La bella estate
di
john coltrane
genere
etero
Scusate se posto una storia così lunga, ma non amo quelle a puntate. Spero di non annoiarvi.
Come tanti uomini, ho avuto la mia dose di sofferenze amorose. Però una volta le parti si sono rovesciate: sono stato io a fare soffrire. Anche se involontariamente.
Cominciò alla fine della primavera. Per la verità si sentiva già l’estate arrivare, quella stagione liquida. Ero separato da un anno. Mia moglie mi aveva lasciato per un uomo più brillante di me. Non desideravo avere una nuova relazione stabile, non immediatamente. Katia invece era sposata, e aveva un bambino.
Ci conoscevamo di vista, ma quando ci reincontrammo, a quel simposio, ci scambiammo i rispettivi biglietti da visita. Fu una chiacchierata breve ma intensa, per essere al buffet, il regno delle banalità. Parlammo poco di lavoro, più di film. Salutandola, l’abbracciai forse con troppo slancio. Lei mi sembrò interdetta, forse divertiva.
Seguì uno scambio di mail. Da parte mia, di nuovo, un po’ troppo “insinuante”. Così, ad un certo punto, Katia decise di troncare: metto in chiaro una cosa, sono sposata.
Alzai le mani. Bene, non intendevo offendere nessuno.
Del resto, me ne sono dimenticato in fretta. In quel periodo non riuscivo a trattenere niente. Né gioia, né dolore. Volevo solo scorrere, come acqua. Scivolare via. Non mi stracciavo certo le vesti se lei si eclissava.
Invece si rifece viva, all’improvviso. Il che sembrerebbe una dimostrazione della tesi: nel dubbio, uomo, non fare nulla, se lei vuole, si riproporrà.
Passava dalle parti del mio ufficio, volevamo bere un caffè assieme?
Certo. Al caffè l’informai che stavo per partire.
Quando?
Domani.
Domani? Per dove?
Mosca (all’epoca ancora ci si poteva andare senza tanti problemi).
L’abbracciai, di nuovo. Ci vediamo quando torno, così ti racconto.
La sera successiva, in albergo, dopo una cena sontuosa, gentilmente offerta da chi ci aveva invitato lassù, ricevetti un suo messaggio. Fra l’altro diceva che era stupita di come io la toccassi, “di solito nessuno osa neanche sfiorarmi”. Mi augurava un felice soggiorno nella capitale russa, “che è piena di belle donne disponibili”.
“Che pregiudizi”, risposi, ma chiudendo il messaggio con due faccine sorridenti.
Devo dire chi era Katia. Una giovane donna, 33 anni, per la precisione. Brillante, laureata bene. Già affermata nel suo lavoro. Molto critica, molto severa nei suoi giudizi. Veniva considerata, nel suo ambiente, una donna di ghiaccio. E un’arrampicatrice.
Io non appartenevo propriamente al suo ambiente, per cui non ero impressionato dalla sua fama. E poi, come si sarà capito, non è che avessi molto da perdere.
E sul piano fisico? Alta, come altre donne che ho avuto, io che sono bassino. Almeno dieci centimetri più di me. Atletica. Capelli biondi, tinti. Giudiziosamente spettinati, come si usava. Sportiva, pratica, ma griffata. Faceva venir voglia di toglierle quella boria attaccandola al muro.
Diciamo che mezza città le sbavava dietro. Ma la nostra è una città piccola, non vi agitate.
Tornai dalla Russia. L’invitai a pranzo. Andammo a un giapponese, io arrivai in macchina, lei a piedi. Era caldo, non portava calze. Sotto il tavolo, le nostre ginocchia si incontrarono. La conversazione prese subito una piega seduttiva, da parte sia mia che sua.
Una volta usciti, le chiesi se voleva un passaggio, l’avrei riportata in ufficio.
Accettò. In macchina mi informai su cosa faceva domenica, dovevo presenziare ad un convegno, e a dirla tutta dovevo anche tenere una piccola relazione.
Sono sposata, ho un figlio, commentò, laconica.
Certo, lo so, dissi. Mi trattenni. Stavolta non la toccai, quando ci salutammo.
Allora, grazie, ciao. Grazie per il pranzo.
Ciao. Buon lavoro.
Ma, di nuovo, mi scrisse. Domenica il figlio era impegnato in una trasferta di calcio (l’aveva avuto molto presto!). Poteva accompagnarlo il padre.
Che scusa si fosse inventata non so, il punto era che si era inventata una scusa per passare con me la domenica ad un convegno noioso a 100 km. di distanza (in parte su strade di montagna) anziché presenziare alla partita di calcio del figlio. Più di così.
Passai a prenderla sotto casa. In macchina mentre le raccontavo dei ristoranti di Mosca le posai una mano sulla coscia, coperta dalla gonna. Dopo qualche secondo, me la spostò, ma non era infastidita, disse: guarda la strada. Eravamo felici, inutile negarlo. Eravamo come in vacanza.
Infatti poco dopo si mise lei a giocare. Lentamente, dischiuse le gambe. Io mi ci tuffai subito in mezzo con la mano libera, ma lei le richiuse di colpo imprigionandola fra le cosce, molto vicino al grembo, comunque.
Sei velocissimo, rise. Chi l’avrebbe detto.
Questa frase, “chi l’avrebbe detto”, sarebbe poi diventata una costante del nostro rapporto.
Lasciami andare la mano!, le ordinai.
No, guida.
Me la tenne lì almeno un minuto, poi lentamente riaprì le gambe e riuscii ad estrarla.
Mh, perché è così bagnata?
È sudore, stronzo.
Prima di arrivare a destinazione ci fermammo a bere un caffè. Io avevo il cazzo che spingeva sotto i pantaloni, ma girandomi a guardarla – anzi, a squadrarla – mi accorsi che i suoi capezzoli spuntavano da sotto la leggera maglia gialla che aveva addosso.
Come fai a andare in giro così? Farai morire il barista.
Sorrise, lusingata, come una ragazzina. Evidentemente nessuno le diceva certe cose.
Pensa per te, mi rispose, guardando la mia patta.
In effetti, devo aspettare che si sgonfi, scusa.
Mh, sì, facciamolo sgonfiare, disse, e poi fu lei a mettermi una mano sulla coscia, allungando le dita – aveva dita lunghe, aristocratiche, decorate da diversi anelli – fino a sfiorare la vistosa protuberanza che avevo davanti.
Se fai così non uscirò mai, le dissi.
Fece spallucce, sempre ridacchiando. Aprì la portiera e scese.
Io la seguii, prendendomi la giacca e mettendomela sottobraccio, in qualche modo riuscivo a coprirmi.
Alla fine di quel viaggio molto eccitante arrivammo finalmente a destinazione, un paese di media montagna che era anche una nota meta turistica.
Avevo ancora il cazzo duro e mi sentivo in forte imbarazzo nel salutare le persone che conoscevo, dovevo stare tutto piegato, mi sembrava che tutto se ne fossero accorti. Meno imbarazzo mi causava la presenza di Katia, anzi, essendo lei una donna bella e intelligente immaginavo che qualcuno mi stesse invidiando.
Comunque, alla sessione prevista presi posto dietro al tavolo assieme ad altri tre relatori, e feci il mio intervento, che riguardava le opportunità per le imprese nel mercato russo (davvero, a pensarci, sembra lontanissimo quel periodo). Fui professionale come sempre, la presenza di Katia in sala non mi imbarazzava.
Declinai però un invito a cena, da parte degli organizzatori. Volevo cenare solo con lei, visto che aveva detto al marito che sarebbe tornata tardi.
Quindi ci mettemmo di nuovo in strada. Il ristorante lo scelse Katia, lo conosceva, era abbastanza isolato. Della cena non ricordo molto, evidentemente abbiamo fatto una conversazione generica. Io attendevo con ansia il dopocena. E anche lei sembrava in tensione. Rideva spesso, si toccava i capelli. Ad un certo punto andò in bagno. Non la seguii.
Quando risalimmo nella mia automobile, era buio. Che bella l’estate, sospirò. Non una frasona, ammettiamolo.
D’estate ci si spoglia, dissi. Mi girai e le sfiorai il collo con le dita.
D’estate ci si…spoglia… mormorò, con una vocina infantile che sentivo per la prima volta.
Misi la mano su un suo seno. Lei rimase immobile. Allora infilai la mano sotto alla maglia gialla e constatai quello che già sapevo, non portava reggiseno, del resto aveva seni piccoli, per quanto perfetti, e di marmo. Sollevai la maglia e mi chinai a sfiorarle i capezzoli con la lingua. L’altra mano nel frattempo era scesa fra le sue gambe. Non me lo impedì, stavolta. Superai la barriera delle mutandine e con la punta del dito – solo la punta, solo il dito medio – sfiorai l’apertura della sua vulva. Era già umida. Penso ci siano poche cose più belle per un uomo di toccare una donna fra le gambe e sentirla bagnata. Ma resistetti, e non andai oltre. Anzi, ritirai la mano, mi risollevai, e accesi la macchina.
Facemmo alcuni chilometri in silenzio – sull’autoradio un cd di Adele – poi ricominciai a parlare, del più e del meno, e lei mi venne dietro, come se non fosse successo niente. La lasciai sotto casa, non ci baciammo, non ci eravamo ancora baciati.
Seguì una nuova lunga serie di mail. Innanzitutto, si stupiva ancora una volta di come fossi fatto.
Tu mi succhi le tette (non le avevo succhiate, in realtà), mi tocchi la figa (quello sì) senza neanche chiedere, come se fosse roba tua…
Scusa, ma ti è dispiaciuto?
No, ammise. Ovviamente, lo avevo sentito.
Le proposi di dare sfogo a questa nostra attrazione. Rispose che non voleva tradire suo marito.
Ma lo fai già col pensiero, osservai. Provavo con la solita scusa.
Ah, questo sì, rispose.
Cosa vuoi dire?
Secondo te?
Che ti masturbi?
Tutti i giorni, sotto la doccia.
Tutti i giorni non ci credo.
Non crederci.
E mi pensi?
In questi giorni, sì.
Ma allora, vedi, dai, facciamolo.
Ribadì che non voleva, era sposata, non aveva mai tradito, ed era anche una madre.
Poi però mi riscrisse pregandomi di “trovare un modo”.
Ora, tutti sappiamo che in queste circostanze non c’è un modo. È tradimento, punto. È così. A meno che il partner non lo sappia e dia il suo benestare, ma questo Katia lo escludeva, lui non era per la coppia aperta. E neanch’io, aggiunse.
Le spiegai che doveva convincersi che non stava facendo niente “contro” suo marito, che qualunque cosa fosse successa tra noi era solo una cosa sua, non toglieva nulla alla sua famiglia. E in effetti, in molti casi è così, anche se avevo dimenticato di aggiungere che si corre comunque un rischio: quello di innamorarsi.
Senti, le scrissi, alla fine, dobbiamo parlarne tra noi, a fondo, cercare una via di uscita.
Questo le piaceva.
Le dissi di trovare lei tempi e modi. E che poteva venire a casa mia quando voleva.
Rispose subito che si sarebbe liberata il giovedì successivo, il figlio era in gita scolastica di fine anno.
Bene, dissi. Potevo prendermi mezza giornata, l’aspettavo alle due (non avevo voglia di pensare al pranzo).
Io sono un amante dei lunghi preliminari. In particolare, mi piace leccarla. Ma questa volta ho deciso di rimandarli a dopo. Non volevo lasciare a Katia troppo tempo per pensare. La velocità era la mia alleata.
Quando è entrata, l’ho trascinata subito in camera, che poi è lì, a sinistra della porta.
Ha opposto una breve resistenza, un altro dei suoi comportamenti che avrei abituato a conoscere. Intanto, ero riuscito a farla sedere sul letto. Mi chinai a slacciarle i sandali, li portava con la zeppa, come se non bastasse il suo 1,78!
Cosa fai, mi chiedeva. Intanto, l’avevo spinta giù, con la schiena al letto. Finalmente le nostre lingue si incontrarono. Un bacio lungo, profondo, Per troppo tempo rimandato.
Le sbottonai i pantaloni e glieli sfilai da sotto – aspetta, mi diceva, di nuovo, no, dai, parlia-mo, ma non faceva niente per fermarmi – e poi anche il tanga che aveva indossato (Un tanga! Non finiva di stupirmi). Mi tolsi a mia volta velocemente i pantaloni e nel frattempo, guarda caso, si era già sfilata a sua volta la maglia da sopra la testa, rimanendo nuda e bianca sotto di me, con il suo corpo lungo, tonico, le ascelle di madreperla, la pancia senza un filo di grasso, e quelle gambe muscolose, chilometriche…
Senza perdere altro tempo le aprii le cosce con le mani e l’inforcai.
Chiuse gli occhi. Iniziò quasi subito a dire: aspetta, aspetta, non venire, non venire subito…
Non avevo nessuna intenzione di venire, riesco a controllarmi abbastanza bene.
Anzi. Volevo scoparla in posizioni diverse. Dopo un po’ riuscii a metterla su un fianco. Mi posizionai dietro di lei, le afferrai una caviglia per tenerle aperte le gambe e ripresi a incalzarla, mordendole il collo, dietro.
Ala fine la girai del tutto per prenderla a pecora. Fece mostra di ribellarsi: no, cosa, fai, dai, no, non così…
Ma si era messa in posizione perfetta, il viso schiacciato contro il letto, solo il bacino sollevato, offrendomi entrambe le aperture.
Porco, mi chiamò, mentre gemeva, sei un porco, mh, ah, por-co…porco…
Non sapevo se fosse venuta, ci sono donne che vengono anche in silenzio. Comunque, non resistevo più, e l’ho detto. Basta, devo venire, ti vengo dentro…
Disse solo: sì, dai.
E le inondai la vagina di sperma.
Poi rimase sdraiata, con gli occhi chiusi. Sul suo viso era comparso un sorriso, mi sembrava di beatitudine.
Aprì gli occhi, mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.
Ma dai… sospirò, scuotendo la testa. Luca.
Luca è il mio nome, l’ho già detto?
Disse ancora: Luca. Cosa mi hai fatto?
Cosa voleva dire? Che non si era aspettata che la scopassi subito, o che la scopassi così?
Aveva un’aria appagata. E avevamo ancora almeno un paio d’ore da spendere assieme prima che dovesse rientrare a casa.
Come inizio, era persino sopra le aspettative. Stava cominciando la bella estate.
L’intesa sessuale fra noi fu subito intensissima, ma mi riservò anche alcune sorprese.
Innanzitutto, molto presto cominciò ad emergere in Katia una tendenza alla recita che si basava sul fatto di venire costretta (quella era emersa fin da subito, in realtà), se non addirittura un po’ sottomessa. Niente a che vedere con pratiche sadomaso o simili. Si trattava più che altro di atteggiamenti, di posture. Fisiche e psicologiche.
Ad esempio. Spesso nei nostri incontri – che avvenivano perlopiù in pausa pranzo e a casa mia, visto che vivevo da solo, ma a volte anche a casa sua, e già questo mi spinse a farmi qualche domanda – lo facevamo in piedi, o per terra, anche se, almeno a casa mia, avevamo un letto a disposizione (a casa sua sarebbe stato più complicato perché era il letto dove dormiva con il marito, farlo lì sopra l’avrebbe costretta a disfarlo e rifarlo, cosa che avrebbe potuto insospettire l’uomo).
In pratica, lei arrivava dall’ufficio, un po’ dopo di me. Entrava, e capitava che accampasse delle scuse. Diceva: oggi ho mal di testa, oppure oggi non ne ho voglia, più tardi ho un incontro importante, oltre ovviamente alla giustificazione classica delle mestruazioni.
Io la spingevo verso la cornice della porta della cucina, il posto era sempre quello. Lei cercava di resistere, debolmente, soprattutto a parole: ho detto no, oggi no, per favore no. Girava il viso quando cercavo di baciarla, e mi afferrava le mani, per tenerle lontane. Alla fine con poco sforzo riuscivo ad andare sotto al suo vestito e a raggiungere il suo grembo. Iniziavo ad accarezzarla, e in brevissimo tempo questo le faceva perdere il controllo. A quel punto il suo gesto classico era sollevare lentamente l’orlo inferiore della maglia o della t-shirt, o sbottonarsi la camicetta, ad occhi chiusi, senza guardarmi, porgendomi i suoi seni. Questa offerta era il suo momento di resa.
Io andavo avanti un altro po’ ad accarezzarla e baciarla, poi di solito la giravo e la prendevo da dietro.
Spesso quando stavo per venire lo tiravo fuori, anche se lei prendeva la pillola e avrei potuto venirle dentro. Katia si piegava e glielo mettevo in bocca. Mentre me lo succhiava, io le accarezzavo i lobi delle orecchie. Una volta mi disse che era stato talmente intimo quel gesto, di accarezzarle le orecchie, che era venuta lì così, in ginocchio e con il mio cazzo in bocca.
Questo inginocchiarsi e farsi venire in bocca succedeva a volte anche quando lo facevamo a letto. Ad un certo punto si alzava e si metteva in ginocchio per terra. Io sapevo di dovermi sedere sul bordo del letto e accarezzarle teneramente la testa mentre le inondavo la gola.
Poi a volte rimaneva con la testa reclinata sulle mie cosce, voleva che le accarezzassi ancora la testa, chiedeva: sono brava? Sono la tua bambina? Io le rispondevo: sei la mia brava bambina, o anche sei la mia cagnolina. Allora lei chiedeva: sono la tua cagnolina ubbidiente? Se non sono brava mi dai una punizione?
Ma il massimo che facevo era schiaffeggiarle il sedere. Cosa che mi piaceva perché ce l’aveva piccolo e sodo.
In quanto al sedere, divenne presto una gradita alternativa. La prima volta accadde quando aveva realmente le mestruazioni. In realtà fu lei a suggerirlo: noi donne abbiamo tanti buchi…
Disse proprio così. A volte diventava sfacciata. Eravamo a casa sua, saltò fuori che aveva un gel, nel suo comodino, lei mi aveva detto che con il marito non faceva quasi mai sesso, e assolutamente mai sesso anale, ma guarda caso aveva un lubrificante. In ogni modo, non mi interessava, non ero nella posizione di poter essere geloso. Prepotente, sì.
Fai pianino, mi chiese, con la vocina che faceva durante i nostri giochi, la vocina infantile. Sono stretta stretta…
Certo, come no.
La feci alzare, la portai in cucina, le piegai un braccio dietro la schiena e con l’altra mano la spinsi giù, col busto sul tavolo, dove mangiavano, se ne sarebbe ricordata servendo la cena.
E adesso stai ferma, le ordinai.
La unsi bene dietro, ficcandole un dito nel culo, e poi la penetrai vigorosamente.
Quando si tirò su mi guardò con una faccia che non sapevo decifrare. Le era piaciuto? Era quello che voleva? O no? Sospirò. Temevo che mi desse uno schiaffo, ma si limitò a prendere un pezzo di scottex dal rotolo appeso al muro e a passarselo dietro. Sempre guardandomi negli occhi. Poi mi abbracciò, nascondendo il viso nel mio petto, e io le accarezzai la testa.
Dopo di allora volle farlo molto spesso e una volta mi spiegò anche com’era venire quando la sodomizzavo anziché quando la scopavo (mi ero accorto che si toccava davanti mentre la possedevo dietro).
Ma tu senti le contrazioni?
Sì, a volte le sentivo.
Una volta la volli scopare davanti durante il ciclo. Cercò di impedirmelo, io la rimproverai, le dissi: obbedisci! Non contraddirmi!
Entrai in lei e nel sangue, non mi fece nessuna impressione. Mi sporcò il copriletto, ma ero un uomo single, questi incidenti non mi imbarazzavano.
È stato sgradevole? le chiesi dopo.
No.
Un’altra volta, di nuovo a casa sua, e sempre a mezzogiorno, mi aspettò nascosta dietro la porta. Di solito mi accoglieva vestita; adesso invece era spogliata ma con un completino di pizzo addosso, mutande e reggiseno (che come sapete non portava mai) verdi. Vedere questa giovane donna con un corpo statuario aspettarmi quasi nuda dietro la porta di casa, con la figa già bagnata, mi mandò in orbita più ancora del solito. Le saltai addosso ma riuscì a contenere il mio ardore.
Aspetta…
Mi prese per mano e mi portò in una stanza che non avevo mai visto. Era la cameretta del figlio, la camera di un bambino di sette anni, con i cimeli sportivi sulla scrivania, le maglie in giro, foto incollate alle pareti. Istintivamente mi fece pensare alla mia, di camera da bambino.
Ma fu un attimo. Senza una parola si sdraiò sul letto. Le sfilai le mutande e questa volta la leccai con molta attenzione, Sapevo come portarla fin quasi all’estasi titillandole il clitoride e poi ridiscendere in basso e lasciarla lì a friggere, in attesa, perciò lo feci più volte, fin quando non iniziò a spingersi lei con tutto il bacino verso di me, verso la mia faccia, perché la facessi venire. La tenni sulla corda ancora un po’, poi la feci esplodere, si portò il cuscino alla bocca per non farsi sentire da tutto il palazzo. Quando si fu calmata, mi calai i calzoni e salii sopra di lei.
Come vuoi che mi metta? Mi chiese.
Così, risposi. E la penetrai piano, la scopai con dolcezza, carezzandole il viso, baciandole il collo. Come al cinema.
Com’è stato? le chiesi prima di tornare al lavoro.
Come morire.
Una sera mi fece un pompino in macchina. Subito dopo litigammo, lei scese, montò sulla sua e andò a casa. Io girai un po’ per la città. Ero infelice e ancora insoddisfatto. Le mandai un messaggio, le dissi che stavo arrivando sotto casa sua, doveva trovare una scusa per scendere.
Mi rispose che era impossibile, era già andata a letto, suo marito stava dormendo vicino a lei.
Arrangiati, scrissi.
Mi parcheggiai proprio sotto. Dopo 5 minuti scese, struccata, con addosso una tuta da ginnastica, ai piedi delle ciabatte aperte.
Salì in macchina.
Se n’è accorto che uscivi? mi volli informare.
Sì. Gli ho detto che avevo dimenticato in macchina il caricabatteria. Per fortuna il suo non va bene per il mio telefono.
Mi ordinò di andare al parcheggio condominiale, duecento metri più avanti. Era piena estate e c’erano posti liberi perché molta gente era in vacanza. Già mentre andavo si era tolta i pantaloni e aveva iniziato a sbottonarmi la patta. Il rischio che ci vedessero, e la riconoscessero, era altissimo, ma sembrava completamente fuori di testa.
Mi montò in grembo, mi prese il cazzo con una mano e ci si impalò sopra. Fu una cosa veloce, frenetica. Poi si sfilò, si risedette nel posto del passeggero e si rimise di corsa i pantaloni.
Si sporse per darmi un bacio, ma mi sentivo stronzo, le presi quella massa di capelli selvaggi che aveva sulla testa e la spinsi giù a pulirmelo con la bocca, cosa che fece, gemendo.
Solo dopo la ritirai su, sempre per i capelli, e la baciai.
Aprì la portiera e smontò.
Dove vai? Ti porto io.
No, ora che ti giri…faccio prima a piedi.
In realtà non era vero ma la lasciai andare, ciabattando sul vialetto, sperando solo che riuscisse a mantenere un briciolo di autocontrollo.
E poi ci fu la Sardegna. Già. Quello fu un altro limite superato.
Innanzitutto, mi aveva avvisato per tempo che sarebbe andata in vacanza sull’isola con la famiglia. Io mi feci dire dove, e siccome non avevo fatto programmi particolari, mi organizzai. Glielo dissi solo all’ultimo momento, che avevo prenotato un volo (loro andavano in macchina e traghetto) e che avevo preso casa in un residence a un chilometro dal suo BB.
Questo mi fece crescere enormemente, ai suoi occhi. Non aveva nemmeno osato pensarlo, mi disse. Non credeva che avrei fatto così fatica a stare lontano da lei.
Certo, non avremmo potuto incontrarci spesso. Suo marito non mi conosceva ma sarebbe stato comunque da incoscienti che ci vedesse assieme.
Studiò un piano. Disse che avrebbe concordato che al mattino presto la lasciassero andare a correre. A me non dispiaceva alzarmi presto, vero?
No, non mi dispiaceva.
E così, il giorno dopo il nostro arrivo, il mio e il loro, una mattina alle sette comparve sulla porta del mio minilodge, tutta sudata perché ci era effettivamente venuta di corsa: la sdraiai sul letto e la scopai senza una parola. Fu come entrare in una ciotola di burro sciolto.
Vado via storta, mi disse, sorridendo, quando uscì.
Non ci vedevamo tutti i giorni, ovvio. C’erano giorni in cui doveva fare delle gite con la famiglia e non riusciva a reggere la scusa del jogging. Nel frattempo, però, era successa una cosa: avevo conosciuto due ragazzi, due bikers, che si giravano quel pezzo di Sardegna in bici, facendo ritorno al lodge la sera. Erano due studenti d’informatica, due tipi tranquilli, come lo sono questi nerds.
Io non sono una persona spregevole, non credo. Né sono una persona particolarmente “perversa”. Ma iniziai a figurarmi la situazione. Come se fossi il regista di un film. Non mi sembrava impossibile.
Katia più volte mi aveva detto che avrebbe fatto di tutto per me. Una volta per scherzo le avevo detto: se ti facessi scopare dai miei amici, lo faresti?
Lei era rimasta un po’ in silenzio. Faresti questo? Mi aveva domandato, a sua volta.
Non rispondermi con un’altra domanda, le avevo detto, dandole uno schiaffo sul sedere. Se te lo ordinasti, lo faresti?
Lei aveva iniziato a fare la vocina.
Se lo ordinassi alla tua bambina?
Se lo ordinassi alla mia cagnetta. Lo faresti?
Io faccio tutto quello che vuoi, aveva sospirato. Ma non credo ci credesse davvero. E per la verità, neanch’io.
Solo che…
Decisi di darle appuntamento in cima a una collinetta, dietro il villaggio, un posto molto panoramico. Proprio prima di arrivare al punto culminante c’era una grande roccia, come un dolmen, un po’ discosto dal sentiero principale. Da lì lo sguardo spaziava sul golfo, al mattino era un panorama magnifico. Il vantaggio inoltre era che non ci andava mai nessuno, e che tutt’ intorno era coperto di cespugli inselvatichiti.
La sera prima avevo detto ai ragazzi di passare di lì, alle 7. Conoscevano il posto?
Sì, lo conoscevano, ma si chiedevano perché. Avevamo passato la serata a bere mirto, io avevo fatto il misterioso e loro si erano fatti l’idea che io fossi un uomo di molte risorse. Avevano anche capito che la mia proposta nascondeva qualcosa di sessuale, ma rimanevano giustamente guardinghi.
Io gli dissi di fare come volevano, e questo naturalmente costituì un richiamo irresistibile. In ogni modo, al mattino partivano sempre presto, non facevano neanche colazione al bar-ristorante del resort, quindi non gli stavo chiedendo qualcosa di particolarmente difficile.
Poi andai a dormire.
La mattina dopo salii sulla collina e attesi.
Katia arrivò con solo qualche minuto di ritardo. Ansimava.
Sei matto? mi disse. Perché mi hai fatta venire fin quassù? Ma mentre lo diceva mi sorrideva da un orecchio all’altro, era felice di vedermi, erano quei momenti la sua vera vacanza.
Io le porsi una bottiglietta d’acqua. Poi l’attirai a me e le dissi: sai che mi piaci sudata. E poi, volevo scoparti qui, nella natura.
Ma sei matto? disse, cercando di divincolarsi. E se passa qualcuno?
Se passa, pazienza. Guarderà.
La presi per mano e la condussi oltre una barriera di cespugli fin dietro al dolmen. La girai e la feci appoggiare alla roccia. Le afferrai la vita e la tirai dolcemente verso di me, per regolare l’altezza, come facevo di solito, era così maledettamente alta… Lei, ormai abituata, rispose docilmente ai miei gesti.
Poi le tirai giù i pantaloni della tuta, la accarezzai un po’ fra le gambe, mi sbottonai davanti e la penetrai.
Quasi subito i due ragazzi sbucarono in sella alle loro bici. Erano due silouetthe nere contro il sole.
Katia fece per tirarsi su ma le premetti la mano sulla schiena per tenerla ferma.
Salve, dissi, mentre rallentavo il ritmo dei colpi. Non vi dispiace, vero?
Se non dispiace a voi…rispose quello più sveglio.
Ovviamente erano arrivati molto prima, e mi ero limitato a dire loro che si nascondessero dietro alla vegetazione, aspettando che iniziassi prima di uscire.
Iniziare cosa? mi avevano chiesto.
Non avevo risposto.
Ripresi a pompare Katia, senza accelerare. Volevo che passasse dalla fase della vergogna a quella del piacere, e che alla fine le due cose si mescolassero.
Intanto mi presentai: pia-cere, Lu-ca.
Erwin, Joe, fecero i due.
Che cazzo…di nomi…ah… avete?
E lei? chiese Erwin, lo sveglio.
Lei è…Kaatia…dissi.
Piacere, disse Erwin.
Katia rispose con un gemito. La guancia era premuta contro la roccia, girata dalla parte opposta rispetto a dove stavano i ragazzi.
Ad un certo punto decisi di godere perché temevo che qualcuno potesse scoprirci.
Accelerai e le venni dentro, come sempre. Non avevo idea se fosse venuta anche lei. Senza tirarlo fuori, le dissi: amore, ho paura che Erwin e Joe si siano eccitati. Non possiamo mandarli in giro in queste condizioni.
Poi mi tirai fuori, avvicinando il mio viso al suo orecchio.
Fai felici anche loro?
Cosa?
Li fai felici?
È questo che vuoi?
Sì. E ti amo.
È un tuo desiderio?
Sì, è solo un mio desiderio. Ti amo.
Ero stato disonesto a dire così, dal momento che non avevo mai detto di amarla, mentre lei mi si era dichiarata moltissime volte. Ma le cose si erano spinte troppo avanti, per la prima volta mi sentivo così onnipotente con una donna e desideravo mettere alla prova il mio potere. Il che dimostra che il potere è sempre una forma di corruzione morale.
Vieni, Erwin, dissi a quello sveglio. Scese dalla bici e si avvicinò.
Hai per caso un preservativo? dissi ad alta voce, affinché Katia mi sentisse e non si spaventasse almeno per la questione malattie. Nel frattempo gliene passavo uno. E, lo so, era un tentativo pietoso di mascherare il fatto che avevo organizzato tutto io, ma non ero riuscito a inventarmi niente di migliore.
Lui si tirò giù i pantaloncini. Vestì con scioltezza il suo cazzo, poi si mise dietro a Katia, l’afferrò per i fianchi, e disse questa cosa buffa: allora, permesso….
Quindi guidò il cazzo dentro la sua figa, dalla quale stava colando una bolla del mio seme. Iniziò a pomparla vigorosamente e Katia gemette più forte di prima. Il punto della roccia su cui poggiava la faccia adesso era più scuro, per via della sua umidità, e lo stesso valeva per quelli dove appoggiava le mani.
Erwin durò poco. Venne con un grugnito e si sfilò.
Grazie, mi disse.
Avanti, Joe, invitai l’altro. Joe aveva una faccia da bambino, un viso liscio e sembrava spaventato. Gli porsi il preservativo chiedendomi se almeno lo sapesse usare.
Lui si tirò giù i pantaloncini. Apparve un bastone di dimensioni insolite.
Ha un bel batacchio, rise Erwin, che evidentemente gliel’aveva già visto.
Joe, tutto concentrato, scartò il preservativo. Poi provò ad infilarselo, ma non riusciva. Temetti che fosse sprecato. Invece lo recuperò, girandolo poi dalla parte opposta. A questo punto riuscì a srotolarlo per tutta la lunghezza del suo pene.
Poi, senza guardarci, sempre concentratissimo, si avvicinò a Katia, la prese per i fianchi come aveva visto fare da noi, quindi mollò un fianco per afferrarsi l’uccello e lo infilò dentro in un colpo solo fino in fondo.
Come avevo immaginato Katia gridò.
Ah, oddio…piano!
Mi chinai verso di lei, sulla porzione di viso che non era schiacciata contro la roccia, rossa e lucida di sudore.
È grosso, lo so, porta pazienza, amore.
Porco, disse. E poi continuò: porco, porco porco…ad ogni colpo del ragazzo, era un ah, ah, e poi un porco, porco…ah, mi spacca…
Le accarezzai la testa: ti amo.
Joe al contrario dell’amico ci impiegò molto a venire. Alla fine chiuse gli occhi, alzò il volto al cielo e si irrigidì. Stette lì fermo almeno un minuto. E mi dissi che, sì, quella era probabilmente la prima volta che eiaculava dentro una donna, per quanto in un preservativo.
Subito dopo congedai i ragazzi. Loro ci salutarono e partirono in sella alle loro bici, non avevo idea se sarebbero tornati al resort o se avrebbero comunque iniziato uno dei loro giri. E francamente ora non mi importava più.
Katia finalmente si sollevò. Io avevo preso dei fazzolettini e glieli passai fra le gambe, per pulirla. Scosse la testa, e sorrise. Mi pulisci come una bambina…disse.
Non ci avevo pensato.
Poi le tirai su in pantaloni. Si girò e la strinsi fra le mie braccia.
Non li ho neanche visti, praticamente.
Ma li hai sentiti.
Sì, soprattutto il secondo. Sei contento di me?
Certo.
Posso fare di meglio, sai?
Questa non me l’aspettavo, e non sapevo se lo volevo o meno.
Ce l’hai ancora duro, mi disse, tastandomi. In effetti, guardandola con i due ciclisti, mi ero eccitato di nuovo moltissimo.
Me lo tirò fuori, si inginocchiò e me lo lavorò con le mani e la bocca, finché con le schizzai sul viso e fra i capelli. Poi me lo succhiò per bene, come ormai faceva sempre, per pulirmelo, mentre con una mano mi accarezzava i testicoli.
Quindi si tirò su. Sono in ritardissimo, devo tornare di corsa, disse.
Grazie, dissi io, Non sapevo cos’altro dire. Senza neanche baciarmi, si girò e corse via, oltre la pietra, oltre i cespugli, giù per il sentiero, verso il loro lussuoso BB.
Erano le 8. Di una mattina d’estate in Sardegna. Avevo tutta la giornata davanti a me.
Nonostante quell’episodio non continuammo su quella strada.
Venne l’autunno. Continuavamo a vederci almeno un paio di volte alla settimana e una volta riuscimmo anche a trascorrere una notte assieme a Venezia.
Lei stava entrando in crisi. Iniziò a dire che non ce la faceva più, così, che lei stava mettendosi in gioco, che rischiava tutto, mentre io, che ero libero, non rischiavo niente.
Il sesso metteva ancora tutto a posto. Mi inventai dei giochi, al cinema, in piscina…
Ma non era abbastanza.
Dopo natale mi disse che non avrebbe passato un altro natale così.
Era un po’ dimagrita, ed era più bella che mai. Mi disse che se n’erano accorti tutti, tranne suo marito. Tutti i suoi colleghi intuivano che c’era qualcosa di nuovo nella sua vita.
Riuscimmo ad arrivare fino al giro di boa del primo anno. Stava sopraggiungendo una nuova estate. Un pomeriggio, a casa mia, le chiesi di sedersi sulla ma faccia. Le dissi di aprirsela, prima. Volevo sentire la sua vagina dappertutto, sul naso, sugli occhi, sul mento, sugli zigomi, oltre che sulla bocca.
Mi avvolse. Poi mi disse che era finita. Che non ci saremmo visti più.
Non è possibile, le risposi.
I nostri visi erano vicinissimi. Guardavo le sue labbra, che incorniciavano una bocca grande, sensuale. La bocca da cui uscivano spesso i più feroci rimproveri nei confronti dei suoi collaboratori, alcuni dei quali avevano la mia età, o erano anche più vecchi.
Sarebbe bastata una parola da parte mia e lei avrebbe lasciato tutto. Forse non il figlio, ma tutto il resto sì. E forse, a pensarci bene, anche il figlio.
Ma io non riuscivo a pronunciarla, ero stato troppo ferito dal mio precedente matrimonio.
Così, si rivestì e se ne andò.
Due giorni dopo, quando le chiesi di venire, mi rispose semplicemente: no. E non scrivermi più, per favore.
E a nulla valsero gli altri 50 messaggi che le mandai in seguito.
Ecco tutto. Spero di non avervi stufato. Bye bye.
Per commenti coltranejohn39@gmail.com
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