Lingua
di
Yuko
genere
etero
“È buona tua lingua?”
Il commesso arrossisce e non capisce. Mi fissa e vedo le pupille che gli si dilatano.
Poverino, mi fa una tenerezza. È nuovo, probabilmente l'hanno assunto per le ferie.
Ma io sono una viperetta e appena l'ho visto ho deciso di farlo sciogliere a fuoco lento.
Devo fare il brodo di carne per la cena di Natale e sto facendo la spesa, qui in Dolomiti. Ma quando l'ho visto, dietro al bancone della carne, non ho resistito.
Lavoro part time, forse. Si stava annoiando. Meglio vivacizzargli un poco la vigilia. Anche per lui è Natale, in fondo.
“Ho bisogno di lingua.”
Ripeto io, ma ormai quello è nel pallone.
Una donna orientale, nel cuore delle dolomiti, davanti al suo bancone della carne ha deciso di metterlo nei guai.
Accentuo apposta l'accento straniero e faccio finta di essere impacciata con l'italiano.
“Eee...” Lui scuote la testa, ma fa segno di non capire.
“Per fare brodo e tortellino!” E sfoggio il mio miglior sorriso.
Quello si rilassa con un sospiro di sollievo, ma la fronte imperlata di sudore tradisce l'emozione.
“Bianco costato, capone, sedano... cosa serve altro?” Continuo, contando sulle dita.
Lui sorride degli errori del mio lessico e si atteggia da chef che sta per condividere il suo savoir faire. “Le serve un bel pezzo di carne, signorina!”
“Wow!” Faccio io e lo osservo piegando la testa di lato e l'espressione maliziosa.
“Hai tu pezzo di carne?”
Quello stava per dire qualcosa e si ferma a metà.
“Maiale!” Dico all'improvviso, tutta concentrata inseguendo un'idea.
Quello arrossisce di nuovo. “No... mi scusi, signorina, io non...”
“Maiale!” Ripeto io. “Serve maiale?”
Quello si sente cadere, ma riesce a stare in piedi.
È la sagra dei sottintesi e dei malintesi.
“No, no. Maiale no. Ci vuole il manzo!”
“Ah ha! Un bel manzo?”
“Ha ha ha!”
Ora ride, finalmente. Sta al gioco e si diverte. Chissà come potrebbe andare a finire? Forse si sta chiedendo.
“Cappello di prete!” Propone lui.
“No, no! Prete no!” E faccio la faccia spaventata. Giù risate.
Poi gli faccio cenno di procedere: “Ok prete!”
Mi mostra un bel pezzo di carne. Taglia e impacchetta. Poi cerca il resto.
“Biancostato!” Mi mostra; io approvo e lui fa su nella carta e pesa. Sembra aver trovato il giusto ritmo, ma io sono in agguato.
“Allora mi fai provare tua lingua?” Riporto il discorso sull'argomento principale e lo guardo con un'espressione mielosa e invitante.
Lui sta lì a perdersi in sogni e fantasie, ma gli passa di fianco il collega più anziano e lui scatta che sembra un soldatino sull'attenti, rosso come un pezzo di filetto di scottona.
Poi ritorna serio e professionale e prende una lingua di vitello lunga un paio di spanne.
“Ma che lingua ha vitello?” Assumo un'espressione stupida, e poi scoppio a ridere.
Il commesso sorride, ma c'è in giro il collega e non può permettersi uscite di fantasia. Si vede che freme, ma deve trattenersi. Si mette a incartarla per pesarla.
“No, aspetta, fai vedere da vicino?”
Lui si ferma e mi guarda stupito. Poi mi porge il fagottino.
Io lo apro e tiro fuori l'arnese, realmente stupida. “Wow!” Lo soppeso, lo rigiro e lo guardo con vivo interesse. Lui mi guarda e sembra pendere dai miei gesti.
“Mica male, neh?” E scoppio ancora a ridere. Ride anche lui, ma poi diventiamo di colpo tutti e due seri. Lui mi guarda. Io con quella lingua in mano e tutte le battutine che abbiamo fatto fino ad ora.
“Ora ci vuole la patata.” Dico tutta seria.
“Meglio la cipolla.” Mi corregge lui. Ma ha afferrato il senso.
“Carota no?” Rilancio.
“E sia! La carota va bene.” Mi concede.
“Grande carota?” E di nuovo lo provoco con quello sguardo malizioso.
Lui sorride, ma ora è sotto controllo. Ci sta mettendo troppo tempo e questo non è passato inosservato. Cerca di tagliar corto e terminare il supplizio cui lo sto sottoponendo.
“Gliela incarto, va bene?” E allunga la mano per riprendere la lingua che ancora staziona tra le mie mani.
“Non avete un retrobottega per provare la lingua?” Gli sussurro, chinandomi verso di lui, smettendo quello stupido accento da straniera.
Quello si morde un labbro, sinceramente dispiaciuto. Leggo nei suoi occhi rimpianto e desiderio.
“Eee, purtroppo no, signorina.” Resta un po' impacciato, e intanto pesa la lingua.
“Pazienza.” Gli sorrido. “Sarà per la prossima volta.”
E, presi i pacchetti, gli strizzo l'occhio e me ne vado alla cassa.
Sento il suo sguardo che mi accompagna, che accarezza le mie forme. Sono sicura che mi sta guardando e intanto immagina cosa avremmo potuto fare nel retrobottega.
Mi giro e infatti lo vedo ancora lì che mi guarda, mentre una vecchietta gli sventola davanti al naso il numerino di carta che attesta che ora è il suo turno.
Gli sorrido. Col labiale gli scandisco un bel “Buon Natale!”. Mi tocco le labbra con la punta dell'indice e gli mando un bacio.
Il commesso arrossisce e non capisce. Mi fissa e vedo le pupille che gli si dilatano.
Poverino, mi fa una tenerezza. È nuovo, probabilmente l'hanno assunto per le ferie.
Ma io sono una viperetta e appena l'ho visto ho deciso di farlo sciogliere a fuoco lento.
Devo fare il brodo di carne per la cena di Natale e sto facendo la spesa, qui in Dolomiti. Ma quando l'ho visto, dietro al bancone della carne, non ho resistito.
Lavoro part time, forse. Si stava annoiando. Meglio vivacizzargli un poco la vigilia. Anche per lui è Natale, in fondo.
“Ho bisogno di lingua.”
Ripeto io, ma ormai quello è nel pallone.
Una donna orientale, nel cuore delle dolomiti, davanti al suo bancone della carne ha deciso di metterlo nei guai.
Accentuo apposta l'accento straniero e faccio finta di essere impacciata con l'italiano.
“Eee...” Lui scuote la testa, ma fa segno di non capire.
“Per fare brodo e tortellino!” E sfoggio il mio miglior sorriso.
Quello si rilassa con un sospiro di sollievo, ma la fronte imperlata di sudore tradisce l'emozione.
“Bianco costato, capone, sedano... cosa serve altro?” Continuo, contando sulle dita.
Lui sorride degli errori del mio lessico e si atteggia da chef che sta per condividere il suo savoir faire. “Le serve un bel pezzo di carne, signorina!”
“Wow!” Faccio io e lo osservo piegando la testa di lato e l'espressione maliziosa.
“Hai tu pezzo di carne?”
Quello stava per dire qualcosa e si ferma a metà.
“Maiale!” Dico all'improvviso, tutta concentrata inseguendo un'idea.
Quello arrossisce di nuovo. “No... mi scusi, signorina, io non...”
“Maiale!” Ripeto io. “Serve maiale?”
Quello si sente cadere, ma riesce a stare in piedi.
È la sagra dei sottintesi e dei malintesi.
“No, no. Maiale no. Ci vuole il manzo!”
“Ah ha! Un bel manzo?”
“Ha ha ha!”
Ora ride, finalmente. Sta al gioco e si diverte. Chissà come potrebbe andare a finire? Forse si sta chiedendo.
“Cappello di prete!” Propone lui.
“No, no! Prete no!” E faccio la faccia spaventata. Giù risate.
Poi gli faccio cenno di procedere: “Ok prete!”
Mi mostra un bel pezzo di carne. Taglia e impacchetta. Poi cerca il resto.
“Biancostato!” Mi mostra; io approvo e lui fa su nella carta e pesa. Sembra aver trovato il giusto ritmo, ma io sono in agguato.
“Allora mi fai provare tua lingua?” Riporto il discorso sull'argomento principale e lo guardo con un'espressione mielosa e invitante.
Lui sta lì a perdersi in sogni e fantasie, ma gli passa di fianco il collega più anziano e lui scatta che sembra un soldatino sull'attenti, rosso come un pezzo di filetto di scottona.
Poi ritorna serio e professionale e prende una lingua di vitello lunga un paio di spanne.
“Ma che lingua ha vitello?” Assumo un'espressione stupida, e poi scoppio a ridere.
Il commesso sorride, ma c'è in giro il collega e non può permettersi uscite di fantasia. Si vede che freme, ma deve trattenersi. Si mette a incartarla per pesarla.
“No, aspetta, fai vedere da vicino?”
Lui si ferma e mi guarda stupito. Poi mi porge il fagottino.
Io lo apro e tiro fuori l'arnese, realmente stupida. “Wow!” Lo soppeso, lo rigiro e lo guardo con vivo interesse. Lui mi guarda e sembra pendere dai miei gesti.
“Mica male, neh?” E scoppio ancora a ridere. Ride anche lui, ma poi diventiamo di colpo tutti e due seri. Lui mi guarda. Io con quella lingua in mano e tutte le battutine che abbiamo fatto fino ad ora.
“Ora ci vuole la patata.” Dico tutta seria.
“Meglio la cipolla.” Mi corregge lui. Ma ha afferrato il senso.
“Carota no?” Rilancio.
“E sia! La carota va bene.” Mi concede.
“Grande carota?” E di nuovo lo provoco con quello sguardo malizioso.
Lui sorride, ma ora è sotto controllo. Ci sta mettendo troppo tempo e questo non è passato inosservato. Cerca di tagliar corto e terminare il supplizio cui lo sto sottoponendo.
“Gliela incarto, va bene?” E allunga la mano per riprendere la lingua che ancora staziona tra le mie mani.
“Non avete un retrobottega per provare la lingua?” Gli sussurro, chinandomi verso di lui, smettendo quello stupido accento da straniera.
Quello si morde un labbro, sinceramente dispiaciuto. Leggo nei suoi occhi rimpianto e desiderio.
“Eee, purtroppo no, signorina.” Resta un po' impacciato, e intanto pesa la lingua.
“Pazienza.” Gli sorrido. “Sarà per la prossima volta.”
E, presi i pacchetti, gli strizzo l'occhio e me ne vado alla cassa.
Sento il suo sguardo che mi accompagna, che accarezza le mie forme. Sono sicura che mi sta guardando e intanto immagina cosa avremmo potuto fare nel retrobottega.
Mi giro e infatti lo vedo ancora lì che mi guarda, mentre una vecchietta gli sventola davanti al naso il numerino di carta che attesta che ora è il suo turno.
Gli sorrido. Col labiale gli scandisco un bel “Buon Natale!”. Mi tocco le labbra con la punta dell'indice e gli mando un bacio.
1
2
voti
voti
valutazione
5.6
5.6
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Modella per una notteracconto sucessivo
L'amazzone. 2. Due donne sole, nella giungla
Commenti dei lettori al racconto erotico