Il Gran Premio di Formula uno di Monza

di
genere
saffico

"Dottoressa Nikura al telefono in studio medici." Un'asettica voce gracchiante in corridoio, nel reparto di medicina.
'Ma chi sminuzza le palle già di primo mattino mentre sto facendo il giro visite?' Mi stizzisco subito mentre sto valutando un paziente.
L'attività clinica nell'ospedale san Gerardo di Monza è già a pieno regime.
Prendo in mano il telefono, svogliatamente: "Si, Nikura, medicina."
"Pronto! La dottoressa Nikura? " Una voce entusiasta all'altro capo del telefono.
"Eh, l'ho appena detto." Io, sempre più impaziente.
"Dottor Giorgio Tirapacchi, Direzione Sanitaria! "
'Nooo, Tirapacchi!' Penso con sgomento dentro di me. Un menasfiga che peggio non ce n'è. Uno che ha il destino altrui scritto nel suo nome. Solo a pronunciare il suo nome la giornata si riempie di sciagure. L'ultima collega che l'ha nominato, l'anno scorso, subito dopo è scivolata sul pavimento bagnato e si è fratturata un femore, a fine giugno, due giorni prima di andare in vacanza. La mia mattina si tinge di grigio plumbeo e di nefasti presagi.
"Dottor Tirapacchi! Ma che piacere sentirla!" Mento spudoratamente nell'utopistico tentativo di rimbalzare la iettatura altrove.
“Grazie, grazie; altrettanto per me. Senta dottoressa, domenica prossima è di turno in Pronto Soccorso?”
“Sì, certo. Perchè?”
“Guardi, abbiamo ricevuto ieri un'insolita richiesta. Lei sa, vero, che domenica ci sarà il gran premio di formula uno, qui a Monza?”
“No, veramente non...”
“Comunque. Il nostro ospedale, in quanto il più vicino, sarà tenuto a offrire assistenza sanitaria in caso di bisogno.”
“E quindi?”
“Niente. Ci hanno chiesto un medico esperto per fare assistenza ai box, perché il loro dottore ha dovuto rientrare a casa sua per un problema familiare.”
“E io che ci posso fare?” Mi sembra di perdere il tempo, e ho sei malati da visitare ancora.
“La Direzione Generale ha chiesto alla Direzione Medica di Presidio e noi abbiamo deciso di mandare lei, dottoressa.”
“Io? E che ci vado a fare là?”
“Guardi Nikon”
“No, Nikura.”
“Cosa? Sicura?”
“No, Nikura!” 'Questo è deficiente' penso intanto.
“Non capisco, la linea è disturbata.”
“Mi chiamo NIKURA!”
“Che? Lo so, lo so: la dottoressa Mykiamo Nikura!”
'Cazzo' penso. 'Questa telefonata sta diventando irreale. Sono in un brutto sogno e non riesco a svegliarmi.'
“Allora, Tirapacchi. Il mio nome è N-i-k-u-r-a Y-u-k-o, ok? Dicevo che io non ho assolutamente esperienza di come si fa assistenza ai box.”
“Guardi, Tikura...”
“Chiamami Yuko, Tirapacchi, e diamoci del tu, che siamo colleghi.”
“Yukon?”
“Ma sì, e vengo dal Klondike. Dai, cosa devo fare a 'sto Gran Premio? Non so assolutamente cosa può capitare.”
“Ma nulla di che, Yukon, davvero. È un pro forma. Solo che qualcuno deve esserci ai box. Se poi capita qualcosa, lo mandi qui in elicottero.”
“Ma non hanno altri da mandare? E se sta male qualcuno del pubblico?”
“Per quello c'è il 112. Tu ti occupi solo dello staff. Proprio all'ultimo momento non hanno trovato sostituti: per questo hanno chiesto a noi. Ci tocca. Ma guarda che ci guadagnerai un bel gruzzolo, e poi ti vedi il Gran Premio! Ah, Yukon, ricordati di portare il fonendoscopio e lo sfigmomanometro, e vai con la divisa dell'ospedale!”
'Ma che bel consiglio che mi ha dato', penso ancora, 'cosa si aspettava che avrei portato? L'uncinetto?'
“Wow”, faccio io, per nulla entusiasta, “E chi manderete in Pronto Soccorso al mio posto?”
“Qualcuno tra i neo assunti. Ci penso io a trovare il fortunato.”
Mi immagino la gioia di ricevere questa bella notizia. Chi meglio di Tirapacchi poteva recarla? Così anche i nuovi colleghi conosceranno lo iettatore del San Gerardo.
Alla fine mi lascio convincere ad andare all'autodromo. Sarà sempre una nuova esperienza e poi non sono mai stata a un Gran Premio. In fondo mi evito persino un turno in PS e mi daranno anche dei soldi.”
Esco, a fine giornata, dall'ospedale, già pensando che questa volta, con Tirapacchi, in fondo non è andata poi così male, quando vedo sul parabrezza della mia Mazda 3 una cagata di uccello grossa come un vasetto di yogurt da 150 grammi (alle noci, per la precisione). La sfiga del menagramo da qualche parte doveva scaricarsi. Ma che è stato? Uno pterodattilo con lo squaraus? Ma non erano estinti?

Domenica mattina arrivo molto presto, come mi è stato richiesto dagli organizzatori. Sono tutta eccitata. Non sono mai stata nei box, anche se molto tempo fa avevo seguito un po' la Formula Uno. Ma davvero è passato tanto tempo: Niki Lauda giocava ancora con le macchinine e il Drake guidava la monoposto. Sì, insomma, le auto, anche dal vivo, erano ancora in bianco e nero.
Mi spiegano, scusandosi, che il loro medico ha dovuto assentarsi in grande fretta. Il collega aveva contattato la Direzione Sanitaria del mio ospedale per sincerarsi della possibilità di essere sostituito in caso di bisogno. Una remota eventualità. Ma aveva parlato esattamente con un tale Tirapacchi e, poco dopo aver concordato una strategia, era stato chiamato dai suoi famigliari. Sua mamma era caduta dal lettino di pilates e si era rotta una spalla.
Il rombo dei motori è assordante mentre si svolgono le ultime verifiche. Mi viene fornita una cuffia con cui non sento più nulla, se non, appunto, il rombo dei motori.
Guardo le monoposto luccicanti di voglia di lottare come gladiatori prima della pugna al Circo Flavio. Probabilmente qui stanno girando volti famosi che però non conosco. Alcune bionde dalle procaci tette incatenate in maglie attillate e in jeans pubici girano facendo foto e collezionando autografi, mentre meccanici e ingegneri si danno da fare perchè investimenti miliardari, magnifiche opere dell'ingegno e della meccanica, realizzino i loro sogni pecuniari.
Nella stanza dei monitor tutti sono pieni di premure per me quando, poco prima del giro di prova, la mia solitudine acustica è rotta da un richiamo alla radio che scopro solo adesso albergare dentro alla mia cuffia.
“Dottoressa Nikura, dottoressa Nikura al box Red Bull.”
Ecco, lo sapevo che veniva fuori qualche casino. Raccolgo i miei strumenti e mi guardo in giro in cerca di una guida. Un volontario della Croce Rossa mi accompagna, ma presto mi vengono incontro i tecnici della famosa lattina argento e blu.
“Abbiamo un problema, dottoressa”, mi anticipano in un inglese impeccabile. “Hachisunohana, il nostro pilota, ha le palpitazioni.”
Il nome, decisamente giapponese, mi ricorda qualcosa che non riesco ad afferrare sul momento.
“Bisogna mandarlo in ospedale, che cosa possiamo fare qui?” Prendo posizione allargando le braccia.
“Ma dottoressa, fra poco inizia la gara.” Vengo circondata da tecnici dall'aspetto molto preoccupato e agitato. Qui ci sono in ballo milioni di euro.
“Ma se il pilota sta male non può correre. Avete preso dei parametri?”
“Sì”, mi risponde un altro volontario della Croce Rossa, “pressione 135/80, saturazione 99%, però la frequenza cardiaca è 125 battiti al minuto.”
“Ecco, appunto.” Concludo con i tecnici: “Hachisunohana non può partire, come fa a guidare con quella frequenza cardiaca?”
“Come fa a ricordarsi questo nome?”, interviene un ingegnere che sembra sbalordito.
“Ma mi ha vista in faccia? E poi il cognome del pilota è un termine di uso comune.”
Tutti mi guardano ora con stupore. Immagino che quel cognome sia difficile da memorizzare e io stessa al momento non so dare significato a quelle lettere.
“In effetti siamo capitati bene”, prende la parola un uomo più anziano, forse il capo della combriccola. “Sa, dottoressa, la nostra casa usa motori Honda, dal Giappone, Hachisunohana è giapponese, e ora abbiamo anche una dottoressa giapponese.”. Il boss ottiene l'effetto di sedare un po' di agitazione, forse sta cercando di salvare la situazione.
Mi si avvicina e mi prende delicatamente per il gomito, tirandomi da parte. Il gruppo si allarga per lasciar fare al dirigente.
“Vede dottoressa, qui ci sono investimenti miliardari, ci dia una mano.”
“Ma, direttore, di fronte a una tachicardia di questo tipo non posso mica defibrillare il suo pilota, mi capisce?”
Lui mi porta un po' più lontano e abbassa la voce avvicinandosi di più a me. Gli altri capiscono e si allontanano.
“Hachisunohana ha già sofferto di attacchi di panico prima di una gara. Penso che anche stavolta sia una cosa simile, non una vera malattia. Faccia una visita medica, magari risolviamo tutto con qualche goccina di valium.”
“Ma, mi scusi, voi volete veramente fare guidare un pilota in un Gran Premio dopo avergli somministrato un sonnifero?”
Lui scuote un poco la testa. Mi stringe un po' il gomito e mi guarda con un'espressione supplichevole. “Ci dia una mano, dottoressa, la prego.”
Alla fine acconsento. In fondo una visita almeno la devo fare. Se poi la situazione non si sblocca, io il pilota lo mando in ospedale. Mi sembra una porcata rischiare la vita di una persona per la sola questione dei miliardi. E se il tizio avesse bevuto troppa Red Bull? In fondo sono proprio loro che la sponsorizzano.
Mi lascio condurre ai box. Da una meravigliosa monoposto si alza il pilota, in una candida tuta bianca con il rosso tondo del disco solare sulla schiena. A vedere la bandiera del mio paese mi sento commuovere. 'Dai', mi dico, 'cerchiamo di aiutare il connazionale.”
Ma quando il pilota si toglie il casco su cui si stagliano le grandi lettere del suo nome F. HACHISUNOHANA, la sorpresa mi coglie senza preavviso.
Una splendida ragazza dai tratti marcatamente giapponesi e una corvina coda nera appaiono da sotto il casco. Lei scuote il capo liberando i capelli dalla stretta e si avvicina a me, sorridendo con una splendida fila di denti bianchissimi e allungandomi la mano liberata dai guantoni di guida.
Resto paralizzata di fronte alle labbra carnose, agli zigomi alti e a quegli occhi nerissimi e vivaci. Se mi avessero detto prima che il pilota in realtà era una splendida ragazza, avrei proposto io stessa di visitarle subito il cuore.
“Piacere, dottoressa, mi chiami pure Fuuka, è il mio nome.”
Mi risveglio dal mio imbambolamento e arpiono quella mano protesa tra le mie.
“Io sono Nikura, ma chiamami Yuko.” e decido immediatamente di darci del tu.
Il Direttore si tocca l'orologio con l'indice, vuole farmi fretta. Tra poco ci sarà il giro di prova.
“Megaboss, non vorrà, spero, che io visiti una donna qui, in mezzo a duecento tecnici, no?”
Lui fa un gesto e immediatamente si apre un corridoio tra i meccanici, meglio di Mosé quando ha diviso le acque del mar Rosso. Io e 'la pilota', non avevo pensato che il genere 'pilota' si adatta a entrambi i sessi, andiamo in uno stanzino dove non c'è neanche un lettino. Faccio sedere Fuuka su una sedia: “Che succede, Fuuka? Ansia da competizione?”
Lei annuisce un po' triste e io immediatamente entro in sintonia con questa ragazza, una giovane come me, che lavora alla domenica come me, ma rischiando la vita, conducendo una vettura a 300 chilometri all'ora e a pochi centimetri da altri bolidi. Sarà anche un giro di milioni, ma lei davvero rischia la vita ogni volta, invece di starsene a casa sua col fidanzato o andare a mangiare sashimi.
“Cosa facciamo, Fuuka? Dimmi tu. So che non posso portarti in ospedale, ti creerei un sacco di guai.”
“In genere mi prendo uno xanax, ma stavolta l'ho dimenticato.”
“Ma piccola”, mi scappa detto, lei sorride con uno sguardo così dolce che mi fa sciogliere il cuore, “Scusa...”
“Ma di ché?” Risponde lei chinando il capo di lato di lato e sorridendo. Questa ragazza mi sta facendo perdere la testa, lo ammetto.
“Scusa, Fuuka”, riprendo, “non puoi guidare una monoposto di Formula Uno con un sedativo in corpo, questo lo capisci anche tu, vero?”
“Yuko, come faccio, altrimenti? Anche tu riesci a capirmi?”
La capisco.
In un mondo così competitivo, probabilmente anche maschilista, non c'è più spazio per le emozioni, le tensioni e le paure, tutto ciò che è umano, e questa ragazza vive stretta nella morsa tra la sua stessa passione, condivisibile, e la logica di immagine e produttività del mondo degli sponsor e del denaro.
Il Direttore generale bussa con l'indice alla porta di vetro, mi mostra ancora l'orologio.
Io sbuffo vistosamente e, senza averlo veramente voluto, gli mostro il dito medio.
Lui resta esterrefatto e nel movimento del capo gli si abbassano i Ray Ban a specchio.
Io gli indico la paziente ed estraggo i miei strumenti per fargli capire che sto lavorando per parargli il culo. Lui capisce, alza una mano in segno di scusa e si allontana.
“Dai Fuuka, apri la tuta che ti visito. Lo zio sta cominciando a sfilacciarmi le ovaie.”
Lei sorride, si alza in piedi, e solo ora vedo quando è alta e snella e che detiene proprio un bel culetto, tutto appannaggio dei morbidi sedili della sua monoposto griffata.
Slaccia la cerniera divincolando le spalle e io scopro che sotto la tuta ha solo una canotta di cotone sottile, molto aderente. Ha un bellissimo seno dai capezzoli scuri che si intravedono attraverso il tessuto quasi trasparente. Sarà il contatto con il cotone o il fatto di doversi spogliare, ma la ragazza sembra anche abbastanza eccitata, o almeno questo è il messaggio che mi viene trasmesso da quei capezzoli che come spilli sembrano bucare la sottile maglietta.
Sto per appoggiare il fonendoscopio, ma quella continua a spogliarsi e alza anche la maglietta.
La visione che mi si presenta per un attimo mi obnubila la coscienza.
Due bellissime tette, alte, vicine, generose, dalla pelle scura di chi prende il sole senza il costume, reclamano la mia adorazione. Capisco anche perchè la ragazza non porti il reggiseno: quelle grazie si reggono benissimo anche da sole, con uno stacco netto con un torace magro e atletico.
La mia mente vacilla e viene completamente soggiogata da una collanina dorata con un pendolo a forma di falce di Luna che scivola nel solco tra i seni e ne rinasce a ogni movimento del capo della fanciulla.
Mi attardo un attimo di troppo su quel petto da mille e una notte, quelle tette che vorrei accarezzare, palpare, mordere, quei capezzoli gonfi e vellutati come due lamponi maturi; così dolci che ti vien voglia di succhiarci via l'anima della pilota, more di gelso da blandire con la lingua, da corteggiare, riverire, adorare.
Fuuka si accorge che le sto guardando insistentemente le tette, io, qui, inebetita sul suo petto, incapace di muovere un solo gesto, paralizzata come se fossi stata morsa da un cobra.
Allunga la mano e mi accarezza una guancia: “Tutto bene, Yuko?”
“Si, Fuuka, scusami, ma” tiro un sospiro per ritrovare la voce che si è fatta roca, “sei bellissima. Io non...”
“Tu non?” Chiede lei e intanto mi passa una mano nei capelli, dall'orecchio fino ad accarezzarmi la nuca. Con una dolcezza che mi liquefa, che mi scompone in miliardi di particelle di amore puro.
“Scusa.” Riprendo un poco di professionalità e mi chino ad ascoltarle il cuore.
Il battito, almeno adesso, non è più accelerato. Con il fonendoscopio ascolto i vari punti intorno al seno sinistro che non evito di toccare, con un po' di audacia, vigliaccamente protetta dalla mia figura professionale.
In realtà mi sembra tutto a posto, anche se vorrei perpetuare in eterno questa visita, questa visione, questo contatto con il suo seno.
Sollevo lo sguardo e scopro che è lei ora che mi guarda dalla scollatura.
Non metto il reggiseno, tanto meno quando fa caldo ed è vero, la tutina dell'ospedale è molto larga e offre generose panoramiche sul petto di una donna che piega il busto in avanti.
La lascio guardare e mi ricopro di orgoglio, sono contenta di avere un bel seno anche io, o almeno un seno che vale la pena di guardare, e sono soddisfatta che alla ragazza piaccia guardarlo.
La visita procede bene e non trovo veramente nulla di anomalo. Lascio che Fuuka possa contemplare ancora un po' il mio petto e la osservo in silenzio.
Quando lei alza lo sguardo mi vede che la contemplo e sorrido, ed entrambe capiamo tutto, senza bisogno di dirsi nulla.
“Come va, piccola? Meglio, ora?” Le chiedo mentre mi risollevo e lei abbassa la maglietta.
“Sì, Yuko. Ora va meglio.”
“Te la senti di correre, tesoro?”
“Sì, Yuko, Ora me la sento.”
Le accarezzo una guancia e lei prende la mia mano tra le sue e la bacia.
Una piccola tenerezza che mi strugge il cuore, che scioglie la mia anima in melodie ineffabili, che fa librare il mio spirito più in alto delle aquile.
“Forse avevo solo bisogno di...” inizia, la giovane, ma non conclude la frase, non sa come continuare.
“Sssst!” Le rispondo io, appoggiando l'indice sulle sue labbra carnose. Lei mi bacia il dito.
Mi avvicino, sposto il dito che ha onorato e le mie labbra si posano delicatamente le mie labbra sulle sue.
Restiamo a guardarci per un millennio, le mani nelle mani.
Poi il megadirettore galattico bussa ancora alla porta, un rumore brusco e fastidioso.
Fuuka volge lo sguardo verso quel rumore, con astio, ma io le metto un dito sotto il meno e le giro il volto ancora verso di me.
“Non ci pensare, campionessa. Pensa a me, quando correrai.”
Le bacio ancora le labbra e i nostri sguardi si separano, dolorosamente.
Con una pacca su quel sedere, prodigioso dono degli dei, la congedo al suo destino.

Quella sera, alla televisione, vedrò quello stesso volto, ancora sorridente, davanti alle telecamere, dopo aver conquistato il suo primo podio; alla prima domanda dell'intervistatore, la pilota della Red Bull si aprirà in un sorriso radioso e i suoi occhi a mandorla brilleranno di luce nuova.
“Dedico questo podio a una mia amica, una donna che mi ha baciato il cuore.”
di
scritto il
2025-09-06
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