Alisia - 02 - Carnifax

di
genere
fantascienza

*** Una saga di fantascienza, secondo episodio… ***

Avevo bisogno di una doccia calda, l’acqua lava via il sudore, lo sperma e il sangue. Mi fermo davanti allo specchio, l’occhio sinistro è gonfio, viola, quasi chiuso; il labbro inferiore è spaccato e sanguina ancora. Alzo il braccio destro, fa male, a occhio almeno un paio di costole rotte. Se fossi una puttana qualsiasi sarei già in rianimazione. Invece guarirò in pochi giorni, pero… cazzo se fa male, mi hanno dato un sacco di botte.

Esco dal bagno. Tre cadaveri.

Il primo è seduto sul divano, l’ho strangolato mentre mi sborrava nella fica. Al secondo ho spezzato il collo, avevo fretta. Col terzo invece, ho fatto una cazzata, gli ho aperto la gola con i denti, c’è sangue dappertutto, troppo sangue. Ho dato una ripulita e sistemato i cadaveri per bene, la polvere di nigrina in vista sul tavolo… a prima vista sembrerà che si siano ammazzati tra di loro.

I gestori del Motel Tevere non chiameranno la polizia, prenderanno i corpi e li faranno sparire.

Ironia della sorte, questi tre stronzi hanno fatto di tutto per non lasciare tracce, pagamento in contanti, mancia per non firmare il registro… che dire: grazie, spariranno semplicemente nel nulla.

Mi siedo sul bordo del letto, ancora nuda, la pelle che tira sui lividi.

Erano pieni di Nigrina fino agli occhi. Mi hanno preso in tre, tutti insieme. Uno mi teneva le braccia, uno mi scopava la fica, l’altro la bocca. Mi hanno girata e rigirata come una bambola, cazzi, schiaffi, calci. La droga li rendeva instancabili: sborravano, picchiavano e ricominciavano, più duri e più forti di prima.

Il mio corpo rispondeva. Anche se faceva male, anche se non volevo, godevo lo stesso.

Cristo, solo a pensarci sono di nuovo un lago, devo avere il DNA di una cagna in calore.

Apro gli occhi. Il sangue sul pavimento è già scuro. Devo andarmene.

Mi raccolgo i capelli in una coda, mi infilo gli occhiali scuri, il vestito è andato, lo butterò in un cassonetto. Giro il giaccone leopardato al contrario, dentro è nero, anonimo, abbastanza lungo da coprirmi il culo, tiro su il cappuccio. Apro la finestra, è un bel salto, ma ce la posso fare. Mi aggrappo alla grondaia arrugginita e mi lascio cadere, atterro sul tetto di un furgone, le ginocchia assorbono l’impatto, le costole meno. Rotolo giù sul cemento bagnato e sparisco nel vicolo. Il dolore alle costole mi pulsa a ogni passo, sento ancora il sapore del sangue in bocca, sento ancora la fica che... cazzo no… non devo distrarmi. Sorrido sotto il cappuccio, comunque sono tre in meno.

Cammino sotto la pioggia. I neon rotti lampeggiano rosa e verdi, riflettono sulle pozzanghere nere di olio e piscio. Mi hanno raccontato che una volta qui c’era il sole, che quando si chiamava ancora Roma era tutta luce bellezza e turisti con le macchine fotografiche. Io la ricordo solo così: pioggia, fumo, odore di fritto bruciato e sirene lontane.

Svolto in Vicolo della Madonna Nera, supero la scala di ferro che scende in un seminterrato. Il portone è blindato, graffiato, pieno di adesivi sbiaditi di locali chiusi. Suono il campanello: tre brevi, uno lungo.

La porta si apre di uno spiraglio. È Marco, ventitré anni, occhiali spessi, maglietta con il logo di un anime che non esiste più. Mi guarda l’occhio quasi chiuso, il labbro spaccato, il sangue secco che ancora luccica.

«Che cazzo ti è successo?» «Niente. Un cliente un po’ manesco.» «Dovresti smettere, Ali.» «Lo so.»

Mi fa entrare, chiude la porta con due giri di chiave e la sbarra di ferro. L’aria dentro è calda, odora di incenso sintetico, di plastica surriscaldata e circuiti bruciati. Le luci sono basse, come sempre.

Mi guarda di nuovo, questa volta più da vicino. «Stavolta ti hanno fatto male sul serio. Cazzo… guarda come sei ridotta…» «Passerà. Hai l’indirizzo che ti ho chiesto?» «Sì, te l’ho già mandato, sulla mail criptata. Siediti, almeno ti medicò la bocca.»

Non rispondo. Mi tolgo il giaccone bagnato, lo lascio cadere su una pila di vecchi computer morti. Sotto sono ancora nuda, Marco guarda i lividi, i segni di morsi sulle tette.

«Sei la ragazza più bella che ho mai visto.»

Lo dice piano, quasi con vergogna.

Io non rispondo. Mi siedo sul divano sfondato, allargo le gambe, lo guardo fisso. Il sangue secco sul labbro mi tira quando sorrido appena.

«Lo dicono tutti. Poi, di solito, mi picchiano.»

Marco abbassa gli occhi. Sa che è vero. E sa che non può farci niente.

Si inginocchia tra le mie cosce aperte, appoggia la fronte sul mio ginocchio. Sento il suo respiro caldo sulla pelle ancora piena di lividi.

Non gli dico di sì. Non gli dico di no. Gli prendo la nuca con una mano sola e gli schiaccio la faccia contro la fica. Marco non si tira indietro. Inizia a leccare piano, come se volesse pulirmi. Come se potesse.

Io chiudo gli occhi. Il dolore alle costole si mescola al piacere. Gli afferro i capelli più forte, gli spingo la testa dentro. «Più forte.»

Lui obbedisce. La lingua entra. Vengo in fretta, troppo in fretta, stringendogli la testa tra le cosce finché non gli tremano le spalle.

Quando finisco, lo tiro su per la maglietta. Gli metto la mano sul cazzo, è già duro. Lo tiro fuori, lo guardo negli occhi. «Non dire niente.»

Lo spingo dentro di me con un colpo secco. Mi scopa piano, delicatamente. A lungo.

Viene in silenzio, dentro di me, tremando. Resta lì un secondo, poi si ritrae. Non dice una parola.

Gli accarezzo i capelli, una sola volta. «Grazie. Di tutto.» Poi mi alzo, prendo il giaccone, esco.

Non è amore. È solo l’unico momento in cui qualcuno mi tocca senza farmi male.

E dura troppo poco.




scritto il
2025-12-02
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