Espansiva
di
john coltrane
genere
tradimenti
ESPANSIVA
Katia era molto espansiva e io non ci avevo ancora fatto l’abitudine. La mia prima moglie aveva un carattere difficile: le rare volte in cui facevamo “vita di società” restavo tutto il tempo in tensione. Per un nonnulla la serata poteva trasformarsi in un disastro. Katia invece era prodiga di sorrisi, toccava gli interlocutori su un braccio o una spalla quando faceva loro una domanda e poi li ascoltava parlare, guardandoli negli occhi. Inoltre era molto bella. Per questo insieme di motivi tutti passavano volentieri il loro tempo con lei. Anche troppo, mi dicevo. Ma ero contento di avere finalmente una donna così al mio fianco.
Una sera, all’inaugurazione della mostra fotografica di una comune amica, in alcune sale del Museo di arte contemporanea della nostra città, un uomo iniziò a parlarle, e non la lasciava più andare. Si era presentato sia a me che a lei (con due vigorose strette di mano), quindi aveva capito benissimo che era accompagnata. Eppure l’aveva subito circondata di attenzioni, mettendomi progressivamente ai margini.
Ad un certo punto – l’uomo era andato a prendere da bere, non avevo capito se per tutti e tre o solo loro due – le ho detto con un tono scherzoso che le lasciavo campo libero. Lei mi ha guardato con una luce strana negli occhi, e ha fatto quel gesto automatico che conoscevo bene, di toccarsi i capelli.
- Dove vai? – mi ha chiesto, subito dopo, afferrandomi un polso. Aveva già cambiato espressione. Adesso aveva un’aria supplicante, da bambina, mi stava quasi implorando di non lasciarla sola.
- Rimango qui in giro, non preoccuparti – l’ho rassicurata.
Non mi andava di fare il possessivo con quel tizio. E poi comunque mi stavo annoiando. Che male c’era se andavo anch’io a scambiare due parole con qualcuno?
Così, mi sono allontanato, proprio mentre l’uomo stava tornando, reggendo due calici, questo l’ho notato, due, non tre. Dopodiché, sono andato a mia volta al tavolo del buffet. Nella mezz’ora successiva mi sono imbattuto in sequenza in: Andrea e Carla, che mi hanno portato al piano di sopra, dove dovevo vedere assolutamente una certa installazione (francamente orribile); Romano, che mi tenne quasi un quarto d’ora sulla balconata, raccontandomi della sua ennesima crisi coniugale; ed infine Ewe, l’autrice delle foto della mostra, che avevano per tema gli alberi, o meglio alberi dalle sembianze umane.
Quando sono ridisceso, Katia era svanita. E anche quel tizio, non riuscivo a individuarlo da nessuna parte. Se l’avessi visto, mi sarei messo il cuore in pace. Invece, non c’erano né lui né lei.
- Hai visto Katia? –ho chiesto a Romano, incrociandolo di nuovo.
Ha scosso la testa. Ma del resto era ormai troppo ubriaco.
- Hai visto Katia, per caso? – ho chiesto con un filo di imbarazzo a Simona e Roberta, che Katia adorava, al punto di averle elette “coppia dell’anno” (un gioco che facevamo fra noi, eleggere periodicamente quella che ritenevamo essere la coppia perfetta).
- Prima, sì – ha detto Simona. Ma non era in grado di aiutarmi.
Roberta dal canto suo ha fatto spallucce. Poi mi ha posato entrambe le mani sulle spalle e mi ha dato un bacio leggero su una guancia. - Ti voglio bene.
Quella sera Katia si era messa un vestito scollato, aderente sui fianchi e corto sotto. L’avevo vista mentre lo indossava, dopo essersi fatta la doccia, sulla biancheria, nera anch’essa, che aveva scelto con cura, comprese le autoreggenti. Poi aveva calzato scarpe con tacchi a specchio, piuttosto larghi, non voleva martoriarsi i piedi, le stavano bene comunque e la slanciavano. Sopra, il cappotto arancione, che aveva depositato al guardaroba.
Dov’era la sua testa bionda? E quel tipo? Era il genere d’uomo che piaceva a Katia. Alto, scuro di capelli, con barba e baffi. Che fosse un po’ stempiato non doveva poi dispiacerle, uno dei suoi ex era completamente calvo. Forse se n’era già andato.
Dopo avere perlustrato più volte il piano – ogni angolo della mostra, il buffet, i capannelli di persone - sono sceso al piano interrato, dove c’erano i bagni.
Erano immacolati, degni di un museo. Sono entrato nel primo con il contrassegno verde sopra la maniglia, ma tanto dal silenzio dovevano essere tutti liberi. Mentre mi tiravo giù la zip dei pantaloni – avevo proprio bisogno di pisciare - ho sentito un riso sommesso. Sembrava quello di un uomo, il che in effetti sarebbe stato normale, essendo quelle le toilettes riservate a noi.
Uno, due, tre. Quattro secondi di silenzio. E un lamento, seguito da una voce sottile, di donna. Solo un sussurro.
- Aspetta.
- Cosa? – ha chiesto la voce maschile.
- Non hai sentito? C’è…qualcuno.
- E allora?
- Come allora.
Sono rimasto paralizzato. Non osavo muovermi, non osavo neanche respirare.
- Dai… - ha detto l’uomo. Fruscio di indumenti, di corpi che si muovevano, quei muri non isolavano niente.
- Per piacere…aspetta.
- Dai, da brava
- Ma c’è qualcuno.
- Bene.
- No no no. Aspetta…ti pre-go…
- Fammi sentire.
Un “ahh”. Come faceva anche Katia, quando ad esempio le infilavo dentro due dita. Mi aveva sempre colpito, non sono uno che ama le troppe parole o il dirty talk, quell’ah è più che sufficiente, c’è dentro tutto: accettazione, resa, la donna che accoglie il maschio e il piacere.
- Sei bagnatissima, amore. Vuoi che mi fermo?
- Mh…oddio…
Poi ancora movimenti, vestiti. Chi toglieva o abbassava cosa? Potevo solo immaginarlo.
- Fai piano… - lo ha pregato lei, con quella voce, quella voce….
Quindi, quasi subito, un grido. Acuto, strozzato. Pausa. In rapida sequenza, una serie di colpi, come degli schiaffi, o come delle parti morbide che vengono a contatto violentemente. L’aveva presa in parola. Sei, sette…
- Ah…ah…ah… - faceva la donna. Poi, gemendo: - Ti pregotipregotipre-go…
Ancora colpi, e ancora quegli ah, ah. Sei, sette, otto, nove…
Quindi niente, neanche più ti prego.
E ancora: ciac, ciac, ciac.
Uno, due, tre, quattro.
- Sì, sì, sì – ha detto la donna, cambiando versione. - Oh, dio, sì…
- Ne vuoi ancora?
- Sì, ti prego...
- Va bene.
I colpi sono diventati più rapidi. Mi sono messo a contarli, mi è venuto spontaneo. Ne ho contati ancora dieci. E dieci “ah”, sempre più alti. Infine una pausa. Seguita da una specie di ruggito, Quello dell’uomo che si liberava.
In tutto era durato non più di un paio di minuti.
Dopo un ragionevole intervallo di silenzio, forse il ronzio di una cerniera.
- Esco prima io – ha detto l’uomo.
- Sì – ha risposto la voce femminile. Normale, adesso, non più alterata. Non volevo crederci.
La porta che si apriva. Il rubinetto di uno dei lavandini esterni, aperto, chiuso. Salviette sfilate dal dispenser. Passi che si allontanavano, senza fretta, passi di una persona sola, non di due.
Avevo il cazzo durissimo.
A questo punto ho fatto quello che avevo pensato di fare poco prima. Ho tirato fuori il cellulare – piano, cercando di non fare neanche il più piccolo rumore – e ho chiamato Katia. Ho sentito lo squillo dall’altra parte della parete.
- Sì?
coltranejohn39@gmail.com
Katia era molto espansiva e io non ci avevo ancora fatto l’abitudine. La mia prima moglie aveva un carattere difficile: le rare volte in cui facevamo “vita di società” restavo tutto il tempo in tensione. Per un nonnulla la serata poteva trasformarsi in un disastro. Katia invece era prodiga di sorrisi, toccava gli interlocutori su un braccio o una spalla quando faceva loro una domanda e poi li ascoltava parlare, guardandoli negli occhi. Inoltre era molto bella. Per questo insieme di motivi tutti passavano volentieri il loro tempo con lei. Anche troppo, mi dicevo. Ma ero contento di avere finalmente una donna così al mio fianco.
Una sera, all’inaugurazione della mostra fotografica di una comune amica, in alcune sale del Museo di arte contemporanea della nostra città, un uomo iniziò a parlarle, e non la lasciava più andare. Si era presentato sia a me che a lei (con due vigorose strette di mano), quindi aveva capito benissimo che era accompagnata. Eppure l’aveva subito circondata di attenzioni, mettendomi progressivamente ai margini.
Ad un certo punto – l’uomo era andato a prendere da bere, non avevo capito se per tutti e tre o solo loro due – le ho detto con un tono scherzoso che le lasciavo campo libero. Lei mi ha guardato con una luce strana negli occhi, e ha fatto quel gesto automatico che conoscevo bene, di toccarsi i capelli.
- Dove vai? – mi ha chiesto, subito dopo, afferrandomi un polso. Aveva già cambiato espressione. Adesso aveva un’aria supplicante, da bambina, mi stava quasi implorando di non lasciarla sola.
- Rimango qui in giro, non preoccuparti – l’ho rassicurata.
Non mi andava di fare il possessivo con quel tizio. E poi comunque mi stavo annoiando. Che male c’era se andavo anch’io a scambiare due parole con qualcuno?
Così, mi sono allontanato, proprio mentre l’uomo stava tornando, reggendo due calici, questo l’ho notato, due, non tre. Dopodiché, sono andato a mia volta al tavolo del buffet. Nella mezz’ora successiva mi sono imbattuto in sequenza in: Andrea e Carla, che mi hanno portato al piano di sopra, dove dovevo vedere assolutamente una certa installazione (francamente orribile); Romano, che mi tenne quasi un quarto d’ora sulla balconata, raccontandomi della sua ennesima crisi coniugale; ed infine Ewe, l’autrice delle foto della mostra, che avevano per tema gli alberi, o meglio alberi dalle sembianze umane.
Quando sono ridisceso, Katia era svanita. E anche quel tizio, non riuscivo a individuarlo da nessuna parte. Se l’avessi visto, mi sarei messo il cuore in pace. Invece, non c’erano né lui né lei.
- Hai visto Katia? –ho chiesto a Romano, incrociandolo di nuovo.
Ha scosso la testa. Ma del resto era ormai troppo ubriaco.
- Hai visto Katia, per caso? – ho chiesto con un filo di imbarazzo a Simona e Roberta, che Katia adorava, al punto di averle elette “coppia dell’anno” (un gioco che facevamo fra noi, eleggere periodicamente quella che ritenevamo essere la coppia perfetta).
- Prima, sì – ha detto Simona. Ma non era in grado di aiutarmi.
Roberta dal canto suo ha fatto spallucce. Poi mi ha posato entrambe le mani sulle spalle e mi ha dato un bacio leggero su una guancia. - Ti voglio bene.
Quella sera Katia si era messa un vestito scollato, aderente sui fianchi e corto sotto. L’avevo vista mentre lo indossava, dopo essersi fatta la doccia, sulla biancheria, nera anch’essa, che aveva scelto con cura, comprese le autoreggenti. Poi aveva calzato scarpe con tacchi a specchio, piuttosto larghi, non voleva martoriarsi i piedi, le stavano bene comunque e la slanciavano. Sopra, il cappotto arancione, che aveva depositato al guardaroba.
Dov’era la sua testa bionda? E quel tipo? Era il genere d’uomo che piaceva a Katia. Alto, scuro di capelli, con barba e baffi. Che fosse un po’ stempiato non doveva poi dispiacerle, uno dei suoi ex era completamente calvo. Forse se n’era già andato.
Dopo avere perlustrato più volte il piano – ogni angolo della mostra, il buffet, i capannelli di persone - sono sceso al piano interrato, dove c’erano i bagni.
Erano immacolati, degni di un museo. Sono entrato nel primo con il contrassegno verde sopra la maniglia, ma tanto dal silenzio dovevano essere tutti liberi. Mentre mi tiravo giù la zip dei pantaloni – avevo proprio bisogno di pisciare - ho sentito un riso sommesso. Sembrava quello di un uomo, il che in effetti sarebbe stato normale, essendo quelle le toilettes riservate a noi.
Uno, due, tre. Quattro secondi di silenzio. E un lamento, seguito da una voce sottile, di donna. Solo un sussurro.
- Aspetta.
- Cosa? – ha chiesto la voce maschile.
- Non hai sentito? C’è…qualcuno.
- E allora?
- Come allora.
Sono rimasto paralizzato. Non osavo muovermi, non osavo neanche respirare.
- Dai… - ha detto l’uomo. Fruscio di indumenti, di corpi che si muovevano, quei muri non isolavano niente.
- Per piacere…aspetta.
- Dai, da brava
- Ma c’è qualcuno.
- Bene.
- No no no. Aspetta…ti pre-go…
- Fammi sentire.
Un “ahh”. Come faceva anche Katia, quando ad esempio le infilavo dentro due dita. Mi aveva sempre colpito, non sono uno che ama le troppe parole o il dirty talk, quell’ah è più che sufficiente, c’è dentro tutto: accettazione, resa, la donna che accoglie il maschio e il piacere.
- Sei bagnatissima, amore. Vuoi che mi fermo?
- Mh…oddio…
Poi ancora movimenti, vestiti. Chi toglieva o abbassava cosa? Potevo solo immaginarlo.
- Fai piano… - lo ha pregato lei, con quella voce, quella voce….
Quindi, quasi subito, un grido. Acuto, strozzato. Pausa. In rapida sequenza, una serie di colpi, come degli schiaffi, o come delle parti morbide che vengono a contatto violentemente. L’aveva presa in parola. Sei, sette…
- Ah…ah…ah… - faceva la donna. Poi, gemendo: - Ti pregotipregotipre-go…
Ancora colpi, e ancora quegli ah, ah. Sei, sette, otto, nove…
Quindi niente, neanche più ti prego.
E ancora: ciac, ciac, ciac.
Uno, due, tre, quattro.
- Sì, sì, sì – ha detto la donna, cambiando versione. - Oh, dio, sì…
- Ne vuoi ancora?
- Sì, ti prego...
- Va bene.
I colpi sono diventati più rapidi. Mi sono messo a contarli, mi è venuto spontaneo. Ne ho contati ancora dieci. E dieci “ah”, sempre più alti. Infine una pausa. Seguita da una specie di ruggito, Quello dell’uomo che si liberava.
In tutto era durato non più di un paio di minuti.
Dopo un ragionevole intervallo di silenzio, forse il ronzio di una cerniera.
- Esco prima io – ha detto l’uomo.
- Sì – ha risposto la voce femminile. Normale, adesso, non più alterata. Non volevo crederci.
La porta che si apriva. Il rubinetto di uno dei lavandini esterni, aperto, chiuso. Salviette sfilate dal dispenser. Passi che si allontanavano, senza fretta, passi di una persona sola, non di due.
Avevo il cazzo durissimo.
A questo punto ho fatto quello che avevo pensato di fare poco prima. Ho tirato fuori il cellulare – piano, cercando di non fare neanche il più piccolo rumore – e ho chiamato Katia. Ho sentito lo squillo dall’altra parte della parete.
- Sì?
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