La collega

di
genere
masturbazione



La chiamavo “la collega”, ma in realtà non lavoravamo nello stesso posto. La chiamavo così con i miei, di colleghi. Quando dicevo loro: - Oggi no, non vengo a pranzo…
Sorridevano, allusivamente. - Vai con la collega?
E io: – Sì.
- Ma se è una collega tua dovrebbe essere anche nostra…

In realtà non eravamo colleghi, io e Sonia. Lei lavorava nel palazzo di fronte a quello della nostra compagnia, ed era una giornalista. La chiamavo “la collega” perché anch’io all’inizio della mia carriera mi ero occupato di comunicazione.
Aveva trent’anni, io quindici più di lei. Mora, non molto alta, snella ma sinuosa. Aveva una carnagione olivastra, che faceva pensare alla Sicilia. Occhi grandi come uova al tegamino, scuri. Soprattutto, aveva un viso bellissimo, e questo per me è molto importante, perché un corpo puoi curarlo, o anche rifartelo, in parte, ma il viso non lo modifichi più di tanto, sì, puoi scalpellarti il naso, ma se hai dei bei lineamenti, se gli elementi sono disposti nelle giuste proporzioni, hai vinto la lotteria alla nascita, c’è poco da fare.

Ci eravamo conosciuti per caso. Adesso pranzavamo spesso assieme. Direi una volta alla settimana. Sposato io, “accompagnata” lei. Entrambi sapevamo che c’era qualcosa di particolare in quell’amicizia, che sotto lavoravano forze oscure. Amicizia, sì, e già l’amicizia, fra un uomo e una donna è un fattore da considerare con prudenza, ma poi qualcosa di più, almeno da parte mia, ovvio, da parte mia era attrazione. Credo ci fosse abituata, pochi degli impiegati che lavoravano in quel distretto – ed erano centinaia – non l’avevano puntata. Uomini e anche alcune donne.
Sonia comunque manteneva un comportamento “distinto”. Vestiva in maniera curata, non vistosa, salutava tutti gentilmente. Dava l’idea di essere inaccessibile.
Col tempo, invece, le nostre conversazioni a tavola – andavamo quasi sempre in pizzeria o al ristorante giapponese – iniziarono a diventare torbide. Insomma, finimmo col parlare di sesso. Prima avevamo parlato di tutto, lei era una giovane cronista di nera, aveva sempre qualcosa da raccontare, io le spiegavo i su e i giù della finanza, ma con rimandi alla politica internazionale. Avevamo in comune anche molti libri, film, e certa musica elettronica fuori dagli schemi.
Ma il sesso ci avvicinò.
Con il passare del tempo le nostre confessioni si svilupparono anche via posta elettronica. Ci raccontammo che cosa ci piaceva fare. Quali erano le nostre fantasie. Com’era andata la prima volta. Cose così. Mi raccontò che a un ragazzo che aveva avuto in passato piaceva che lei lo facesse venire con i piedi. Io le dissi che mi piaceva molto leccarla, e che una volta l’avevo fatto con due donne assieme.
Solo dei nostri partner non parlavamo, per una tacita intesa. Né avevamo mai ipotizzato di passare assieme una domenica. Sonia aveva messo fin da subito le cose in chiaro: non tradiva. Il che ovviamente smorzò solo un poco il mio ardore.

Ma una sera che i discorsi si erano spinti molto in là, provocandomi una enorme erezione, non resistetti, e le scrissi che mi sarei masturbato pensando a lei.
Il giorno dopo andammo a pranzo assieme. Non sapevo come avrebbe reagito, dopo quel messaggio avevo chiuso la conversazione.
Invece mi chiese solo: - Lo hai fatto?
- Sì – risposi.
- Come ti sei sentito?
– Bene.
- Anch’io l’ho fatto qualche volta – mi disse, sorridendo, e un leggero rossore che le si diffuse istantaneamente sul viso.
- Pensando a me?
- A chi se no.
Stando così le cose, forse avremmo dovuto dare sfogo al nostro desiderio, almeno una volta. Eravamo molto vicini, ormai. Sapevamo molte cose l’uno dell’altra.
Ma lei ribadì quello che mi aspettavo: che non era una traditrice.
Rimuginai sulla questione per una settimana, prima che tornassimo a pranzo assieme. E a quel punto, misi sul tavolo lei mie carte. Non si sarebbe trattato di un tradimento. Le proponevo solo di farlo assieme, uno alla presenza dell’altro.
- Fare cosa? – chiese, spalancando gli occhi, che faceva risaltare con abbondante mascara.
- Fare quello che abbiamo detto l’altra volta.
- Masturbarci?
- Sì.
- Ma: ognuno per conto suo?
- Eh, sì. Non sarebbe un tradimento.
- Ma scusa: e pensi che resisteresti?
Feci valere la mia età. Sì, mi controllerei, le dissi.
Lì per lì commentò che le sembrava assurdo.
Tuttavia, due giorni dopo mi scrisse che ci stava pensando.
- E cosa fai mentre ci pensi?
Rispose con una foto. Non era la prima che mi mandava ma non era mai stata così esplicita. Nella foto si vedeva la sua mano che si infilava sotto l’elastico delle mutande, bianche, di pizzo.
Le scrissi che ero a un convegno, e come facevo adesso. Lei mi chiese scusa, io risposi che non bastavano le scuse, lei scrisse che quand’era così se riuscivo potevo appartarmi in bagno, cosa che ovviamente feci. Scattai una foto del mio cazzo eretto, gliela spedii, e poi venni.
- Grazie – rispose Sonia. E basta.
Le scrissi una mail la sera. Come va, tutto bene? Convenevoli. Alla fine confessò che lo aveva fatto anche lei. Era andata in bagno, lì, nella redazione, e lo aveva fatto.
- Cos’hai pensato?
- Che lo prendevo in bocca.
- Non oseresti mai scrivere pompino - la canzonai.
Lei rispose: - Non hai capito, ho pensato che prendevo in bocca il tuo seme. Che tu ti masturbavi davanti a me e poi venivi sulla mia faccia, la mia lingua.
Le chiesi nuovamente se era disposta a farlo. Rispose no. Sarebbe stata già troppo anche quella cosa lì, che le fossi venuto in faccia. Ma sulla mia idea in generale, ci stava pensando, in effetti. Forse almeno ci saremmo “raffreddati”, dopo.
- Tra l’altro sono brava – aggiunse.
- Cosa vuol dire?
- Se accetterò la tua proposta lo vedrai. Preparati.

Avevo un appartamentino, in città, al momento non affittato. Al terzo piano di un piccolo condominio. Ci andammo assieme, un pomeriggio. Era strano per entrambi non essere al lavoro alle 2 del pomeriggio. Essere nella penombra di una casa, in una camera da letto.
Aveva messo una gonna scura e una camicetta bianca. Nel breve tragitto che facemmo in macchina parlammo di una guerra che era appena scoppiata.
Una volta entrati si tolse le scarpe e andò subito in bagno. Io mi sdraiai sul letto, vestito. Mi ero levai solo la giacca.
Quando uscì, ancora vestita, si sedette sul letto, dandomi la schiena. Tirò fuori alcune cose dalla borsetta, e le appoggiò sul ripiano basso del comodino, non avevo visto cosa fossero.
Poi si sdraiò al mio fianco.
Non provai a toccarla. Non le saltai addosso. Naturalmente ne avevo una voglia matta, ma mi ero imposto di resistere. Mi dicevo anche che se avessi tenuto fede alla mia promessa, forse il resto col tempo sarebbe arrivato.
Trascorremmo un paio di minuti di silenzio, a guardare il soffitto. La stanza era arredata semplicemente, con mobili di una volta, in quell’appartamento aveva vissuto mia madre dopo essere rimasta vedova, e fino alla sua morte. La luce era poca, entrava da una finestra schermata dalle tende. Le tapparelle erano abbassate per tre quarti, e non avevo acceso gli abat jour. Da fuori arrivavano rumori lontani, la città che riprende il suo ciclo dopo la pausa pranzo, il traffico che si rimette in moto.
Poi, un gesto esitante. Lentamente, portò la mano destra sotto l’orlo della gonna. La guardai. Aveva chiuso gli occhi, e girato il viso dalla parte opposta alla mia. Vidi i movimenti della sua mano là sotto, lenti, leggeri.
Mi sbottonai i pantaloni – la cintura l’avevo già levata – e tirai giù la zip. Avevo messo dei boxer, sotto, aperti davanti. Il mio cazzo svettò immediatamente. Mi girai di nuovo. Vidi che lei aveva sollevato leggermente la testa dal cuscino e stava guardando. Guardava la mia mano che impugnava il pene alla base. Poi mi guardò negli occhi. Si passò la lingua sulle labbra.
Forse era una mia impressione ma mi sembrava rassicurata, oltre che eccitata. Pensava di potersi fidare, evidentemente. Richiuse le palpebre, riadagiò il capo e tornò a concentrarsi su di sé.
La sua mano si muoveva con calma sotto la gonna. Lenti movimenti ritmici. Circolari. Ci volle un bel po’ prima che le scappasse un gemito...mh…
Strinse le labbra, poi le riaprì. La mano ora si muoveva più velocemente, e il suo respiro stava iniziando ad accelerare.
Io dovevo solo stare attento a non venire. Accarezzavo la mia asta, che so essere ragguardevole, su e giù, concentrando lo sguardo su di lei, ma sempre conscio che dovevo sforzarmi di rimandare il piacere il più a lungo possibile.
Ad un certo punto, fece un sospiro più profondo. Quindi armeggiò sotto la gonna, piegò un ginocchio, si contorse un poco, e quando estrasse la mano stringeva le sue mutande, bianche e di pizzo come nella foto. Le gettò ai piedi del letto.
Sembrava esitare. Io non dicevo nulla. Quasi con stizza, si sganciò la gonna, di lato, e tolse anche quella, scoprendo il suo grembo appena celato dal bordo della camicia. Se la tolse da sotto il sedere, la lanciò a terra vicino alle mutande.
A questo punto mi sollevai, mi misi davanti a lei, sulle ginocchia. Sonia mi scoccò un’occhiata ostile. La rassicurai con lo sguardo e un cenno del capo. Non intendevo prenderla con la forza, non ero un animale. Volevo solo guardarla bene. Era lì, nuda dalla pancia in giù. I piedi bianchi, lisci, con le unghie delle dita smaltate di rosso, nudi perché non indossava le calze. I piedi con i quali aveva fatto venire il suo ex-ragazzo. L’interno delle cosce lucido.
La sua mano salì ad accarezzare il monte di Venere, che aveva molto pronunciato coperto da una corta peluria scura. Poi scese verso il clitoride, lo sfiorò con piccoli gesti in senso orario, lo tormentò, lo titillò. La sua figa era come il suo viso, perfetta. Le labbra lunghe e sottili, incorniciate dal cappuccio del clitoride, avevo una voglia pazzesca di leccarglielo, quel lembo di pelle roseo. Ad un certo punto, rovesciando il collo all’indietro, si infilò dentro il dito medio, gemendo. Spinse il bacino incontro il dito, che mi sembrava tenesse leggermente piegato ad uncino. Poi, dopo cinque o sei movimenti, infilò dentro anche l’anulare. Entrò nel rosso della carne come nel burro.
Faceva mh…e ah…ah… Sotto la camicetta bianca premevano i suoi capezzoli, costretti dal reggiseno.

Si fermò. Notai un velo di sudore sulla fronte. Riaprì gli occhi, erano torbidi. Si tirò su, si sbottonò la camicetta davanti – aveva un taglio molto maschile – e se la tolse. Subito dopo tolse anche il reggiseno. Aveva seni rotondi, ben proporzionati, le aureole dei capezzoli piccole e insospettabilmente chiare. Si allungò verso il comodino a prendere gli oggetti che le avevo visto estrarre dalla borsa prima. Una spuma gel, che si spruzzò sulla mano e poi si spalmò sulla figa. Quindi, di nuovo chinandosi verso il pavimento, un vibratore. Più piccolo di un pene. Liscio. Girò la rotella alla base per accenderlo. Si rimise sdraiata e se lo fece scivolare lungo la pancia fino alla figa.
Ed il fiore si aprì, come un’orchidea. Il respiro accelerò. I gemiti divennero un lamento strozzato. Poi la sua vulva prese a contrarsi, ritmicamente. Non avevo mai visto uno spettacolo tanto bello. Mi chinai per vedere meglio. Faceva ah, ah, aaah, sollevando le ginocchia, piegando le dita dei piedi. In quella posizione vedevo anche il suo buco del culo contrarsi. Continuava e continuava, era fradicia, sotto di lei, sul lenzuolo, si era allargata una macchia, ma la cosa stupefacente era quel suo venire in continuazione. Si sentì come un piccolo sciocco, in corrispondenza di una contrazione più forte delle altre, un rumore che dentro di me paragonai a un uovo di vaniglia che si schiude. - Oddio, dio … - gemette Sonia.
Lo spinse dentro due o tre volte, lo estrasse lucido dei suoi umori, lo ripassò sul clitoride, quindi dentro di nuovo, una danza. Venne ancora, la sia figa sembrava parlare, aprendosi e contraendosi, un’anemone.
Ah, sì, oddio, sì, mh…sì…dio, dio, ah…aaah.

Alla fine, stremata, si fermò. Rimase così, con lo sguardo rivolto al soffitto, una goccia di sudore che scorreva dalla tempia verso la sguancia, le gambe spalancate, i capezzoli come due chiodi.
- Vieni tu adesso – mi chiese. Mi avvicinai a lei, mi misi fra le sue gambe. Avevo i testicoli gonfi. Anziché continuare a stringere mossi la mano su e giù
- Vienimi qui – disse, accarezzandosi le tette. Mi sporsi ancora di più, proprio mentre partiva un fiotto bianco, che atterrò fra i suoi seni. L’altro si fermò sulla sua pancia, centrando l’ombelico. Un altro, e un altro. Sul monte di venere, sul dorso della sua mano.
Quando finii di sborrare lei passò quella mano sul mio seme, se lo spalmò addosso.
- Com’è stato? – mi chiese.
- Bello.
- Anche per me.
Si alzò per andare in bagno. Io non riuscivo a staccare lo sguardo da quella chiazza umida sul lenzuolo, dove si era versata.

Ci rivestimmo. Poi il viaggio in auto, di nuovo la città. La lasciai sul retro del palazzo dove lavorava. Aveva una serata di trasmissioni davanti a sé. Con il mio sperma addosso, pensai.
Io invece avevo preso il pomeriggio libero. Perciò scesi ai navigli, nel calore delle quattro delle cinque del pomeriggio. Mi sedetti su un tavolino a bere una birra e intanto pensavo a quell’anemone rosa, che pulsava, di piacere.

coltranejohn39@gmail.com

scritto il
2025-06-22
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