Giochi di corde
di
Yuko
genere
prime esperienze
"Yuko, ti posso legare?"
Sorrido all'ingenua domanda della mia compagna, sussurrata in un tono timido e rispettoso.
"Hai voglia, piccola! "
'Fuuka non immagina neanche con chi ha a che fare' pensavo io.
E invece quando mi sono trovata trapuntata come un salame, decorata da nodi artistici e complessi, dipinta dalla sua fantasia artistica, segmentata da funi variopinte che mi circoscrivevano seni, clavicole e spalle, arabescata come un affresco arabo, un'odalisca; il mio ventre in settori precisi, come una vetrata veneziana, un rosone gotico; le attenzioni ossessive della mia donna per ogni centimetro della mia pelle, adornata da contrasti cromatici, esaltata in ogni sua parte, accudita, forse anche venerata con pennellate di corde....
Ecco, ho capito che non avevo capito proprio nulla.
Ho palesato il mio ignorante provincialismo, la mia banale cognizione di legatura, ridotta al minimo di convenzioni stranote e prive di originalità alcuna.
E dall'esperienza ne sono uscita trasformata e grata.
Voglia di metafora, di significati occulti solo suggeriti, desiderio di compensazione.
"Sai, Fuuka? In realtà anch'io ho un particolare rapporto con le corde. Mi ci hai fatto pensare tu, e solo grazie alle tue dedite premure mi hai aperto lo sguardo su significati profondi del mio consueto agire, su cui non mi sono mai soffermata abbastanza. Anch'io ho un'esperienza da proporti con le corde. Ti legherò, sarà messa in gioco la tua ragione. La tua razionalità si ribellerà di fronte all'ovvio e al prevedibile, sarai sconfitta e umiliata, piangerai pur di essere riportata nella tua comfort zone, ma io te lo negherò. Non proverai dolore fisico, assolutamente, ma la tua psiche sarà lacerata.
Solo con l'abbandono totale nelle mie mani, la fiducia in me e solo me, incondizionata e slegata dalla ragione, avrai non la certezza, ma la possibilità di un'evoluzione emotiva e spirituale il cui significato e la cui entità per ora ti sono inaccessibili e sono inspiegabili. Perché la tua ragione sarà imbavagliata e solo il tuo spirito più intimo potrà amministrare e metabolizzare questa esperienza. Te la senti?"
Fuuka mi guarda con le lacrime agli occhi. Una manifesta espressione di consenso, adesione, già di abbandono. Accenna col viso a un 'sì' che ho già registrato e quando balbetta un monosillabo il nostro patto è sancito.
"Guarda che sarà per te una sfida in un terreno che non ti aspetti, in un'esperienza ben diversa da quella in cui tu eccelli magistralmente. Così opposta che paradossalmente sarà estremamente simile all'arte che già padroneggi e in cui mi hai introdotta. Ok?"
Lei annuisce e mi salta al collo abbracciandomi con una stretta che mi soffoca. Qualche singhiozzo di emozione corona l'inizio di un percorso dall'esito non scontato.
L'appuntamento è sotto casa sua, ma invece di salire da lei, le chiedo di scendere.
La carico in auto e ci muoviamo decise verso una meta che io solo conosco.
Lei si adegua e non chiede nulla. L'alone di mistero fa parte del percorso psicologico in cui desidero farle muovere i primi passi.
Il viaggio porta un po' di distensione in questo clima di attesa che stava diventando soffocante e quando giungiamo alla meta tolgo dal bagagliaio due pesanti zaini ingombri di materiale.
Fuuka mi guarda incuriosita.
“Corde.” rispondo io alla domanda inespressa. “Perchè, forse ti aspettavi altro?”
Lei sorride divertita e annuisce. La curiosità trapela dai suoi pori.
Camminiamo fino a una zona di guglie e pareti. Il calcare in questa zona del Catinaccio è giallo e verticale e in questo periodo dell'anno, fortunatamente, non c'è in giro nessuno.
La mia donna mastica convinzioni e il suo sguardo si atteggia in un'espressione di chi sa, ma non vuole darlo a vedere.
Ma la sensazione di troppa ovvietà che suggerisce l'ambiente dolomitico per chi si avvicina a una prima esperienza di corda, renderà il suo percorso ancora più rude e punitivo, per una metamorfosi ancora più radicale.
“Eccoci!” Esordisco io, alla base del verticale spigolo della più impressionante tra le torri del Vajolet. Il vento frizzante lenisce il pulsante calore dei raggi del sole; una fresca brezza ci muove i capelli, lungo sentieri imperscrutabili che solo l'etere suggerisce.
Fuuka osserva questo paesaggio per la prima volta, inspirando voluttuosamente l'aria rarefatta come per purificarsi i polmoni, poi alza lo sguardo, poco convinta, sullo spigolo giallo leggermente strapiombante che ci sovrasta, obbligando a piegare nuca e schiena all'indietro per indovinare la cima al suo culmine.
“Se ti aspetti che io riesca a salire su di lì...” sorride incredula indicando l'attacco della via, senza finire la frase. Ma io sorrido e non rispondo nulla. La mia giovane fidanzata ha dimenticato il vero morivo per cui siamo qui e io sono contenta, dentro di me, perchè l'impatto sarà ancora più forte e l'energia trasformante più vivida e fertile.
“Tieni.” Le dico soltanto, estraendo dallo zaino caschetto da roccia, imbragatura e scarpette da arrampicata.
L'aiuto nella vestizione, un rituale che enfatizza il superamento del confine tra l'ambiente ovvio e a misura d'uomo, quello dove si appoggiano solidamente i piedi e si regge senza esitazioni la stazione eretta e il regno dell'inaccessibile, in cui l'essere umano si muove contro natura e contro ogni ragionevolezza, quello proibito a noi, dove non si dovrebbe essere, pena l'estinzione.
Diverse centinaia di migliaia di anni in cui il genere Homo si è evoluto, da quando gli Australopitechi sono scesi dagli alberi, vengono cancellati da un soffio di magnesite, la polverina bianca che ci si sparge sulle dita per ridurre il rischio di scivolare e precipitare nel vuoto.
Aiuto Fuuka a infilarsi l'imbragatura aggiustandole adeguatamente i cosciali sugli inguini, e finalmente ecco la corda. La mia corda.
60 metri con un diametro di 8.3 mm, rossa e bianca.
Lei la prende tra le dita, dubbiosa: "sicura che mi tiene? "
Sorrido con sufficienza. Sta cominciando a capire.
"Ora ti lego."
La mia legatura è molto diversa dalla sua. "Ben pochi nodi e molto semplici", le spiego mentre osserva le mie mani che con scioltezza riproducono il nodo Savoia, "ma se sbagli rischi la vita, oppure... la perdi proprio. " Passo la corda negli anelli dei cosciali e della cintura e poi 'inseguo' il nodo con la corda di uscita, ripetendo le forme del 'Savoia' e formando il 'nodo a 8' finale. Anche qui, non devo sbagliare.
"Quindi, meglio non cadere?"
Conclude lei, cercando di indovinare le trame del gioco.
"Una cosa per volta, piccola."
Monto i tre moschettoni di sosta e in uno dei tre infilo un giro attorcigliato di corda.
"Questo è un mezzo nodo. Scorre, se lasciato a sé stesso, ma basta una piccola trazione delle tue dita e la corda si strozza, il nodo diventa intero e si blocca, impedendomi di precipitare. Mi hai capito bene?"
"Penso di no" risponde la mia compagna.
"Se io cado, Fuuka, precipito. Tu devi bloccare le corde e interromperai la mia caduta. Chiaro? Questo mezzo nodo si chiama 'mezzo barcaiolo'. Va bene?"
"Già meglio", risponde la ragazza aggrottando la fronte, "quindi... devo tenere la tua vita tra le mie mani?"
"Solo se cado, piccola. Se non cado non rischio nulla."
"Ecco, Yuko, cerca di non cadere!"
"Non ne ho intenzione, amore", la rassicuro, "ma se cado e tu sbagli, probabilmente sono una donna morta."
"Yuko... non erano questi i patti."
Il volto di Fuuka si oscura sotto il peso di questa responsabilità.
"Non temere, piccola. Non ho nessuna intenzione di cadere e, comunque, so che tu mi terresti bene."
Lei non sembra molto convinta e gli occhi le si inumidiscono di lacrime per il terrore.
Le accarezzo la punta del naso per tranquillizzarla.
"Stai serena, amore. Andrà tutto bene. Dammi un metro di corda e tienila lasca così non mi tiri giù dalla roccia mentre cerco di salire. Ok?"
"Ah! Perché rischio anche di farti cadere io? Ma Yuko..." cerca di obiettare lei, ma io sono già partita, rapida e decisa.
Salgo con perizia su un percorso che ho scelto facile appositamente, anche se non banale. La mia ragazza dovrà sfidare i suoi limiti, ma su un percorso in cui può farcela.
Ogni tanto mi fermo per dar tempo alla mia compagna di vita e di cordata di darmi corda, ma in una manciata di secondi supero gli ultimi metri strapiombanti, fermandomi su un terrazzino largo mezzo metro e profondo una spanna, a 35 metri da terra.
"Fuuka! " Grido in basso, intercettando uno sguardo che trasuda apprensione, "sciogli pure il mezzo barcaiolo!"
"Sciolgo tutti i nodi?"
"Nooo! Solo il mezzo barcaiolo! " Speriamo che non faccia cazzate. Ora sono io in apprensione. "Togli i moschettoni e quando la corda è tesa sali qui!"
"Io? Devo salire anch'io? Ma Yuko credevo che scherzassi! Mi sfracello!"
"Ecco, appunto. Devi fidarti di me e... della corda!"
Il vento strappa brandelli di frasi. La comunicazione è difficile e la ragazza comincia a capire cosa significhi essere unite fisicamente solo dalla corda, senza quasi poter neanche comunicare.
Lei armeggia sui moschettoni mentre recupero tutta la corda che avanza sotto i suoi piedi.
Tiro bene affinché si senta sicura nelle mie mani e le giunga un segno, anche se indiretto, della mia presenza, e la mia compagna affronta i primi facili gradoni in arrampicata.
Quando uno scalatore di una certa esperienza affronta un tratto ben al di sotto delle proprie capacità, l'arrampicata appare fluida e armonica, facile e scontata, ma chi, alle prime armi, si trova a dover ripetere l'arrampicata, senza esserne abituato, incappa da subito in grosse difficoltà.
Dopo i primi metri lo spigolo si impenna. I posti dove appoggiare i piedi scarseggiano e gli appigli per le mani non sono evidenti.
La difficoltà di quest'arrampicata, lo sento, è alla portata di Fuuka, ma la piccola deve conquistarsela, inventando un nuovo modo di procedere.
“Yuko, qui non so come salire!”
“Guarda bene, Fuuka, ci sono dei piccoli appoggi per le punte dei piedi. Cerca bene gli appigli, di qua e di là dello spigolo.”
La mia voce giunge interrotta dal vento, per nulla rassicurante come vorrei, e la piccola orientale si inchioda su un passaggio.
Si guarda intorno, ma ovunque volga gli occhi, lo sguardo precipita nel vuoto, verso il suolo, ormai più basso di parecchi metri. Lo spigolo non concede tregua e ovunque si guardi si vede di sotto.
La paura di cadere, molto naturale e umana, si insinua nei pensieri della mia compagna, incrinando le poche sicurezze ancora rimaste da quando ha staccato i piedi dall'attacco della via.
D'improvviso la corda che la lega diventa l'unico contatto con me, ma la mia figura resta nascosta da alcuni strapiombi e invisibile dalla sua posizione.
Quel filo rosso che ci unisce, unico contatto, sembra però troppo inconsistente, troppo esiguo.
“Yuko, tieni, tira bene!”
Io tiro la corda più che posso: la trazione si propaga ai cosciali e alla cintura dell'imbragatura di Fuuka, dandole qualche molecola di sicurezza, ma non abbastanza forza per sollevarla di peso. Deve muoversi lei.
La giapponesina annaspa con le mani e finalmente trova una crepa a cui attaccarsi con la mano destra. La sinistra sullo spigolo, un po' scivoloso. I piedi su alcune tacchette, riesce a salire ancora qualche metro fino a un terrazzino.
Ma più ci si alza e più aumenta il vuoto sotto ai piedi.
“Tieni, Yuko, ti prego.” La voce diventa tremolante e io, ancora, tiro la corda per farla sentire ben protetta.
Da quel punto la roccia è ben appigliata, ma la parete butta un poco in fuori, in strapiombo. Occorre coraggio e fiducia. Ogni metro guadagnato è un buon passo verso il nostro nuovo incontro.
Tiro ancora la corda per trasmettere sicurezza. Fuuka guarda in basso, dove i nostri zaini cominciano ad apparire due macchioline perse alla base della parete. Il vento non aiuta, dà instabilità ed erode sicurezza.
La cucciola sale ancora, ma sente le braccia stanche. “Usa bene i piedi, Fuuka!” La mia voce ora le giunge un poco più vicina e distinta.
Lei trova due posti buoni, allunga le braccia su uno spuntone e si spinge in alto. Ma il vuoto comincia a essere soffocante e la sensazione di risucchio verso il basso è angosciante.
Lei sale, ben tirata dalla corda, l'unica sua sicurezza. Una garanzia di salvezza poco convincente, nei suoi miseri 8.3 millimetri di spessore.
Ma improvvisamente un piede scivola e le mani non ce la fanno a reggere lo strappo; un urlo: Fuuka si stacca dalla roccia, la corda si tende come quella di una chitarra, si assottiglia, si allunga e la giovane si trova un metro più in basso, appesa nel vuoto.
“Yukooooo!” Un urlo disperato di fronte alla corda che sembra ridotta a uno spaghetto. Impossibile convincersi che possa reggere il peso di una persona. Il vuoto urla terrore nelle orecchie della povera nipponica.
Ma la corda tiene, non si rompe. Un vincolo indissolubile, un patto di protezione reciproca. Una garanzia di salvezza, se solo ci si abitua a fidarsi.
“Amore, non aver paura! Riattaccati alla roccia, vedrai che non è difficile, puoi farcela!”
La corda passa sopra uno spigolo affilato, lo sguardo atterrito di Fuuka vede già con l'immaginazione le fibre della corda da roccia sfilacciarsi contro il margine abrasivo del calcare.
Ma la corda tiene, non molla. Tenace baluardo di sopravvivenza.
“Devo uscire da questa situazione di...”
La giovane si arma di tenacia, si riattacca alla roccia e tira come una dannata. Non guarda neanche dove mettere i piedi, ma a ogni presa si tira su di braccia con un ringhio selvaggio e guadagna metri.
Ogni volta che sento la corda allentarsi, anch'io tiro, in modo che in caso di nuova caduta, la piccola non ricada troppo in basso, a causa dell'elasticità della corda e, superato un altro strapiombo, vedo il suo volto deciso a pochi metri da me.
“Ciao amore!” le do della benvenuta mentre lei mi guarda con un'espressione stupita.
Fuuka tira due respiri profondi, la fronte umida di sudore le ha incollato una ciocca di capelli, sfuggita al caschetto. “Tieni un attimo, Yuko, per favore.” Bisbiglia.
Io tiro la corda al massimo e blocco il nodo. “Appenditi pure, gioia.”
“Non mi fido, Yuko.”
“Devi fidarti, mia piccola. Oppure... Stai appesa con le braccia!”
Lei ci pensa su un po', poi, senza staccare le mani dagli appigli, prova ad appendersi. La corda si tende e si allunga, lei non si fida. “Sei sicura che tenga? Non si rompe sfregando sulla roccia?”
“Eeeh! Ce ne vuole. Certo che tiene. Ti pare che ti direi di appenderti alla corda per vederla rompersi e farti precipitare a valle?” La mia logica e inoppugnabile.
Lei prova ancora ad appendersi e finalmente si trova completamente di peso nelle mie mani, mentre può riposare le sue braccia.
La ragazza resta a fissare l'estremità del canapo che, in prospettiva, arriva direttamente nelle mie mani e capisce un po' di più il significato di questo sottile vincolo che lega le nostre vite. Una nelle mani dell'altra, a turno, in un moto di fiducia irrazionale e fortemente emotivo.
“Ok, riparto!” Dice infine, riattaccandosi alla parete. La sua espressione è determinata e ormai ha imparato a fidarsi, almeno un poco, della corda.
Con circospezione alza un piede su uno spuntone, muove le mani in cerca di appigli, spinge col piede e si alza. Sistema l'altro piede, cerca nuove prese per le mani e in poco tempo mi raggiunge sul terrazzino con un sospiro di sollievo.
“Yuko... davvero non pensavo. Ti ringrazio, ce l'abbiamo fatta!”
“Brava, piccola. Ti sei divertita?”
“Be'! Divertita non è l'espressione che meglio descrive il mio stato d'animo. Direi piuttosto che mi sono cagata addosso, per usare una perifrasi.”
Le sorrido baciandola sulle labbra. Un tocco di calore sulla sua pelle gelida per il vento e la paura.
“Ma dai, sei stata bravissima!”
Lei mi stringe con una mano attorno ai fianchi e il suo sguardo si perde in basso, oltre al terrazzino, da dove il suolo sembra così lontano.
“Dobbiamo scendere di lì?”
“No”, la correggo, “Dobbiamo salire di qui.” E le indico la prosecuzione oltre lo spigolo. “Non siamo ancora sulla cima; la via di roccia prosegue.”
“Cazzo. Ma siamo già molto in alto.” Protesta lei, che pensava di aver completato l'esperienza.
“E no. La via finisce sulla cima, tesoro. Ora però è più facile, ma si deve aggirare lo spigolo. Non mi vedrai più mentre arrampico. Sarà solo la corda a dirti che cosa sto facendo. E quando sarò al punto di sosta, non riusciremo a sentirci. Vedrai la corda che scorre più rapida, ma non potrai mollarla perché non saprai se sono arrivata. Quando sarà finita la corda io capirò che non scorre più e che quindi è finita. Ti metterò in sicura e tu, quando ricomincerò a tirare, saprai che devi smontare tutta la sosta, prendere i moschettoni e salire. La corda sarà l'unico mezzo per comunicare. Ok?”
Lei annuisce, più spaventata che convinta. Tutto questo è così insolito per lei e se non ci fosse il continuo rischio di precipitare probabilmente sarebbe anche divertente, ma il terrore di commettere un errore dalle conseguenze fatali la tiene sui carboni ardenti.
Io so che, alla fine, di veri rischi, se si fanno bene le manovre, in realtà non ci sono. Siamo all'altezza della situazione, ma per chi non è abituata è davvero difficile convincersi.
“E se cadi?” Mi chiede ancora. La responsabilità della mia vita nelle sue mani è un argomento che le tormenta la carne.
“Se cado, tu dovrai tenere la corda, bloccando il nodo.”
“Se cado io?” insiste Fuuka.
“Se cadi tu, io ti terrò. Non aver paura, amore. La tua vita sarà in buone mani, nelle 'mie' mani.”
La bacio ancora e riparto. Questo tiro di corda è più facile, anche se l'esposizione resta nauseante. Ovunque si guardi, per appoggiare un piede, per cercare un appiglio, lo sguardo incontra solo il vuoto. Non c'è un solo punto pianeggiante su cui riposare gli occhi.
Procedo spedita su una paretina verticale, poi aggiro lo spigolo scomparendo dalla vista di Fuuka.
Il lungo filo rosso e bianco scorre tra le dita della mia compagna, tramandandole i miei movimenti, ora veloci, ora più lenti. A volte la fune si ferma, mentre piazzo moschettoni di sicurezza intermedi, poi riparte. Nella mente della giovane asiatica, solo interrogativi senza risposta. Starà salendo? Sarà in difficoltà Yuko? Come mai ora si è fermata e non riparte? È nei guai?
Ma la corda riprende a muoversi, prima incerta poi decisa e la ragazza la guarda scivolare tra le sue dita, unico segmento che ci unisce, unica traccia della mia vita, ancora attiva e pulsante.
Salgo ancora, superando alcune cenge e facili gradini, poi lungo una spaccatura e dopo 45 metri sono di nuovo a un buon punto di sosta. Tiro la corda che però viene a fatica. La mia compagna non osa lasciare libera la cima nell'ipotesi che io sia ancora in arrampicata, ma quando la corda finisce, ricostruisco il nodo di sicurezza e tiro forte per farle capire che può sganciarsi e partire a sua volta.
Dal mio punto di sosta la corda non si muove più. Avrà capito, Fuuka, che deve staccare tutto e ripartire? Sarà in difficoltà la mia piccola amante? Ce la farà a fidarsi e a ripartire senza la mia vicinanza fisica ed emotiva?
Ma la corda, dopo qualche tentennamento, riparte, segno che la ragazza si sta muovendo.
Si muove lentamente, ma di continuo. Passano i metri, i secondi, e finalmente la vedo, molto più in basso, che ha girato lo spigolo e ora risale i facili gradini verso la spaccatura.
Mi vede e mi saluta con un sorriso smagliante. Arrampica ora con più decisione. Il fatto di aver ripreso un contatto visivo e verbale ha un effetto incoraggiante e sembra che finalmente si stia anche divertendo.
Quando mi raggiunge alla sosta, la piccola è tutta un'esplosione di entusiasmo.
Emozioni forti, sincere, primordiali. Freddo e fatica, paura e finalmente sicurezza, gioia, soddisfazione.
Mi si rannicchia di fianco, strette io e lei sul terrazzino. Mi abbraccia e mi bacia sulla bocca, mentre la assicuro ai moschettoni della sosta.
“Ti amo, Yuko!”
Non ha bisogno di dire altro. Sono i suoi occhi a raccontare le sue emozioni, a restituirmi i pensieri che turbinano nella testolina ben protetta dal caschetto da roccia, i capelli raccolti in una coda.
Io la abbraccio e la guardo dritta negli occhi, perdendomi in quell'oceano di inchiostro da cui si intravede la scintilla dell'infinito, della sua fiducia incondizionata, del suo abbandono nelle mie mani, nel suo affetto per me.
“Sei meravigliosa e terribile, gioia mia!”
Ci scambiamo il resto del materiale e riparto in verticale per l'ultimo tiro di corda.
Il tratto da affrontare è un po' più difficile, su un lungo muro verticale, ma la parete è piena di buchi in cui mettere le mani e dopo l'esperienza dei primi due tiri di corda, conto che Fuuka salga senza problemi. Le difficoltà sono comunque contenute e la rocca bellissima.
Arrampico volteggiando, godendomi i passaggi e arrivo sulla strettissima cima della torre. Mi accuccio attaccata al grosso ancoraggio di sosta e grido alla mia socia di mollare il nodo.
Le manovre ormai sono facili e presto la mia giovane amante si cimenta sulla dolomia verticale, con la sua espressione concentrata e risoluta.
Ormai ha capito meglio come muoversi e la vedo affrontare l'arrampicata con piglio deciso. Si fida della corda ed evita di guardare verso il basso. Il suo universo si concentra nei piccoli appigli a cui afferrarsi e agli esigui appoggi su cui mettere le punte dei piedi, e in pochi minuti mi raggiunge radiosa sulla cima. Il vento ci scompiglia i capelli e ci abbracciamo piene di gioia.
“Bene!” Riprende la parola battendo le mani in tono conclusivo. “Yuko, mi hai aperto un mondo. Ti sono grata. Mai avrei immaginato che una corda potesse trasmettere così tante emozioni e così diverse da quelle che ho imparato e che ti ho fatto conoscere quando modellavo i nodi sul tuo corpo. È stata un'esperienza stupenda e soprattutto perchè tu eri al mio fianco, tu hai saputo costruire la fiducia, la sicurezza, che si è trasmessa tra i due capi della nostra corda.”
“Guarda che non è ancora finita l'esperienza, amore.”
“Come no? Siamo in cima. Più in alto non si va.”
“Già, ma dobbiamo scendere.”
“E non c'è il sentiero?”
Con un gesto del braccio la invito a guardare bene intorno a sé. Non c'è più assolutamente nulla intorno alla cima della nostra torre. Solo il vento fischia libero e incontaminato. Le uniche linee visibili precipitano verso il basso e i primi tratti orizzontali si trovano almeno un centinaio di metri sotto alle nostre mutandine.
“Mmmh! Ok. Mi cali tu?”
“No, Fuuka, mi dispiace. Qui ognuna si deve calare da sola. Il nostro legame deve sciogliersi e ci riuniremo solo tra una calata e l'altra. Ora ognuna di noi avrà un rapporto esclusivo con la corda, senza mediazioni.”
La ragazza mi guarda preoccupata. “Rischi?”
“Quasi nessuno.”
“Cosa significa, 'quasi'?”
“Scherzo, piccola. Nessun rischio. Solo emozione. Se vuoi, divertimento.”
“Ok, ho capito. Morirò di paura.”
Con cura preparo le longes con cui ci attaccheremo agli ancoraggi e sistemo i due discensori sulle nostre imbragature.
Dovremo slegarci dalla corda che ci ha unite e ci ha trasmesso sicurezza e fiducia. Il gesto è molto emblematico e carico di pathos.
Scenderò io per prima, dopo aver sistemato il discensore di Fuuka sulla corda, in modo da distendere bene i capi e aspettarla sulla calata successiva. In questo modo posso bloccarle le corde in caso avesse bisogno.
“Mi raccomando, Fuuka. Resta sempre agganciata alla corda e non mollare mai le mani dai capi sotto al discensore o rischierai di precipitare. Comunque io dal basso ti terrò le corde, così, in realtà non dovresti rischiare nulla.”
La giovane mi guarda in silenzio e annuisce. Tecnicamente non è una cosa difficile, ma il fatto di calarsi da sola, senza intermediari, per trenta metri nel vuoto comporta un impatto emotivo devastante. Tanto più che non si è mai a rischio zero.
Mi calo per prima lasciando la mia compagna da sola sulla cima, con i suoi pensieri.
Sporgendosi riesce a vedermi che mi allontano rapidamente lungo la corda, ma soprattutto vede il vuoto che sotto di me prosegue per centinaia di metri e che incute timore e angoscia.
Da sopra non si vede, ma dopo trenta metri arrivo su un minuscolo terrazzino che interrompe la verticalità della parete e concede un attimo di respiro.
“Corda libera!” Urlo alla mia compagna, dopo essermi assicurata con i moschettoni ai cordini dell'ancoraggio.
Ora tocca a lei. Da sola.
In realtà tengo bene strette nelle mani le corde, in modo da controllare la sua discesa, ma dall'alto lei non può percepire questo senso di sicurezza.
Sa solo, la giovane compagna, che deve abbandonarsi appesa alla corda, nel vuoto, e scendere sperando che non si rompa la corda, che non si stacchi l'ancoraggio sulla cima, che non si strappi l'imbragatura e che non si spezzi il discensore. Poi anche che le sue braccia tengano senza mollare le corde che attraversano il discensore. Non dipende troppo dalla sua abilità ad arrampicare, non da forza o equilibrio. Puro abbandono alla corda, in una irrazionale fiducia incondizionata.
Dopo qualche minuto vedo spuntare il sedere di Fuuka oltre lo spigolo della vetta della torre.
La piccola si sta calando con circospezione e attenzione massima. Dal basso le tiro le corde per farla rallentare e controllarla, mentre i suoi occhi si concentrano sulla corda che scorre attraverso il discensore.
Tutto intorno è il vuoto, assoluto, stomachevole. Pareti verticali, tetti, strapiombi, esigui terrazzini in equilibrio precario. Solo immagini di morte e di terrore, ma la corda continua a scorrere, lentamente, regolarmente, attraverso il metallo del discensore, guadagnando centimetri, metri, minuti, vita.
Presto Fuuka arriva sotto a uno strapiombo dove il suo corpo si distacca completamente dalla parete, non potendo più neanche toccare la roccia con i piedi. La ragazza comincia a girare lentamente su sé stessa e ogni volta che il suo sguardo lascia la parete, la vista precipita sui ghiaioni laggiù, alla base della torre. Tutto intorno è solo vuoto, assenza di materia, fino alle montagne, laggiù, lontanissime. Vorrebbe chiudere gli occhi, Fuuka, ma deve controllare il movimento della corda negli strumenti, non deve scendere troppo veloce, non deve fermarsi, non deve infilare le dita nel discensore.
In basso non vede nulla, solo la parete che precipita, ma finalmente torna a girare verso la roccia e più sotto mi scorge, appiccicata alla dolomia, ma ancora tremendamente lontana.
“Amore! Ti piace?”
“Cazzo, Yuko.”
Ma la calata prosegue e appena arriva a portata di mano tiro dentro la mia fidanzata e la attacco agli ancoraggi del terrazzino a cui sono già appesa anch'io.
“Minchia, Yuko, stavolta sono davvero crepata di paura.”
“Lo so, amore. Ti capisco. È impossibile, razionalmente, fidarsi della corda. Ma ce l'abbiamo fatta. Forza, un'altra calata da trenta metri e siamo quasi arrivate.”
“Ma laggiù saranno più di trenta metri, cazzo. È una discesa infinita.”
“Non aver paura, gioia, dopo la prossima calata giriamo lo spigolo e saremo sopra agli zaini.”
Ricupero la corda, la nostra salvezza, sperando che non si incastri da nessuna parte o saremo bloccate in parete. Questa evenienza però non la comunico alla mia compagna.
Con qualche sasso che ci casca sui caschetti, la fune arriva libera su di noi.
Con gesti sicuri la passo nei nuovi anelli di calata, mentre Fuuka resta appigliata ai cordini dell'ancoraggio. Con un braccio le cingo i fianchi e me la avvicino fino a sentire il contatto con tutto il suo corpo. Odore di emozione, sentore di paura e sudore, odore di vita vissuta. Le stampo un bacio sulla bocca. “Ci siamo, amore?”
“Ci siamo, amore!”
Dipano i capi e lancio la successiva 'doppia'. La corda precipita schiantandosi sulla roccia con un rumore secco, come una frustata. Controllo che gli attrezzi siano in ordine, preparo il discensore della mia socia e parto decisa sulla seconda calata, questa volta più appoggiata alla parete.
Trenta metri più sotto mando i segnali convenzionali alla giovane che, molto più rapidamente di prima, mi raggiunge lanciando gridolini di eccitazione che rimbombano sulle pareti vicine. La piccola ci ha preso gusto e ha ricominciato a fidarsi della corda.
Appena riunite giriamo lo spigolo camminando su una larga cengia, ritornando al sole sull'ultima calata. Sotto di noi i nostri zaini sono due macchie di colore sul monotono grigiore del calcare.
L'ultima 'doppia' è una marcia trionfale. Fuuka salta e balza come una bambina, appesa alla corda sulla verticale degli zaini. Il gioco del volo, il sogno di Dedalo e Icaro finalmente avverato. Potersi librare nel vuoto in sicurezza, senza paura, in totale libertà.
Anche troppo rapidamente siamo nuovamente alla base della parete, proprio quando anche Fuuka cominciava a divertirsi. Il gioco è finito, però; l'avventura è davvero al suo termine.
Recupero la corda e la faccio su per riporla nello zaino. Ci togliamo le imbragature, queste cinture di castità che ci hanno strette ai fianchi e stritolato le cosce, ora finalmente tornano nello zaino, facendoci respirare nuovamente, come se avessimo trattenuto il fiato nelle ultime ore.
Guardo Fuuka negli occhi. Due braci accese di emozioni e di calore.
La abbraccio. Mi abbraccia. Ci baciamo. Nessuna parola turba il nostro amplesso.
La tua corda – Anima. La mia corda – Vita.
Sorrido all'ingenua domanda della mia compagna, sussurrata in un tono timido e rispettoso.
"Hai voglia, piccola! "
'Fuuka non immagina neanche con chi ha a che fare' pensavo io.
E invece quando mi sono trovata trapuntata come un salame, decorata da nodi artistici e complessi, dipinta dalla sua fantasia artistica, segmentata da funi variopinte che mi circoscrivevano seni, clavicole e spalle, arabescata come un affresco arabo, un'odalisca; il mio ventre in settori precisi, come una vetrata veneziana, un rosone gotico; le attenzioni ossessive della mia donna per ogni centimetro della mia pelle, adornata da contrasti cromatici, esaltata in ogni sua parte, accudita, forse anche venerata con pennellate di corde....
Ecco, ho capito che non avevo capito proprio nulla.
Ho palesato il mio ignorante provincialismo, la mia banale cognizione di legatura, ridotta al minimo di convenzioni stranote e prive di originalità alcuna.
E dall'esperienza ne sono uscita trasformata e grata.
Voglia di metafora, di significati occulti solo suggeriti, desiderio di compensazione.
"Sai, Fuuka? In realtà anch'io ho un particolare rapporto con le corde. Mi ci hai fatto pensare tu, e solo grazie alle tue dedite premure mi hai aperto lo sguardo su significati profondi del mio consueto agire, su cui non mi sono mai soffermata abbastanza. Anch'io ho un'esperienza da proporti con le corde. Ti legherò, sarà messa in gioco la tua ragione. La tua razionalità si ribellerà di fronte all'ovvio e al prevedibile, sarai sconfitta e umiliata, piangerai pur di essere riportata nella tua comfort zone, ma io te lo negherò. Non proverai dolore fisico, assolutamente, ma la tua psiche sarà lacerata.
Solo con l'abbandono totale nelle mie mani, la fiducia in me e solo me, incondizionata e slegata dalla ragione, avrai non la certezza, ma la possibilità di un'evoluzione emotiva e spirituale il cui significato e la cui entità per ora ti sono inaccessibili e sono inspiegabili. Perché la tua ragione sarà imbavagliata e solo il tuo spirito più intimo potrà amministrare e metabolizzare questa esperienza. Te la senti?"
Fuuka mi guarda con le lacrime agli occhi. Una manifesta espressione di consenso, adesione, già di abbandono. Accenna col viso a un 'sì' che ho già registrato e quando balbetta un monosillabo il nostro patto è sancito.
"Guarda che sarà per te una sfida in un terreno che non ti aspetti, in un'esperienza ben diversa da quella in cui tu eccelli magistralmente. Così opposta che paradossalmente sarà estremamente simile all'arte che già padroneggi e in cui mi hai introdotta. Ok?"
Lei annuisce e mi salta al collo abbracciandomi con una stretta che mi soffoca. Qualche singhiozzo di emozione corona l'inizio di un percorso dall'esito non scontato.
L'appuntamento è sotto casa sua, ma invece di salire da lei, le chiedo di scendere.
La carico in auto e ci muoviamo decise verso una meta che io solo conosco.
Lei si adegua e non chiede nulla. L'alone di mistero fa parte del percorso psicologico in cui desidero farle muovere i primi passi.
Il viaggio porta un po' di distensione in questo clima di attesa che stava diventando soffocante e quando giungiamo alla meta tolgo dal bagagliaio due pesanti zaini ingombri di materiale.
Fuuka mi guarda incuriosita.
“Corde.” rispondo io alla domanda inespressa. “Perchè, forse ti aspettavi altro?”
Lei sorride divertita e annuisce. La curiosità trapela dai suoi pori.
Camminiamo fino a una zona di guglie e pareti. Il calcare in questa zona del Catinaccio è giallo e verticale e in questo periodo dell'anno, fortunatamente, non c'è in giro nessuno.
La mia donna mastica convinzioni e il suo sguardo si atteggia in un'espressione di chi sa, ma non vuole darlo a vedere.
Ma la sensazione di troppa ovvietà che suggerisce l'ambiente dolomitico per chi si avvicina a una prima esperienza di corda, renderà il suo percorso ancora più rude e punitivo, per una metamorfosi ancora più radicale.
“Eccoci!” Esordisco io, alla base del verticale spigolo della più impressionante tra le torri del Vajolet. Il vento frizzante lenisce il pulsante calore dei raggi del sole; una fresca brezza ci muove i capelli, lungo sentieri imperscrutabili che solo l'etere suggerisce.
Fuuka osserva questo paesaggio per la prima volta, inspirando voluttuosamente l'aria rarefatta come per purificarsi i polmoni, poi alza lo sguardo, poco convinta, sullo spigolo giallo leggermente strapiombante che ci sovrasta, obbligando a piegare nuca e schiena all'indietro per indovinare la cima al suo culmine.
“Se ti aspetti che io riesca a salire su di lì...” sorride incredula indicando l'attacco della via, senza finire la frase. Ma io sorrido e non rispondo nulla. La mia giovane fidanzata ha dimenticato il vero morivo per cui siamo qui e io sono contenta, dentro di me, perchè l'impatto sarà ancora più forte e l'energia trasformante più vivida e fertile.
“Tieni.” Le dico soltanto, estraendo dallo zaino caschetto da roccia, imbragatura e scarpette da arrampicata.
L'aiuto nella vestizione, un rituale che enfatizza il superamento del confine tra l'ambiente ovvio e a misura d'uomo, quello dove si appoggiano solidamente i piedi e si regge senza esitazioni la stazione eretta e il regno dell'inaccessibile, in cui l'essere umano si muove contro natura e contro ogni ragionevolezza, quello proibito a noi, dove non si dovrebbe essere, pena l'estinzione.
Diverse centinaia di migliaia di anni in cui il genere Homo si è evoluto, da quando gli Australopitechi sono scesi dagli alberi, vengono cancellati da un soffio di magnesite, la polverina bianca che ci si sparge sulle dita per ridurre il rischio di scivolare e precipitare nel vuoto.
Aiuto Fuuka a infilarsi l'imbragatura aggiustandole adeguatamente i cosciali sugli inguini, e finalmente ecco la corda. La mia corda.
60 metri con un diametro di 8.3 mm, rossa e bianca.
Lei la prende tra le dita, dubbiosa: "sicura che mi tiene? "
Sorrido con sufficienza. Sta cominciando a capire.
"Ora ti lego."
La mia legatura è molto diversa dalla sua. "Ben pochi nodi e molto semplici", le spiego mentre osserva le mie mani che con scioltezza riproducono il nodo Savoia, "ma se sbagli rischi la vita, oppure... la perdi proprio. " Passo la corda negli anelli dei cosciali e della cintura e poi 'inseguo' il nodo con la corda di uscita, ripetendo le forme del 'Savoia' e formando il 'nodo a 8' finale. Anche qui, non devo sbagliare.
"Quindi, meglio non cadere?"
Conclude lei, cercando di indovinare le trame del gioco.
"Una cosa per volta, piccola."
Monto i tre moschettoni di sosta e in uno dei tre infilo un giro attorcigliato di corda.
"Questo è un mezzo nodo. Scorre, se lasciato a sé stesso, ma basta una piccola trazione delle tue dita e la corda si strozza, il nodo diventa intero e si blocca, impedendomi di precipitare. Mi hai capito bene?"
"Penso di no" risponde la mia compagna.
"Se io cado, Fuuka, precipito. Tu devi bloccare le corde e interromperai la mia caduta. Chiaro? Questo mezzo nodo si chiama 'mezzo barcaiolo'. Va bene?"
"Già meglio", risponde la ragazza aggrottando la fronte, "quindi... devo tenere la tua vita tra le mie mani?"
"Solo se cado, piccola. Se non cado non rischio nulla."
"Ecco, Yuko, cerca di non cadere!"
"Non ne ho intenzione, amore", la rassicuro, "ma se cado e tu sbagli, probabilmente sono una donna morta."
"Yuko... non erano questi i patti."
Il volto di Fuuka si oscura sotto il peso di questa responsabilità.
"Non temere, piccola. Non ho nessuna intenzione di cadere e, comunque, so che tu mi terresti bene."
Lei non sembra molto convinta e gli occhi le si inumidiscono di lacrime per il terrore.
Le accarezzo la punta del naso per tranquillizzarla.
"Stai serena, amore. Andrà tutto bene. Dammi un metro di corda e tienila lasca così non mi tiri giù dalla roccia mentre cerco di salire. Ok?"
"Ah! Perché rischio anche di farti cadere io? Ma Yuko..." cerca di obiettare lei, ma io sono già partita, rapida e decisa.
Salgo con perizia su un percorso che ho scelto facile appositamente, anche se non banale. La mia ragazza dovrà sfidare i suoi limiti, ma su un percorso in cui può farcela.
Ogni tanto mi fermo per dar tempo alla mia compagna di vita e di cordata di darmi corda, ma in una manciata di secondi supero gli ultimi metri strapiombanti, fermandomi su un terrazzino largo mezzo metro e profondo una spanna, a 35 metri da terra.
"Fuuka! " Grido in basso, intercettando uno sguardo che trasuda apprensione, "sciogli pure il mezzo barcaiolo!"
"Sciolgo tutti i nodi?"
"Nooo! Solo il mezzo barcaiolo! " Speriamo che non faccia cazzate. Ora sono io in apprensione. "Togli i moschettoni e quando la corda è tesa sali qui!"
"Io? Devo salire anch'io? Ma Yuko credevo che scherzassi! Mi sfracello!"
"Ecco, appunto. Devi fidarti di me e... della corda!"
Il vento strappa brandelli di frasi. La comunicazione è difficile e la ragazza comincia a capire cosa significhi essere unite fisicamente solo dalla corda, senza quasi poter neanche comunicare.
Lei armeggia sui moschettoni mentre recupero tutta la corda che avanza sotto i suoi piedi.
Tiro bene affinché si senta sicura nelle mie mani e le giunga un segno, anche se indiretto, della mia presenza, e la mia compagna affronta i primi facili gradoni in arrampicata.
Quando uno scalatore di una certa esperienza affronta un tratto ben al di sotto delle proprie capacità, l'arrampicata appare fluida e armonica, facile e scontata, ma chi, alle prime armi, si trova a dover ripetere l'arrampicata, senza esserne abituato, incappa da subito in grosse difficoltà.
Dopo i primi metri lo spigolo si impenna. I posti dove appoggiare i piedi scarseggiano e gli appigli per le mani non sono evidenti.
La difficoltà di quest'arrampicata, lo sento, è alla portata di Fuuka, ma la piccola deve conquistarsela, inventando un nuovo modo di procedere.
“Yuko, qui non so come salire!”
“Guarda bene, Fuuka, ci sono dei piccoli appoggi per le punte dei piedi. Cerca bene gli appigli, di qua e di là dello spigolo.”
La mia voce giunge interrotta dal vento, per nulla rassicurante come vorrei, e la piccola orientale si inchioda su un passaggio.
Si guarda intorno, ma ovunque volga gli occhi, lo sguardo precipita nel vuoto, verso il suolo, ormai più basso di parecchi metri. Lo spigolo non concede tregua e ovunque si guardi si vede di sotto.
La paura di cadere, molto naturale e umana, si insinua nei pensieri della mia compagna, incrinando le poche sicurezze ancora rimaste da quando ha staccato i piedi dall'attacco della via.
D'improvviso la corda che la lega diventa l'unico contatto con me, ma la mia figura resta nascosta da alcuni strapiombi e invisibile dalla sua posizione.
Quel filo rosso che ci unisce, unico contatto, sembra però troppo inconsistente, troppo esiguo.
“Yuko, tieni, tira bene!”
Io tiro la corda più che posso: la trazione si propaga ai cosciali e alla cintura dell'imbragatura di Fuuka, dandole qualche molecola di sicurezza, ma non abbastanza forza per sollevarla di peso. Deve muoversi lei.
La giapponesina annaspa con le mani e finalmente trova una crepa a cui attaccarsi con la mano destra. La sinistra sullo spigolo, un po' scivoloso. I piedi su alcune tacchette, riesce a salire ancora qualche metro fino a un terrazzino.
Ma più ci si alza e più aumenta il vuoto sotto ai piedi.
“Tieni, Yuko, ti prego.” La voce diventa tremolante e io, ancora, tiro la corda per farla sentire ben protetta.
Da quel punto la roccia è ben appigliata, ma la parete butta un poco in fuori, in strapiombo. Occorre coraggio e fiducia. Ogni metro guadagnato è un buon passo verso il nostro nuovo incontro.
Tiro ancora la corda per trasmettere sicurezza. Fuuka guarda in basso, dove i nostri zaini cominciano ad apparire due macchioline perse alla base della parete. Il vento non aiuta, dà instabilità ed erode sicurezza.
La cucciola sale ancora, ma sente le braccia stanche. “Usa bene i piedi, Fuuka!” La mia voce ora le giunge un poco più vicina e distinta.
Lei trova due posti buoni, allunga le braccia su uno spuntone e si spinge in alto. Ma il vuoto comincia a essere soffocante e la sensazione di risucchio verso il basso è angosciante.
Lei sale, ben tirata dalla corda, l'unica sua sicurezza. Una garanzia di salvezza poco convincente, nei suoi miseri 8.3 millimetri di spessore.
Ma improvvisamente un piede scivola e le mani non ce la fanno a reggere lo strappo; un urlo: Fuuka si stacca dalla roccia, la corda si tende come quella di una chitarra, si assottiglia, si allunga e la giovane si trova un metro più in basso, appesa nel vuoto.
“Yukooooo!” Un urlo disperato di fronte alla corda che sembra ridotta a uno spaghetto. Impossibile convincersi che possa reggere il peso di una persona. Il vuoto urla terrore nelle orecchie della povera nipponica.
Ma la corda tiene, non si rompe. Un vincolo indissolubile, un patto di protezione reciproca. Una garanzia di salvezza, se solo ci si abitua a fidarsi.
“Amore, non aver paura! Riattaccati alla roccia, vedrai che non è difficile, puoi farcela!”
La corda passa sopra uno spigolo affilato, lo sguardo atterrito di Fuuka vede già con l'immaginazione le fibre della corda da roccia sfilacciarsi contro il margine abrasivo del calcare.
Ma la corda tiene, non molla. Tenace baluardo di sopravvivenza.
“Devo uscire da questa situazione di...”
La giovane si arma di tenacia, si riattacca alla roccia e tira come una dannata. Non guarda neanche dove mettere i piedi, ma a ogni presa si tira su di braccia con un ringhio selvaggio e guadagna metri.
Ogni volta che sento la corda allentarsi, anch'io tiro, in modo che in caso di nuova caduta, la piccola non ricada troppo in basso, a causa dell'elasticità della corda e, superato un altro strapiombo, vedo il suo volto deciso a pochi metri da me.
“Ciao amore!” le do della benvenuta mentre lei mi guarda con un'espressione stupita.
Fuuka tira due respiri profondi, la fronte umida di sudore le ha incollato una ciocca di capelli, sfuggita al caschetto. “Tieni un attimo, Yuko, per favore.” Bisbiglia.
Io tiro la corda al massimo e blocco il nodo. “Appenditi pure, gioia.”
“Non mi fido, Yuko.”
“Devi fidarti, mia piccola. Oppure... Stai appesa con le braccia!”
Lei ci pensa su un po', poi, senza staccare le mani dagli appigli, prova ad appendersi. La corda si tende e si allunga, lei non si fida. “Sei sicura che tenga? Non si rompe sfregando sulla roccia?”
“Eeeh! Ce ne vuole. Certo che tiene. Ti pare che ti direi di appenderti alla corda per vederla rompersi e farti precipitare a valle?” La mia logica e inoppugnabile.
Lei prova ancora ad appendersi e finalmente si trova completamente di peso nelle mie mani, mentre può riposare le sue braccia.
La ragazza resta a fissare l'estremità del canapo che, in prospettiva, arriva direttamente nelle mie mani e capisce un po' di più il significato di questo sottile vincolo che lega le nostre vite. Una nelle mani dell'altra, a turno, in un moto di fiducia irrazionale e fortemente emotivo.
“Ok, riparto!” Dice infine, riattaccandosi alla parete. La sua espressione è determinata e ormai ha imparato a fidarsi, almeno un poco, della corda.
Con circospezione alza un piede su uno spuntone, muove le mani in cerca di appigli, spinge col piede e si alza. Sistema l'altro piede, cerca nuove prese per le mani e in poco tempo mi raggiunge sul terrazzino con un sospiro di sollievo.
“Yuko... davvero non pensavo. Ti ringrazio, ce l'abbiamo fatta!”
“Brava, piccola. Ti sei divertita?”
“Be'! Divertita non è l'espressione che meglio descrive il mio stato d'animo. Direi piuttosto che mi sono cagata addosso, per usare una perifrasi.”
Le sorrido baciandola sulle labbra. Un tocco di calore sulla sua pelle gelida per il vento e la paura.
“Ma dai, sei stata bravissima!”
Lei mi stringe con una mano attorno ai fianchi e il suo sguardo si perde in basso, oltre al terrazzino, da dove il suolo sembra così lontano.
“Dobbiamo scendere di lì?”
“No”, la correggo, “Dobbiamo salire di qui.” E le indico la prosecuzione oltre lo spigolo. “Non siamo ancora sulla cima; la via di roccia prosegue.”
“Cazzo. Ma siamo già molto in alto.” Protesta lei, che pensava di aver completato l'esperienza.
“E no. La via finisce sulla cima, tesoro. Ora però è più facile, ma si deve aggirare lo spigolo. Non mi vedrai più mentre arrampico. Sarà solo la corda a dirti che cosa sto facendo. E quando sarò al punto di sosta, non riusciremo a sentirci. Vedrai la corda che scorre più rapida, ma non potrai mollarla perché non saprai se sono arrivata. Quando sarà finita la corda io capirò che non scorre più e che quindi è finita. Ti metterò in sicura e tu, quando ricomincerò a tirare, saprai che devi smontare tutta la sosta, prendere i moschettoni e salire. La corda sarà l'unico mezzo per comunicare. Ok?”
Lei annuisce, più spaventata che convinta. Tutto questo è così insolito per lei e se non ci fosse il continuo rischio di precipitare probabilmente sarebbe anche divertente, ma il terrore di commettere un errore dalle conseguenze fatali la tiene sui carboni ardenti.
Io so che, alla fine, di veri rischi, se si fanno bene le manovre, in realtà non ci sono. Siamo all'altezza della situazione, ma per chi non è abituata è davvero difficile convincersi.
“E se cadi?” Mi chiede ancora. La responsabilità della mia vita nelle sue mani è un argomento che le tormenta la carne.
“Se cado, tu dovrai tenere la corda, bloccando il nodo.”
“Se cado io?” insiste Fuuka.
“Se cadi tu, io ti terrò. Non aver paura, amore. La tua vita sarà in buone mani, nelle 'mie' mani.”
La bacio ancora e riparto. Questo tiro di corda è più facile, anche se l'esposizione resta nauseante. Ovunque si guardi, per appoggiare un piede, per cercare un appiglio, lo sguardo incontra solo il vuoto. Non c'è un solo punto pianeggiante su cui riposare gli occhi.
Procedo spedita su una paretina verticale, poi aggiro lo spigolo scomparendo dalla vista di Fuuka.
Il lungo filo rosso e bianco scorre tra le dita della mia compagna, tramandandole i miei movimenti, ora veloci, ora più lenti. A volte la fune si ferma, mentre piazzo moschettoni di sicurezza intermedi, poi riparte. Nella mente della giovane asiatica, solo interrogativi senza risposta. Starà salendo? Sarà in difficoltà Yuko? Come mai ora si è fermata e non riparte? È nei guai?
Ma la corda riprende a muoversi, prima incerta poi decisa e la ragazza la guarda scivolare tra le sue dita, unico segmento che ci unisce, unica traccia della mia vita, ancora attiva e pulsante.
Salgo ancora, superando alcune cenge e facili gradini, poi lungo una spaccatura e dopo 45 metri sono di nuovo a un buon punto di sosta. Tiro la corda che però viene a fatica. La mia compagna non osa lasciare libera la cima nell'ipotesi che io sia ancora in arrampicata, ma quando la corda finisce, ricostruisco il nodo di sicurezza e tiro forte per farle capire che può sganciarsi e partire a sua volta.
Dal mio punto di sosta la corda non si muove più. Avrà capito, Fuuka, che deve staccare tutto e ripartire? Sarà in difficoltà la mia piccola amante? Ce la farà a fidarsi e a ripartire senza la mia vicinanza fisica ed emotiva?
Ma la corda, dopo qualche tentennamento, riparte, segno che la ragazza si sta muovendo.
Si muove lentamente, ma di continuo. Passano i metri, i secondi, e finalmente la vedo, molto più in basso, che ha girato lo spigolo e ora risale i facili gradini verso la spaccatura.
Mi vede e mi saluta con un sorriso smagliante. Arrampica ora con più decisione. Il fatto di aver ripreso un contatto visivo e verbale ha un effetto incoraggiante e sembra che finalmente si stia anche divertendo.
Quando mi raggiunge alla sosta, la piccola è tutta un'esplosione di entusiasmo.
Emozioni forti, sincere, primordiali. Freddo e fatica, paura e finalmente sicurezza, gioia, soddisfazione.
Mi si rannicchia di fianco, strette io e lei sul terrazzino. Mi abbraccia e mi bacia sulla bocca, mentre la assicuro ai moschettoni della sosta.
“Ti amo, Yuko!”
Non ha bisogno di dire altro. Sono i suoi occhi a raccontare le sue emozioni, a restituirmi i pensieri che turbinano nella testolina ben protetta dal caschetto da roccia, i capelli raccolti in una coda.
Io la abbraccio e la guardo dritta negli occhi, perdendomi in quell'oceano di inchiostro da cui si intravede la scintilla dell'infinito, della sua fiducia incondizionata, del suo abbandono nelle mie mani, nel suo affetto per me.
“Sei meravigliosa e terribile, gioia mia!”
Ci scambiamo il resto del materiale e riparto in verticale per l'ultimo tiro di corda.
Il tratto da affrontare è un po' più difficile, su un lungo muro verticale, ma la parete è piena di buchi in cui mettere le mani e dopo l'esperienza dei primi due tiri di corda, conto che Fuuka salga senza problemi. Le difficoltà sono comunque contenute e la rocca bellissima.
Arrampico volteggiando, godendomi i passaggi e arrivo sulla strettissima cima della torre. Mi accuccio attaccata al grosso ancoraggio di sosta e grido alla mia socia di mollare il nodo.
Le manovre ormai sono facili e presto la mia giovane amante si cimenta sulla dolomia verticale, con la sua espressione concentrata e risoluta.
Ormai ha capito meglio come muoversi e la vedo affrontare l'arrampicata con piglio deciso. Si fida della corda ed evita di guardare verso il basso. Il suo universo si concentra nei piccoli appigli a cui afferrarsi e agli esigui appoggi su cui mettere le punte dei piedi, e in pochi minuti mi raggiunge radiosa sulla cima. Il vento ci scompiglia i capelli e ci abbracciamo piene di gioia.
“Bene!” Riprende la parola battendo le mani in tono conclusivo. “Yuko, mi hai aperto un mondo. Ti sono grata. Mai avrei immaginato che una corda potesse trasmettere così tante emozioni e così diverse da quelle che ho imparato e che ti ho fatto conoscere quando modellavo i nodi sul tuo corpo. È stata un'esperienza stupenda e soprattutto perchè tu eri al mio fianco, tu hai saputo costruire la fiducia, la sicurezza, che si è trasmessa tra i due capi della nostra corda.”
“Guarda che non è ancora finita l'esperienza, amore.”
“Come no? Siamo in cima. Più in alto non si va.”
“Già, ma dobbiamo scendere.”
“E non c'è il sentiero?”
Con un gesto del braccio la invito a guardare bene intorno a sé. Non c'è più assolutamente nulla intorno alla cima della nostra torre. Solo il vento fischia libero e incontaminato. Le uniche linee visibili precipitano verso il basso e i primi tratti orizzontali si trovano almeno un centinaio di metri sotto alle nostre mutandine.
“Mmmh! Ok. Mi cali tu?”
“No, Fuuka, mi dispiace. Qui ognuna si deve calare da sola. Il nostro legame deve sciogliersi e ci riuniremo solo tra una calata e l'altra. Ora ognuna di noi avrà un rapporto esclusivo con la corda, senza mediazioni.”
La ragazza mi guarda preoccupata. “Rischi?”
“Quasi nessuno.”
“Cosa significa, 'quasi'?”
“Scherzo, piccola. Nessun rischio. Solo emozione. Se vuoi, divertimento.”
“Ok, ho capito. Morirò di paura.”
Con cura preparo le longes con cui ci attaccheremo agli ancoraggi e sistemo i due discensori sulle nostre imbragature.
Dovremo slegarci dalla corda che ci ha unite e ci ha trasmesso sicurezza e fiducia. Il gesto è molto emblematico e carico di pathos.
Scenderò io per prima, dopo aver sistemato il discensore di Fuuka sulla corda, in modo da distendere bene i capi e aspettarla sulla calata successiva. In questo modo posso bloccarle le corde in caso avesse bisogno.
“Mi raccomando, Fuuka. Resta sempre agganciata alla corda e non mollare mai le mani dai capi sotto al discensore o rischierai di precipitare. Comunque io dal basso ti terrò le corde, così, in realtà non dovresti rischiare nulla.”
La giovane mi guarda in silenzio e annuisce. Tecnicamente non è una cosa difficile, ma il fatto di calarsi da sola, senza intermediari, per trenta metri nel vuoto comporta un impatto emotivo devastante. Tanto più che non si è mai a rischio zero.
Mi calo per prima lasciando la mia compagna da sola sulla cima, con i suoi pensieri.
Sporgendosi riesce a vedermi che mi allontano rapidamente lungo la corda, ma soprattutto vede il vuoto che sotto di me prosegue per centinaia di metri e che incute timore e angoscia.
Da sopra non si vede, ma dopo trenta metri arrivo su un minuscolo terrazzino che interrompe la verticalità della parete e concede un attimo di respiro.
“Corda libera!” Urlo alla mia compagna, dopo essermi assicurata con i moschettoni ai cordini dell'ancoraggio.
Ora tocca a lei. Da sola.
In realtà tengo bene strette nelle mani le corde, in modo da controllare la sua discesa, ma dall'alto lei non può percepire questo senso di sicurezza.
Sa solo, la giovane compagna, che deve abbandonarsi appesa alla corda, nel vuoto, e scendere sperando che non si rompa la corda, che non si stacchi l'ancoraggio sulla cima, che non si strappi l'imbragatura e che non si spezzi il discensore. Poi anche che le sue braccia tengano senza mollare le corde che attraversano il discensore. Non dipende troppo dalla sua abilità ad arrampicare, non da forza o equilibrio. Puro abbandono alla corda, in una irrazionale fiducia incondizionata.
Dopo qualche minuto vedo spuntare il sedere di Fuuka oltre lo spigolo della vetta della torre.
La piccola si sta calando con circospezione e attenzione massima. Dal basso le tiro le corde per farla rallentare e controllarla, mentre i suoi occhi si concentrano sulla corda che scorre attraverso il discensore.
Tutto intorno è il vuoto, assoluto, stomachevole. Pareti verticali, tetti, strapiombi, esigui terrazzini in equilibrio precario. Solo immagini di morte e di terrore, ma la corda continua a scorrere, lentamente, regolarmente, attraverso il metallo del discensore, guadagnando centimetri, metri, minuti, vita.
Presto Fuuka arriva sotto a uno strapiombo dove il suo corpo si distacca completamente dalla parete, non potendo più neanche toccare la roccia con i piedi. La ragazza comincia a girare lentamente su sé stessa e ogni volta che il suo sguardo lascia la parete, la vista precipita sui ghiaioni laggiù, alla base della torre. Tutto intorno è solo vuoto, assenza di materia, fino alle montagne, laggiù, lontanissime. Vorrebbe chiudere gli occhi, Fuuka, ma deve controllare il movimento della corda negli strumenti, non deve scendere troppo veloce, non deve fermarsi, non deve infilare le dita nel discensore.
In basso non vede nulla, solo la parete che precipita, ma finalmente torna a girare verso la roccia e più sotto mi scorge, appiccicata alla dolomia, ma ancora tremendamente lontana.
“Amore! Ti piace?”
“Cazzo, Yuko.”
Ma la calata prosegue e appena arriva a portata di mano tiro dentro la mia fidanzata e la attacco agli ancoraggi del terrazzino a cui sono già appesa anch'io.
“Minchia, Yuko, stavolta sono davvero crepata di paura.”
“Lo so, amore. Ti capisco. È impossibile, razionalmente, fidarsi della corda. Ma ce l'abbiamo fatta. Forza, un'altra calata da trenta metri e siamo quasi arrivate.”
“Ma laggiù saranno più di trenta metri, cazzo. È una discesa infinita.”
“Non aver paura, gioia, dopo la prossima calata giriamo lo spigolo e saremo sopra agli zaini.”
Ricupero la corda, la nostra salvezza, sperando che non si incastri da nessuna parte o saremo bloccate in parete. Questa evenienza però non la comunico alla mia compagna.
Con qualche sasso che ci casca sui caschetti, la fune arriva libera su di noi.
Con gesti sicuri la passo nei nuovi anelli di calata, mentre Fuuka resta appigliata ai cordini dell'ancoraggio. Con un braccio le cingo i fianchi e me la avvicino fino a sentire il contatto con tutto il suo corpo. Odore di emozione, sentore di paura e sudore, odore di vita vissuta. Le stampo un bacio sulla bocca. “Ci siamo, amore?”
“Ci siamo, amore!”
Dipano i capi e lancio la successiva 'doppia'. La corda precipita schiantandosi sulla roccia con un rumore secco, come una frustata. Controllo che gli attrezzi siano in ordine, preparo il discensore della mia socia e parto decisa sulla seconda calata, questa volta più appoggiata alla parete.
Trenta metri più sotto mando i segnali convenzionali alla giovane che, molto più rapidamente di prima, mi raggiunge lanciando gridolini di eccitazione che rimbombano sulle pareti vicine. La piccola ci ha preso gusto e ha ricominciato a fidarsi della corda.
Appena riunite giriamo lo spigolo camminando su una larga cengia, ritornando al sole sull'ultima calata. Sotto di noi i nostri zaini sono due macchie di colore sul monotono grigiore del calcare.
L'ultima 'doppia' è una marcia trionfale. Fuuka salta e balza come una bambina, appesa alla corda sulla verticale degli zaini. Il gioco del volo, il sogno di Dedalo e Icaro finalmente avverato. Potersi librare nel vuoto in sicurezza, senza paura, in totale libertà.
Anche troppo rapidamente siamo nuovamente alla base della parete, proprio quando anche Fuuka cominciava a divertirsi. Il gioco è finito, però; l'avventura è davvero al suo termine.
Recupero la corda e la faccio su per riporla nello zaino. Ci togliamo le imbragature, queste cinture di castità che ci hanno strette ai fianchi e stritolato le cosce, ora finalmente tornano nello zaino, facendoci respirare nuovamente, come se avessimo trattenuto il fiato nelle ultime ore.
Guardo Fuuka negli occhi. Due braci accese di emozioni e di calore.
La abbraccio. Mi abbraccia. Ci baciamo. Nessuna parola turba il nostro amplesso.
La tua corda – Anima. La mia corda – Vita.
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