Disagio
di
john coltrane
genere
pissing
Lo stimolo è iniziato mentre eravamo sul palco. La conferenza era iniziata da un’ora, ma non accennava a finire. Tutti continuavano a fare domande al professore, che aveva un passato anche come politico. Io dovevo andare il bagno.
Logicamente non potevo alzarmi di fronte a lui – un uomo già oltre i 60, ma ancora affascinante – e a cento persone.
Così, ho aspettato che la conferenza terminasse.
Dopo, mentre lui stringeva mani, firmava copie dei suoi libri e si attardava con i soliti a cui non basta sentire quello che il relatore ha da dire mentre è sul palco, ma vogliono a tutti i costi strappargli qualcosa di più “privato”, mi sono messa a cercare la toilette. Anch’io prima ho dovuto stringere alcune mani e salutare alcune persone, pur essendo molto meno celebre.
Finalmente ho imboccato il corridoio, ticchettando sui miei tacchi. Ecco la meta, missione compiuta. Sono entrata in quello delle donne, ovviamente. C’erano tre persone che armeggiavano con uno strumento che poteva sembrare un aspirapolvere, solo che non aspirava polvere, aspirava acqua.
- Mi scusi, signora, c’è stato un disastro qui – ha detto uno di loro, forse il caposquadra. Ha indicato il lago sul pavimento.
Va bene, mi sono detta, posso resistere. Sono uscita e ho raggiunto il professore nell’atrio. Non mi è passato neanche per la mente di andare in quello degli uomini. La forza dell’educazione.
Il professore si era fatto già chiamare il taxi. Siamo saliti. Eravamo scesi nello stesso albergo (lui su mio consiglio) e quindi ci eravamo accordati per rientrare assieme.
Era euforico, e parlava. Io sorridevo dicendo quasi nulla, a parte: Eh sì, proprio così.
Non avevo più un briciolo dell’acume che avevo dimostrato – o almeno, che credevo di avere dimostrato – in sala.
Quando siamo arrivati ha insistito per offrirmi un drink. Ci siamo seduti ad un tavolino nel centro della sala. Eravamo gli unici clienti del bar dell’albergo. Da qualche parte doveva esserci un maledetto bagno ma lui continuava, continuava, una frase profonda dietro l’altra, su Proust, Heidegger, non me la sentivo di interromperlo. Stringevo le gambe sperando che passasse. Ma so per esperienza che non passa, anzi, con il crescere del bisogno cresce anche l’angoscia, l’angoscia a sua volta amplifica il bisogno e così via, un loop infernale.
In 5 minuti avevo finito il mio Chardonnay. Lui centellinava il suo, gli ci volle un quarto d’ora prima che il bicchiere fosse vuoto.
Ora mi alzo e vado a cercare un cesso, non ce la faccio più, mi sono detta. Ma lui ha iniziato a farmi domande, su un libro che avevo scritto due anni prima, la ragione per la quale ero a mia volta in città.
- Pensi che fortunata coincidenza, se non fosse stata già qui per i suoi impegni non ci saremmo mai conosciuti – aggiunse.
Sì, se non fossi stata già lì non mi avrebbero chiesto di fargli da sparring-partner, diciamo. Cosa che avevo accettato soprattutto perché i miei compensi erano infinitamente più modesti dei suoi.
Ad un certo punto fece un cenno al barman. Finalmente, pensai, adesso paga e posso lasciarlo.
Capii con terrore che aveva ordinato anche una bottiglia.
Mi guardò cercando complicità nei miei occhi. Ora, il professore era un bell’uomo, interessante, educato, e con un certo allure erotico. Ma io avevo il vuoto nella mente. E la vescica che stava per scoppiare.
- Non si spaventi - mi disse – se vorrà farmi compagnia, sarei felice di dividerla con lei nella mia camera e parlare ancora un poco. Altrimenti, vorrà dire che la berrò da solo.
Quindi era un intellettuale maledetto. Uno che si sbronzava in camera a tarda notte perché Proust o chi per lui non erano sufficienti a tenere a bada suoi i fantasmi. Sì, anche a questo dettaglio, in altre circostanze, non sarei stata insensibile. Adesso, però, dovevo in primo luogo pisciare.
Mi schermii, lui non disse nulla. Ci dirigemmo entrambi verso l’ascensore. Se avessi avuto una camera al primo piano forse sarei salita a piedi, anche se ogni passo era una fitta alla pancia, ma visto che ero all’ottavo – lui al novo –era impensabile.
Aspettammo un tempo lunghissimo. Adesso il professore rimaneva in silenzio, perché evidentemente stava pensando alla prossima mossa, o era in imbarazzo, io perché temevo di non farcela. Aveva la barba bianca, mani curate, un bel vestito e un buon odore. Aveva tutto, occhiali alla moda, cravatta perfettamente annodata, la bottiglia di vino spumante in mano. Io rabbrividivo, la borsa con le carte e il pc che pesava sulla spalla e piegava lo scollo del vestito nero, il mio immancabile vestito nero delle buone occasioni.
Finalmente le porte automatiche si sono aperte.
Siamo saliti, sempre senza dire nulla. Ho schiacciato il 9 e l’8, il che a lui dev’essere sembrato un “no” definitivo.
L’ascensore ha iniziato a salire, lentamente. Mi guardava. Mi sono appoggiata ad una parete con la schiena, avevo raggiunto il limite. L’ascensore continuava a salire, 2-3, sempre lentamente.
Al quarto ho capito che non avrei resistito. E non c’era un posto dove nascondersi.
Al quinto qualcosa è uscito. Mi ha bagnato le mutande. Al sesto ho chiuso gli occhi, desiderando morire. Al settimo si sono rotte le acque, l’ho sentita passare attraverso i collant, scorrere lungo le gambe.
All’ottavo lui mi ha detto, spaventato: cosa c’è? Non si sente bene? Poi ha abbassato lo sguardo e ha visto la pozza che si stava allargando ai miei piedi, e che presto avrebbe bagnato la suola delle sue scarpe.
Al nono la porta si è aperta ma io sono rimasta lì, travolta dal senso di liberazione e dall’imbarazzo, sospirando, svuotandomi.
Poi ho sentito la sua mano sfilarmi la borsa dalla spalla. Mi ha toccato i capelli, con dolcezza.
- Va meglio, adesso? Sta bene? – mi chiese, con la sua voce profonda, che aveva sedotto la platea solo un’ora prima.
- Sì – ho detto, appoggiando le mani sulle sue spalle. Mi veniva da piangere o forse da ridere.
- Ho fatto un disastro.
- Ma no, ma no, succede. Ma si è tutta bagnata. Mi faccia sentire.
Ha infilato la mano sotto l’orlo del vestito, velocemente è risalito fino all’attaccatura delle cosce. Ovviamente calze e mutande erano da strizzare, ma cosa stava cercando?
Era evidente quello che stava cercando.
- Mi faccia sentire – ripetè, con voce roca.
Le sue scarpe facevano un rumore come quando calpesti una pozzanghera.
- Mi faccia sen-ti-re…
Ha infilato dentro la mano. Adesso non ero bagnata solo di piscio ma anche d’altro.
Chissenefrega. Ormai, potevo anche lasciargli sentire tutto quello che voleva. Il peggio era passato.
coltranejohn39@gmail.com
Logicamente non potevo alzarmi di fronte a lui – un uomo già oltre i 60, ma ancora affascinante – e a cento persone.
Così, ho aspettato che la conferenza terminasse.
Dopo, mentre lui stringeva mani, firmava copie dei suoi libri e si attardava con i soliti a cui non basta sentire quello che il relatore ha da dire mentre è sul palco, ma vogliono a tutti i costi strappargli qualcosa di più “privato”, mi sono messa a cercare la toilette. Anch’io prima ho dovuto stringere alcune mani e salutare alcune persone, pur essendo molto meno celebre.
Finalmente ho imboccato il corridoio, ticchettando sui miei tacchi. Ecco la meta, missione compiuta. Sono entrata in quello delle donne, ovviamente. C’erano tre persone che armeggiavano con uno strumento che poteva sembrare un aspirapolvere, solo che non aspirava polvere, aspirava acqua.
- Mi scusi, signora, c’è stato un disastro qui – ha detto uno di loro, forse il caposquadra. Ha indicato il lago sul pavimento.
Va bene, mi sono detta, posso resistere. Sono uscita e ho raggiunto il professore nell’atrio. Non mi è passato neanche per la mente di andare in quello degli uomini. La forza dell’educazione.
Il professore si era fatto già chiamare il taxi. Siamo saliti. Eravamo scesi nello stesso albergo (lui su mio consiglio) e quindi ci eravamo accordati per rientrare assieme.
Era euforico, e parlava. Io sorridevo dicendo quasi nulla, a parte: Eh sì, proprio così.
Non avevo più un briciolo dell’acume che avevo dimostrato – o almeno, che credevo di avere dimostrato – in sala.
Quando siamo arrivati ha insistito per offrirmi un drink. Ci siamo seduti ad un tavolino nel centro della sala. Eravamo gli unici clienti del bar dell’albergo. Da qualche parte doveva esserci un maledetto bagno ma lui continuava, continuava, una frase profonda dietro l’altra, su Proust, Heidegger, non me la sentivo di interromperlo. Stringevo le gambe sperando che passasse. Ma so per esperienza che non passa, anzi, con il crescere del bisogno cresce anche l’angoscia, l’angoscia a sua volta amplifica il bisogno e così via, un loop infernale.
In 5 minuti avevo finito il mio Chardonnay. Lui centellinava il suo, gli ci volle un quarto d’ora prima che il bicchiere fosse vuoto.
Ora mi alzo e vado a cercare un cesso, non ce la faccio più, mi sono detta. Ma lui ha iniziato a farmi domande, su un libro che avevo scritto due anni prima, la ragione per la quale ero a mia volta in città.
- Pensi che fortunata coincidenza, se non fosse stata già qui per i suoi impegni non ci saremmo mai conosciuti – aggiunse.
Sì, se non fossi stata già lì non mi avrebbero chiesto di fargli da sparring-partner, diciamo. Cosa che avevo accettato soprattutto perché i miei compensi erano infinitamente più modesti dei suoi.
Ad un certo punto fece un cenno al barman. Finalmente, pensai, adesso paga e posso lasciarlo.
Capii con terrore che aveva ordinato anche una bottiglia.
Mi guardò cercando complicità nei miei occhi. Ora, il professore era un bell’uomo, interessante, educato, e con un certo allure erotico. Ma io avevo il vuoto nella mente. E la vescica che stava per scoppiare.
- Non si spaventi - mi disse – se vorrà farmi compagnia, sarei felice di dividerla con lei nella mia camera e parlare ancora un poco. Altrimenti, vorrà dire che la berrò da solo.
Quindi era un intellettuale maledetto. Uno che si sbronzava in camera a tarda notte perché Proust o chi per lui non erano sufficienti a tenere a bada suoi i fantasmi. Sì, anche a questo dettaglio, in altre circostanze, non sarei stata insensibile. Adesso, però, dovevo in primo luogo pisciare.
Mi schermii, lui non disse nulla. Ci dirigemmo entrambi verso l’ascensore. Se avessi avuto una camera al primo piano forse sarei salita a piedi, anche se ogni passo era una fitta alla pancia, ma visto che ero all’ottavo – lui al novo –era impensabile.
Aspettammo un tempo lunghissimo. Adesso il professore rimaneva in silenzio, perché evidentemente stava pensando alla prossima mossa, o era in imbarazzo, io perché temevo di non farcela. Aveva la barba bianca, mani curate, un bel vestito e un buon odore. Aveva tutto, occhiali alla moda, cravatta perfettamente annodata, la bottiglia di vino spumante in mano. Io rabbrividivo, la borsa con le carte e il pc che pesava sulla spalla e piegava lo scollo del vestito nero, il mio immancabile vestito nero delle buone occasioni.
Finalmente le porte automatiche si sono aperte.
Siamo saliti, sempre senza dire nulla. Ho schiacciato il 9 e l’8, il che a lui dev’essere sembrato un “no” definitivo.
L’ascensore ha iniziato a salire, lentamente. Mi guardava. Mi sono appoggiata ad una parete con la schiena, avevo raggiunto il limite. L’ascensore continuava a salire, 2-3, sempre lentamente.
Al quarto ho capito che non avrei resistito. E non c’era un posto dove nascondersi.
Al quinto qualcosa è uscito. Mi ha bagnato le mutande. Al sesto ho chiuso gli occhi, desiderando morire. Al settimo si sono rotte le acque, l’ho sentita passare attraverso i collant, scorrere lungo le gambe.
All’ottavo lui mi ha detto, spaventato: cosa c’è? Non si sente bene? Poi ha abbassato lo sguardo e ha visto la pozza che si stava allargando ai miei piedi, e che presto avrebbe bagnato la suola delle sue scarpe.
Al nono la porta si è aperta ma io sono rimasta lì, travolta dal senso di liberazione e dall’imbarazzo, sospirando, svuotandomi.
Poi ho sentito la sua mano sfilarmi la borsa dalla spalla. Mi ha toccato i capelli, con dolcezza.
- Va meglio, adesso? Sta bene? – mi chiese, con la sua voce profonda, che aveva sedotto la platea solo un’ora prima.
- Sì – ho detto, appoggiando le mani sulle sue spalle. Mi veniva da piangere o forse da ridere.
- Ho fatto un disastro.
- Ma no, ma no, succede. Ma si è tutta bagnata. Mi faccia sentire.
Ha infilato la mano sotto l’orlo del vestito, velocemente è risalito fino all’attaccatura delle cosce. Ovviamente calze e mutande erano da strizzare, ma cosa stava cercando?
Era evidente quello che stava cercando.
- Mi faccia sentire – ripetè, con voce roca.
Le sue scarpe facevano un rumore come quando calpesti una pozzanghera.
- Mi faccia sen-ti-re…
Ha infilato dentro la mano. Adesso non ero bagnata solo di piscio ma anche d’altro.
Chissenefrega. Ormai, potevo anche lasciargli sentire tutto quello che voleva. Il peggio era passato.
coltranejohn39@gmail.com
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