La rpfessoressa e l'allieva. Cap 1
di
Fuuka
genere
dominazione
Il corso di “Teoria Critica della Letteratura Moderna” era un girone dantesco. A presiederlo, come una divinità terribile e magnifica, c’era la Professoressa Suzuka Watanabe. Non era semplicemente una docente; era un’istituzione, una leggenda vivente nel campus. La sua intelligenza era affilata come una katana, la sua bellezza così austera e perfetta da incutere timore. Alta, con un corpo statuario fasciato in abiti impeccabili e severi, capelli neri come inchiostro raccolti in uno chignon che non aveva mai un capello fuori posto, e occhi scuri che sembravano capaci di leggere non solo le parole di un testo, ma l’anima di chi le stava di fronte.
Io, Aiko, ero solo una delle tante matricole perse in quel mare di volti. Eppure, mi sentivo diversa. Mentre gli altri temevano il suo sguardo, io lo cercavo. Mentre gli altri tremavano quando li interrogava, io anelavo a quel momento, pregando di avere la risposta giusta, di poter brillare per un solo istante sotto la sua attenzione. La sua severità non mi spaventava; mi affascinava. La sua mente brillante era un faro, e io non desideravo altro che navigare verso quella luce.
La selezione avvenne a metà semestre. La Professoressa Watanabe aveva la fama di scegliere ogni anno un solo studente, il “preferito”, da seguire personalmente per un progetto di ricerca avanzato. Era un onore paragonabile a essere scelti da un dio per ascendere all’Olimpo. Nessuno sapeva con che criterio scegliesse. Quel giorno, alla fine di una lezione massacrante in cui aveva demolito pezzo per pezzo le teorie di un mio collega, i suoi occhi si posarono su di me.
«Signorina Aiko», la sua voce era velluto e ghiaccio, un suono che riempì l’aula magna e zittì ogni respiro. «Il suo ultimo saggio sull’alienazione in Mishima era… adeguato. Ma manca di profondità. La sua analisi è superficiale, scolastica. Si fermi nel mio ufficio dopo la lezione».
Il cuore mi martellò nel petto. “Adeguato” dalla sua bocca era quasi un complimento, ma l’umiliazione pubblica era parte del suo metodo. Feci come mi era stato ordinato. Attesi fuori dal suo ufficio, tremante, finché la porta non si aprì.
L’ufficio era il suo santuario: ordinato, minimalista, con scaffali di libri che arrivavano al soffitto. Lei era seduta dietro una massiccia scrivania di mogano. Non mi invitò a sedere.
«La sua mente ha del potenziale, Aiko», disse, senza alzare lo sguardo da alcune carte. «Ma è indisciplinata. Pigra. Si accontenta della superficie. Io detesto la superficialità. Tuttavia, vedo una scintilla. Una fame di conoscenza che gli altri idioti in quella classe non possiedono».
Alzò finalmente gli occhi su di me. Mi sentii nuda, ogni mia insicurezza esposta.
«Voglio fare di lei il mio progetto speciale quest’anno. Significa che dovrà dedicarsi a me completamente. Le sue serate, i suoi fine settimana, il suo tempo libero… apparterranno a me. Saranno lezioni private, intensive. Qui, o a casa mia. Sradicherò la sua mediocrità e la trasformerò in eccellenza. Ma la avverto: sarà brutale. Non accetto fallimenti, né lamentele. È disposta a pagare questo prezzo per la vera conoscenza?».
La domanda andava oltre l’accademia. Lo sentivo nelle sue parole, nel modo in cui mi scrutava. Stava offrendo un patto, un accordo faustiano. E io, senza un briciolo di esitazione, annuii.
«Sì, Professoressa. Farò tutto quello che mi chiederà».
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso quasi impercettibile. «Bene. La prima lezione privata sarà domani sera, alle nove. A casa mia. Le manderò l’indirizzo. Si presenti puntuale. E Aiko… venga preparata. A tutto».
La casa della Professoressa Suzuka era esattamente come l’avevo immaginata: un appartamento moderno e impeccabile in cima a un grattacielo, con una vetrata che dominava le luci della città. L’arredamento era essenziale, dominato dai colori nero, bianco e grigio. Non c’era nulla di superfluo.
Mi accolse sulla porta. Non indossava i suoi soliti tailleur, ma un semplice abito nero di seta che le scivolava addosso, rivelando più di quanto nascondesse. I capelli erano sciolti, una cascata di seta nera sulle spalle. Era ancora più bella, e ancora più intimidatoria.
«Entra, Aiko. Togliti le scarpe. E il cappotto».
La sua voce era bassa, quasi un sussurro. Obbedii in silenzio. Mi condusse nel suo studio, simile a quello dell’università ma più intimo. Al centro, però, non c’era una scrivania, ma una poltrona di pelle nera e un pesante tavolo di legno basso.
«Siediti per terra», ordinò.
Mi sedetti sui talloni, sul tappeto. Lei prese posto sulla poltrona, sovrastandomi. Le sue gambe si accavallarono, rivelando uno spacco vertiginoso lungo la coscia.
«Stasera non parleremo di Mishima», disse, la voce calma e controllata. «Parleremo di te. Del tuo corpo. Un intelletto disciplinato richiede un corpo disciplinato. Il tuo corpo è teso, Aiko. Lo vedo da come ti muovi, da come ti siedi. È un corpo che non conosce la sottomissione. E finché il tuo corpo non imparerà a obbedire, la tua mente non potrà mai raggiungere il suo pieno potenziale. Questa è la nostra prima lezione: l'obbedienza assoluta».
Il mio respiro si bloccò. Quello non era un corso di letteratura.
«Alzati e mettiti di fronte a me», continuò. Mi alzai, le gambe che tremavano. «Voglio che ti metta in ginocchio».
Esitai per un microsecondo. I suoi occhi si scurirono. «Ti ho dato un ordine, Aiko».
Caddi in ginocchio davanti a lei. La distanza tra noi era minima. Il suo profumo, un misto di sandalo e qualcosa di pulito, quasi sterile, mi avvolse.
«Bene. Ora, appoggia le mani sulle mie ginocchia». Le sue ginocchia erano fasciate dalla seta liscia e fredda. Appena le toccai, lei si mosse, afferrandomi i polsi con una forza sorprendente. Con un gesto fluido, mi fece girare e mi spinse a pancia in giù sul tappeto, bloccandomi le braccia dietro la schiena. Ero completamente immobilizzata.
«Lezione numero due», sussurrò al mio orecchio, il suo fiato caldo sulla mia pelle. «La resistenza è inutile. Più ti opponi, più stretta sarà la mia presa. Devi imparare a cedere. A lasciarti andare. Capito?».
«S-sì, Professoressa», balbettai, il viso schiacciato contro il morbido tappeto.
«Bene». Sentii la sua mano scivolare lungo la mia schiena, fermandosi sulla curva del mio sedere. Potevo sentire il calore attraverso i miei jeans. «Hai un corpo reattivo. Vediamo quanto è reattiva la tua pelle».
SCHIAFFO.
Il suono secco echeggiò nella stanza silenziosa. Un dolore acuto e bruciante esplose sulla mia natica destra. Rimasi senza fiato.
SCHIAFFO.
Sulla sinistra, questa volta. Più forte. Un gemito mi sfuggì dalle labbra.
«Silenzio», ordinò lei. «Non emetterai un suono a meno che non ti dia il permesso. Conterai solo i colpi. A voce alta e chiara. Ricominciamo. Uno».
SCHIAFFO.
«Uno», sussurrai, la voce rotta.
SCHIAFFO.
«Due…». Le lacrime iniziarono a pungermi gli occhi, ma non erano lacrime di dolore. Erano lacrime di shock, di eccitazione, di una resa che non sapevo di desiderare così tanto. Il rituale continuò, implacabile. La sua mano si abbatteva sulle mie natiche con una precisione ritmica, e io contavo, la mia voce che diventava sempre più un ansimo. Il dolore si stava trasformando, diventando un calore pulsante, una strana forma di piacere umiliante. Stava marchiando il suo territorio, stava scrivendo le sue regole sulla mia pelle.
Quando si fermò, il mio sedere era in fiamme. Mi lasciò i polsi.
«Alzati e guardami», disse.
Mi rimisi in ginocchio, il viso rosso per il pianto e l'umiliazione. Lei mi guardava dall'alto, il volto impassibile, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma scura e trionfante.
«Questo è solo l'inizio, Aiko. La tua educazione è appena cominciata. Ora, spogliati. Lentamente. Voglio vedere il corpo che d'ora in poi mi apparterrà».
Sotto il suo sguardo implacabile, iniziai a obbedire, le dita tremanti che slacciavano i bottoni, la mente svuotata da tutto tranne che dalla sua voce e dalla promessa di una sottomissione così totale da annientare ogni parte di me, per poi ricostruirmi a sua immagine e somiglianza.
Io, Aiko, ero solo una delle tante matricole perse in quel mare di volti. Eppure, mi sentivo diversa. Mentre gli altri temevano il suo sguardo, io lo cercavo. Mentre gli altri tremavano quando li interrogava, io anelavo a quel momento, pregando di avere la risposta giusta, di poter brillare per un solo istante sotto la sua attenzione. La sua severità non mi spaventava; mi affascinava. La sua mente brillante era un faro, e io non desideravo altro che navigare verso quella luce.
La selezione avvenne a metà semestre. La Professoressa Watanabe aveva la fama di scegliere ogni anno un solo studente, il “preferito”, da seguire personalmente per un progetto di ricerca avanzato. Era un onore paragonabile a essere scelti da un dio per ascendere all’Olimpo. Nessuno sapeva con che criterio scegliesse. Quel giorno, alla fine di una lezione massacrante in cui aveva demolito pezzo per pezzo le teorie di un mio collega, i suoi occhi si posarono su di me.
«Signorina Aiko», la sua voce era velluto e ghiaccio, un suono che riempì l’aula magna e zittì ogni respiro. «Il suo ultimo saggio sull’alienazione in Mishima era… adeguato. Ma manca di profondità. La sua analisi è superficiale, scolastica. Si fermi nel mio ufficio dopo la lezione».
Il cuore mi martellò nel petto. “Adeguato” dalla sua bocca era quasi un complimento, ma l’umiliazione pubblica era parte del suo metodo. Feci come mi era stato ordinato. Attesi fuori dal suo ufficio, tremante, finché la porta non si aprì.
L’ufficio era il suo santuario: ordinato, minimalista, con scaffali di libri che arrivavano al soffitto. Lei era seduta dietro una massiccia scrivania di mogano. Non mi invitò a sedere.
«La sua mente ha del potenziale, Aiko», disse, senza alzare lo sguardo da alcune carte. «Ma è indisciplinata. Pigra. Si accontenta della superficie. Io detesto la superficialità. Tuttavia, vedo una scintilla. Una fame di conoscenza che gli altri idioti in quella classe non possiedono».
Alzò finalmente gli occhi su di me. Mi sentii nuda, ogni mia insicurezza esposta.
«Voglio fare di lei il mio progetto speciale quest’anno. Significa che dovrà dedicarsi a me completamente. Le sue serate, i suoi fine settimana, il suo tempo libero… apparterranno a me. Saranno lezioni private, intensive. Qui, o a casa mia. Sradicherò la sua mediocrità e la trasformerò in eccellenza. Ma la avverto: sarà brutale. Non accetto fallimenti, né lamentele. È disposta a pagare questo prezzo per la vera conoscenza?».
La domanda andava oltre l’accademia. Lo sentivo nelle sue parole, nel modo in cui mi scrutava. Stava offrendo un patto, un accordo faustiano. E io, senza un briciolo di esitazione, annuii.
«Sì, Professoressa. Farò tutto quello che mi chiederà».
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso quasi impercettibile. «Bene. La prima lezione privata sarà domani sera, alle nove. A casa mia. Le manderò l’indirizzo. Si presenti puntuale. E Aiko… venga preparata. A tutto».
La casa della Professoressa Suzuka era esattamente come l’avevo immaginata: un appartamento moderno e impeccabile in cima a un grattacielo, con una vetrata che dominava le luci della città. L’arredamento era essenziale, dominato dai colori nero, bianco e grigio. Non c’era nulla di superfluo.
Mi accolse sulla porta. Non indossava i suoi soliti tailleur, ma un semplice abito nero di seta che le scivolava addosso, rivelando più di quanto nascondesse. I capelli erano sciolti, una cascata di seta nera sulle spalle. Era ancora più bella, e ancora più intimidatoria.
«Entra, Aiko. Togliti le scarpe. E il cappotto».
La sua voce era bassa, quasi un sussurro. Obbedii in silenzio. Mi condusse nel suo studio, simile a quello dell’università ma più intimo. Al centro, però, non c’era una scrivania, ma una poltrona di pelle nera e un pesante tavolo di legno basso.
«Siediti per terra», ordinò.
Mi sedetti sui talloni, sul tappeto. Lei prese posto sulla poltrona, sovrastandomi. Le sue gambe si accavallarono, rivelando uno spacco vertiginoso lungo la coscia.
«Stasera non parleremo di Mishima», disse, la voce calma e controllata. «Parleremo di te. Del tuo corpo. Un intelletto disciplinato richiede un corpo disciplinato. Il tuo corpo è teso, Aiko. Lo vedo da come ti muovi, da come ti siedi. È un corpo che non conosce la sottomissione. E finché il tuo corpo non imparerà a obbedire, la tua mente non potrà mai raggiungere il suo pieno potenziale. Questa è la nostra prima lezione: l'obbedienza assoluta».
Il mio respiro si bloccò. Quello non era un corso di letteratura.
«Alzati e mettiti di fronte a me», continuò. Mi alzai, le gambe che tremavano. «Voglio che ti metta in ginocchio».
Esitai per un microsecondo. I suoi occhi si scurirono. «Ti ho dato un ordine, Aiko».
Caddi in ginocchio davanti a lei. La distanza tra noi era minima. Il suo profumo, un misto di sandalo e qualcosa di pulito, quasi sterile, mi avvolse.
«Bene. Ora, appoggia le mani sulle mie ginocchia». Le sue ginocchia erano fasciate dalla seta liscia e fredda. Appena le toccai, lei si mosse, afferrandomi i polsi con una forza sorprendente. Con un gesto fluido, mi fece girare e mi spinse a pancia in giù sul tappeto, bloccandomi le braccia dietro la schiena. Ero completamente immobilizzata.
«Lezione numero due», sussurrò al mio orecchio, il suo fiato caldo sulla mia pelle. «La resistenza è inutile. Più ti opponi, più stretta sarà la mia presa. Devi imparare a cedere. A lasciarti andare. Capito?».
«S-sì, Professoressa», balbettai, il viso schiacciato contro il morbido tappeto.
«Bene». Sentii la sua mano scivolare lungo la mia schiena, fermandosi sulla curva del mio sedere. Potevo sentire il calore attraverso i miei jeans. «Hai un corpo reattivo. Vediamo quanto è reattiva la tua pelle».
SCHIAFFO.
Il suono secco echeggiò nella stanza silenziosa. Un dolore acuto e bruciante esplose sulla mia natica destra. Rimasi senza fiato.
SCHIAFFO.
Sulla sinistra, questa volta. Più forte. Un gemito mi sfuggì dalle labbra.
«Silenzio», ordinò lei. «Non emetterai un suono a meno che non ti dia il permesso. Conterai solo i colpi. A voce alta e chiara. Ricominciamo. Uno».
SCHIAFFO.
«Uno», sussurrai, la voce rotta.
SCHIAFFO.
«Due…». Le lacrime iniziarono a pungermi gli occhi, ma non erano lacrime di dolore. Erano lacrime di shock, di eccitazione, di una resa che non sapevo di desiderare così tanto. Il rituale continuò, implacabile. La sua mano si abbatteva sulle mie natiche con una precisione ritmica, e io contavo, la mia voce che diventava sempre più un ansimo. Il dolore si stava trasformando, diventando un calore pulsante, una strana forma di piacere umiliante. Stava marchiando il suo territorio, stava scrivendo le sue regole sulla mia pelle.
Quando si fermò, il mio sedere era in fiamme. Mi lasciò i polsi.
«Alzati e guardami», disse.
Mi rimisi in ginocchio, il viso rosso per il pianto e l'umiliazione. Lei mi guardava dall'alto, il volto impassibile, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma scura e trionfante.
«Questo è solo l'inizio, Aiko. La tua educazione è appena cominciata. Ora, spogliati. Lentamente. Voglio vedere il corpo che d'ora in poi mi apparterrà».
Sotto il suo sguardo implacabile, iniziai a obbedire, le dita tremanti che slacciavano i bottoni, la mente svuotata da tutto tranne che dalla sua voce e dalla promessa di una sottomissione così totale da annientare ogni parte di me, per poi ricostruirmi a sua immagine e somiglianza.
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