. I capelli raccolti con una molletta sottile, alcune ciocche libere sul collo. Indossava una camicetta leggera, semitrasparente, e una gonna che lasciava intravedere la curva piena delle gambe. Nulla di esplicito, ma tutto sembrava calcolato. Ernesto la notò, come si nota un profumo prima ancora di scorgerne la fonte. Lei si accomodò sul lettino, si tolse i tacchi con un gesto lento, come un’offerta — al riposo, o a qualcosa di più antico. Il collo del piede si inarcò con grazia, poi le dita si aprirono, facendo vibrare il nylon dei collant. Ogni gesto era un messaggio cifrato. Ernesto iniziò a scrivere, meccanicamente. Ma fu travolto da quel profumo: cuoio, pelle, sudore trattenuto, intimo femminile. Non invadente, ma primitivo. Autentico. Gli arrivò diretto al basso ventre, risvegliando un desiderio che non passava per la mente. La parte più antica del suo cervello prese il sopravvento, quella senza etica né tempo. Sentì l’erezione montare sotto il tavolo, e per un istante si odiò. Quando Camilla tese il piedino verso di lui e il nylon gli sfiorò la guancia, sobbalzò. Il gesto, quasi impercettibile, era carico di un erotismo sottile, tagliente. Sollevò lo sguardo e incrociò i suoi occhi: pieni, muti, che chiedevano e offrivano insieme. Il piede si ritrasse lentamente, lasciandogli addosso un’eco fisica. Nei giorni seguenti, Ernesto si sentì come un equilibrista su un filo teso tra due grattacieli. Ogni pensiero andava a Camilla. Al piede, all’odore, allo sguardo. Ma anche alla sua fragilità. E alla propria. Più volte pensò di rinunciare. Bastava una telefonata per passare il caso a un collega. Avrebbe potuto dire di non sentirsi adatto, troppo coinvolto. E in parte sarebbe stato vero. Ma ogni volta che componeva il numero, qualcosa lo fermava. Non era solo desiderio. Era qualcosa di più pericoloso: un riconoscersi. Ernesto si vedeva in Camilla. Nella sua confusione, nella fame di sentirsi ancora vivo. E questo lo atterriva. La terza seduta si avvicinava. E lui non sapeva ancora se sarebbe stato in grado di resistere.
Terza seduta
Camilla entrò senza bussare. Ernesto era già lì, seduto, lo sguardo perso tra le righe del taccuino che non scriveva più. Quando la vide, il cuore gli tradì un battito. Non era sorpresa, era aspettativa.
Lei indossava un soprabito chiaro, allacciato stretto in vita, e nulla sotto. I capelli sciolti, le labbra leggermente arrossate dal vento. Gli occhi, quelli, avevano smesso di chiedere. Ora pretendevano.
Non disse una parola. Si avvicinò, lentamente, e si fermò davanti a lui.
— Camilla…
Lei lo zittì, questa volta con la bocca. Un bacio rapido, deciso, quasi brusco. Poi si allontanò appena e con un gesto secco sciolse il nodo del soprabito. Il tessuto scivolò a terra come un sipario che si apre sull’inevitabile. Era nuda, stupenda nella sua morbidezza. Ernesto si alzò lentamente. La sua mano sfiorò la guancia di lei, poi la nuca, poi la curva della schiena, i seni appetitosi. Camilla si voltò e gli offrì le spalle, poggiando i palmi sul lettino. Un invito. Una resa.
Lui si avvicinò da dietro, passandole le dita tra i capelli, poi lungo la colonna vertebrale, fino ai glutei, che accarezzò con lentezza. Le si chinò accanto, baciandola all’attaccatura del collo, mordendola piano. Camilla gemette.
Fu un amplesso feroce, viscerale. Ernesto la prese — rimanendo in piedi— con tutta la fame accumulata nei giorni di silenzio, nei ricordi rimasticati all’infinito. Lei si offriva, si spingeva contro di lui, ansimando parole sconnesse. Le mani di lui le stringevano i fianchi, la tenevano, la dominavano senza violenza.
Poi la girò, la fece sdraiare. Le gambe di lei si aprirono spontaneamente, accogliendolo. Ma lui non la penetrò subito. Si chinò tra le sue cosce, le baciò l’interno delle gambe, poi la lingua sfiorò le pieghe del suo sesso. Lungo, lento, profondo. Camilla inarcò la schiena, graffiandogli le spalle. Era il suo modo di dirgli “ricordami”.
Ernesto bevve da lei come da una sorgente. Voleva quel sapore, quel profumo. Voleva inciderlo nella mente, nella carne, nella memoria.
Solo dopo, quando lei tremava ormai, la prese di nuovo. E vennero insieme, quasi in un grido, come se si stessero perdendo e ritrovando nello stesso istante.
Rimasero lì, a lungo. Camilla gli passò le dita tra i capelli. Ernesto le baciò l’ombelico, poi salì sul seno, sfiorandolo con le labbra, respirandola.
Rimasero lì, nudi, intrecciati sul tappeto. Il seme rappreso tra le cosce di lei, la pelle lucida di sudore, i respiri ancora scomposti. L’odore era intenso, misto di sesso, pelle, confusione, e qualcosa di più intimo: verità.
Ernesto affondò il volto nell’incavo dei seni di Camilla. Inspirò profondamente, come se quell’odore potesse salvarlo da sé stesso.
Camilla lo accarezzava piano, con dita che tremavano. Non era più desiderio. Era abbandono. Era nudità interiore.
Camilla (sussurrando): — Così. Non voglio niente di più. Solo restare. Così.
Ernesto non rispose. La strinse solo più forte. E per un attimo, il mondo scomparve. Solo due corpi, due ferite, che si erano riconosciute nel mezzo della rovina.
Camilla ora giaceva su di lui, il respiro a tratti, la pelle febbricitante, intrisa di piacere. Tra le gambe, l’umidità calda della loro unione stava lentamente raffreddandosi, come cera che si solidifica dopo la fiamma. L’uomo, ancora dentro quell’abbandono, non poteva lasciarla. Non ancora. Il corpo di lei era un altare sconsacrato dove aveva deposto la parte più oscura — e forse più vera — di sé.
Si sollevò, lentamente. Camilla lo guardò da sotto, le labbra dischiuse, i capelli incollati alla fronte. Poi, senza una parola, come guidata da un bisogno antico, si voltò e prese tra le mani il sesso dell’uomo ancora umido. Lo accarezzò piano, quasi con gratitudine, poi lo accolse nella bocca — morbida, calda, affamata. Non per compiacerlo. Non per sottomettersi. Ma per reclamare l’ultimo frammento, l’ultima stilla di potere, di verità, di appartenenza.
Ernesto lasciò andare un suono basso, spezzato. Lei succhiava con una lentezza feroce, alternando dolcezza a morsi lievi, sguardo fisso sul suo. Lo fece tornare duro, lo riportò in vita. E quando sentì il fremito risalirgli la spina dorsale, affondò più a fondo, senza timore. Il seme le scivolò in gola, caldo, denso, e lei lo accolse tutto, senza distogliere lo sguardo, bevendolo come si beve qualcosa che non si vuole più perdere.
Poi si passò la lingua sulle labbra, lenta, come per assaporare quel gusto misto di colpa e potere. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno.
Epilogo
La primavera era arrivata lenta, tiepida, carica di promesse non dette. Ernesto aprì la finestra dello studio e lasciò che l’aria fresca invadesse la stanza, sollevando i fogli sulla scrivania. Il taccuino era ancora lì, chiuso. Da settimane.
Aveva ripreso a lavorare, ma con un rispetto diverso per i propri limiti. Non più l’illusione di essere invulnerabile. Ora sapeva che il confine tra il curare e l’amare è sottile, e che attraversarlo ha sempre un prezzo.
Non era stato facile, ma alla fine aveva preso la decisione giusta. Dopo l’ultima seduta con Camilla, quando l’intimità condivisa aveva rotto ogni barriera professionale, Ernesto aveva compreso che non poteva più essere il suo terapeuta.
Non subito, non con leggerezza. Ma con un peso profondo sul petto, aveva composto il numero di una collega, Martina. Una terapeuta esperta, sensibile, con una capacità rara di ascoltare il dolore altrui senza farsene travolgere. Gliene aveva parlato con cura, senza reticenze. E Camilla, dopo un lungo silenzio, aveva semplicemente detto: — Va bene.—Non c’era stato bisogno di spiegazioni. Forse aveva capito, forse aveva solo accettato che quel tipo di vicinanza non poteva più chiamarsi cura. Ernesto le aveva lasciato una scelta, ma anche una possibilità di guarigione autentica. Da lì in poi, aveva mantenuto le distanze. Per lei. E per sé.
Un pomeriggio, mentre sistemava alcune cartelle, ricevette una mail. Era di Camilla. Un messaggio breve, asciutto:
"Sto meglio. Grazie per avermi restituita alla vita, ai miei affetti. Non ti dimenticherò."
Ernesto la lesse più volte, senza fretta. Sentì un nodo salire alla gola. Non rispose. Non ce n’era bisogno.
Chiuse il computer e uscì in strada, incamminandosi senza una meta precisa, lasciandosi alle spalle il peso che per mesi lo aveva inchiodato. Non era felice, forse. Ma era vivo. E, in fondo, era abbastanza.
* SOLO CARNE
Prima seduta
Camilla entrò nello studio alla prima seduta con passo incerto. Il viso stanco, segnato da notti insonni e da un senso di colpa che sembrava scolpito nei tratti. Ernesto la osservò mentre si alzava in piedi davanti alla scrivania: uno sguardo professionale, ma carico di empatia.
— Buongiorno, Camilla. Benvenuta. Siediti pure, renditi comoda.
Lei si accomodò lentamente sulla poltrona, incrociando le gambe con movimenti misurati. Il silenzio che seguì fu denso, ma non imbarazzante. Ernesto prese il taccuino e iniziò a scrivere, lasciandole il tempo.
— Come ti senti oggi?
Camilla abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Il pavimento sembrava più sicuro dei suoi occhi.
— Stanca… molto. E confusa. Non so nemmeno da dove cominciare.
— Va bene così. Possiamo iniziare da dove ti senti più libera. C’è qualcosa che ti pesa più del resto?
Lei alzò gli occhi, fragili ma decisi, come chi cerca aria dopo troppo tempo in apnea.
— Ho da poco avuto il mio bambino, ma non riesco a sentirmi bene con me stessa. Mi guardo e non mi riconosco. Non mi sento più… desiderabile. E questo mi fa sentire lontana da mio marito. Come se fossimo diventati due estranei. E allora… ho fatto qualcosa di… Si interruppe un istante. Poi, tutta d’un fiato: — Rendendomi conto che due studenti mi osservavano dalla finestra, mi sono spogliata per loro. L’ho rifatto altre volte, poi un giorno, quando il bambino era dai nonni, sono salita nel loro appartamento e mi sono fatta scopare. Senza ritegno. Come se volessi…essere usata, annullarmi. Il silenzio che seguì fu assoluto. Ernesto rimase immobile, il volto aperto ma composto. Non stupito, non turbato: presente.
— Capisco quanto possa essere stato forte. Il corpo cambia, ci sono tempeste ormonali, la mente si perde, e si cercano appigli. Hai cercato di ritrovare qualcosa che ti facesse sentire viva, forse…
— Sì. Non so se volevo essere punita o amata. Forse solo desiderata. Non da mio marito. Da qualcuno che non sapeva nulla di me.
— Hai vissuto un momento molto delicato. Il giudizio, adesso, non serve. Lascia che emergano le cose, anche quelle più crude. È un modo per curarsi.
Lei annuì appena. Dopo tanto tempo, finalmente, si sentiva vista.
Seconda seduta
Quando rientrò nello studio la settimana dopo, Camilla era un’altra. I capelli raccolti con una molletta sottile, alcune ciocche libere sul collo. Indossava una camicetta leggera, semitrasparente, e una gonna che lasciava intravedere la curva piena delle gambe. Nulla di esplicito, ma tutto sembrava calcolato. Ernesto la notò, come si nota un profumo prima ancora di scorgerne la fonte. Lei si accomodò sul lettino, si tolse i tacchi con un gesto lento, come un’offerta — al riposo, o a qualcosa di più antico. Il collo del piede si inarcò con grazia, poi le dita si aprirono, facendo vibrare il nylon dei collant. Ogni gesto era un messaggio cifrato. Ernesto iniziò a scrivere, meccanicamente. Ma fu travolto da quel profumo: cuoio, pelle, sudore trattenuto, intimo femminile. Non invadente, ma primitivo. Autentico. Gli arrivò diretto al basso ventre, risvegliando un desiderio che non passava per la mente. La parte più antica del suo cervello prese il sopravvento, quella senza etica né tempo. Sentì l’erezione montare sotto il tavolo, e per un istante si odiò. Quando Camilla tese il piedino verso di lui e il nylon gli sfiorò la guancia, sobbalzò. Il gesto, quasi impercettibile, era carico di un erotismo sottile, tagliente. Sollevò lo sguardo e incrociò i suoi occhi: pieni, muti, che chiedevano e offrivano insieme. Il piede si ritrasse lentamente, lasciandogli addosso un’eco fisica. Nei giorni seguenti, Ernesto si sentì come un equilibrista su un filo teso tra due grattacieli. Ogni pensiero andava a Camilla. Al piede, all’odore, allo sguardo. Ma anche alla sua fragilità. E alla propria. Più volte pensò di rinunciare. Bastava una telefonata per passare il caso a un collega. Avrebbe potuto dire di non sentirsi adatto, troppo coinvolto. E in parte sarebbe stato vero. Ma ogni volta che componeva il numero, qualcosa lo fermava. Non era solo desiderio. Era qualcosa di più pericoloso: un riconoscersi. Ernesto si vedeva in Camilla. Nella sua confusione, nella fame di sentirsi ancora vivo. E questo lo atterriva. La terza seduta si avvicinava. E lui non sapeva ancora se sarebbe stato in grado di resistere.
Terza seduta
Camilla entrò senza bussare. Ernesto era già lì, seduto, lo sguardo perso tra le righe del taccuino che non scriveva più. Quando la vide, il cuore gli tradì un battito. Non era sorpresa, era aspettativa.
Lei indossava un soprabito chiaro, allacciato stretto in vita, e nulla sotto. I capelli sciolti, le labbra leggermente arrossate dal vento. Gli occhi, quelli, avevano smesso di chiedere. Ora pretendevano.
Non disse una parola. Si avvicinò, lentamente, e si fermò davanti a lui.
— Camilla…
Lei lo zittì, questa volta con la bocca. Un bacio rapido, deciso, quasi brusco. Poi si allontanò appena e con un gesto secco sciolse il nodo del soprabito. Il tessuto scivolò a terra come un sipario che si apre sull’inevitabile. Era nuda, stupenda nella sua morbidezza. Ernesto si alzò lentamente. La sua mano sfiorò la guancia di lei, poi la nuca, poi la curva della schiena, i seni appetitosi. Camilla si voltò e gli offrì le spalle, poggiando i palmi sul lettino. Un invito. Una resa.
Lui si avvicinò da dietro, passandole le dita tra i capelli, poi lungo la colonna vertebrale, fino ai glutei, che accarezzò con lentezza. Le si chinò accanto, baciandola all’attaccatura del collo, mordendola piano. Camilla gemette.
Fu un amplesso feroce, viscerale. Ernesto la prese — rimanendo in piedi— con tutta la fame accumulata nei giorni di silenzio, nei ricordi rimasticati all’infinito. Lei si offriva, si spingeva contro di lui, ansimando parole sconnesse. Le mani di lui le stringevano i fianchi, la tenevano, la dominavano senza violenza.
Poi la girò, la fece sdraiare. Le gambe di lei si aprirono spontaneamente, accogliendolo. Ma lui non la penetrò subito. Si chinò tra le sue cosce, le baciò l’interno delle gambe, poi la lingua sfiorò le pieghe del suo sesso. Lungo, lento, profondo. Camilla inarcò la schiena, graffiandogli le spalle. Era il suo modo di dirgli “ricordami”.
Ernesto bevve da lei come da una sorgente. Voleva quel sapore, quel profumo. Voleva inciderlo nella mente, nella carne, nella memoria.
Solo dopo, quando lei tremava ormai, la prese di nuovo. E vennero insieme, quasi in un grido, come se si stessero perdendo e ritrovando nello stesso istante.
Rimasero lì, a lungo. Camilla gli passò le dita tra i capelli. Ernesto le baciò l’ombelico, poi salì sul seno, sfiorandolo con le labbra, respirandola.
Rimasero lì, nudi, intrecciati sul tappeto. Il seme rappreso tra le cosce di lei, la pelle lucida di sudore, i respiri ancora scomposti. L’odore era intenso, misto di sesso, pelle, confusione, e qualcosa di più intimo: verità.
Ernesto affondò il volto nell’incavo dei seni di Camilla. Inspirò profondamente, come se quell’odore potesse salvarlo da sé stesso.
Camilla lo accarezzava piano, con dita che tremavano. Non era più desiderio. Era abbandono. Era nudità interiore.
Camilla (sussurrando): — Così. Non voglio niente di più. Solo restare. Così.
Ernesto non rispose. La strinse solo più forte. E per un attimo, il mondo scomparve. Solo due corpi, due ferite, che si erano riconosciute nel mezzo della rovina.
Camilla ora giaceva su di lui, il respiro a tratti, la pelle febbricitante, intrisa di piacere. Tra le gambe, l’umidità calda della loro unione stava lentamente raffreddandosi, come cera che si solidifica dopo la fiamma. L’uomo, ancora dentro quell’abbandono, non poteva lasciarla. Non ancora. Il corpo di lei era un altare sconsacrato dove aveva deposto la parte più oscura — e forse più vera — di sé.
Si sollevò, lentamente. Camilla lo guardò da sotto, le labbra dischiuse, i capelli incollati alla fronte. Poi, senza una parola, come guidata da un bisogno antico, si voltò e prese tra le mani il sesso dell’uomo ancora umido. Lo accarezzò piano, quasi con gratitudine, poi lo accolse nella bocca — morbida, calda, affamata. Non per compiacerlo. Non per sottomettersi. Ma per reclamare l’ultimo frammento, l’ultima stilla di potere, di verità, di appartenenza.
Ernesto lasciò andare un suono basso, spezzato. Lei succhiava con una lentezza feroce, alternando dolcezza a morsi lievi, sguardo fisso sul suo. Lo fece tornare duro, lo riportò in vita. E quando sentì il fremito risalirgli la spina dorsale, affondò più a fondo, senza timore. Il seme le scivolò in gola, caldo, denso, e lei lo accolse tutto, senza distogliere lo sguardo, bevendolo come si beve qualcosa che non si vuole più perdere.
Poi si passò la lingua sulle labbra, lenta, come per assaporare quel gusto misto di colpa e potere. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno.
Epilogo
La primavera era arrivata lenta, tiepida, carica di promesse non dette. Ernesto aprì la finestra dello studio e lasciò che l’aria fresca invadesse la stanza, sollevando i fogli sulla scrivania. Il taccuino era ancora lì, chiuso. Da settimane.
Aveva ripreso a lavorare, ma con un rispetto diverso per i propri limiti. Non più l’illusione di essere invulnerabile. Ora sapeva che il confine tra il curare e l’amare è sottile, e che attraversarlo ha sempre un prezzo.
Non era stato facile, ma alla fine aveva preso la decisione giusta. Dopo l’ultima seduta con Camilla, quando l’intimità condivisa aveva rotto ogni barriera professionale, Ernesto aveva compreso che non poteva più essere il suo terapeuta.
Non subito, non con leggerezza. Ma con un peso profondo sul petto, aveva composto il numero di una collega, Martina. Una terapeuta esperta, sensibile, con una capacità rara di ascoltare il dolore altrui senza farsene travolgere. Gliene aveva parlato con cura, senza reticenze. E Camilla, dopo un lungo silenzio, aveva semplicemente detto: — Va bene.—Non c’era stato bisogno di spiegazioni. Forse aveva capito, forse aveva solo accettato che quel tipo di vicinanza non poteva più chiamarsi cura. Ernesto le aveva lasciato una scelta, ma anche una possibilità di guarigione autentica. Da lì in poi, aveva mantenuto le distanze. Per lei. E per sé.
Un pomeriggio, mentre sistemava alcune cartelle, ricevette una mail. Era di Camilla. Un messaggio breve, asciutto:
"Sto meglio. Grazie per avermi restituita alla vita, ai miei affetti. Non ti dimenticherò."
Ernesto la lesse più volte, senza fretta. Sentì un nodo salire alla gola. Non rispose. Non ce n’era bisogno.
Chiuse il computer e uscì in strada, incamminandosi senza una meta precisa, lasciandosi alle spalle il peso che per mesi lo aveva inchiodato. Non era felice, forse. Ma era vivo. E, in fondo, era abbastanza.
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