Princy Terza parte
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Arrivata a casa, Princy chiuse la porta dietro di sé con calma. Non accese luci. Salì in camera, si spogliò del poco che ancora aveva addosso e si lasciò cadere sul letto, a pancia in su, le gambe divaricate e molli, il cuore che batteva forte ma non per la corsa.
Si accarezzò il ventre, le cosce, poi scese con lentezza, cercando di spegnere quella tensione che ormai era diventata fame. Le dita, umide dei suoi stessi pensieri, la toccarono piano. Nessuna fretta. Nessuna impazienza. Solo desiderio.
E venne. Diverso dal solito. Più lento, più diffuso. Un piacere che non era solo fisico, ma esibito, vissuto come un’estensione di quel pomeriggio. Di quegli sguardi. Delle mani che non aveva lasciato arrivare fino in fondo, ma che ora riviveva con ogni fibra.
Si strinse le cosce, il petto sollevato dal respiro, gli occhi socchiusi, le labbra aperte in un sospiro lungo, profondo.
Non c’erano più giochi da fare. Ora, c’era solo lei. Nuda. E finalmente libera di godere.
Seconda parte
Il sonno l’aveva abbracciata per tutta la notte, profondo e senza sogni. Quando cominciò a emergere lentamente da quel torpore, lo fece senza fretta, come chi non ha alcun motivo per alzarsi in fretta. Rimase immobile, ancora distesa, con gli occhi chiusi e il respiro regolare. Il lenzuolo era scivolato giù durante la notte, lasciandola completamente nuda sul letto ampio, la pelle ancora calda del proprio corpo, morbida e distesa.
Un piede sfiorava il bordo del materasso, l’altro piegato appena sotto il ginocchio, in una posa naturale, scomposta. Un braccio era sopra la testa, l’altro appoggiato mollemente sul ventre. Le labbra erano leggermente socchiuse, il viso disteso. Il seno si alzava e si abbassava in un ritmo pigro, quasi ipnotico, come il ventre piatto e rilassato. Nulla nel suo corpo tradiva tensione: sembrava una creatura lasciata lì dal piacere, non dalla stanchezza.
Solo dopo qualche minuto mosse appena le dita dei piedi. Poi il bacino, con un lieve ondeggiare. Un lungo sospiro le uscì dalla bocca mentre stirava appena una gamba, sentendo il contatto fresco del cotone sulla pelle nuda delle cosce e dei glutei. Un piccolo brivido, un ricordo ancora vivo la attraversò tra le gambe, facendola socchiudere le cosce, poi sorridere. Non se lo spiegava, ma si sentiva... bene.
Aprì infine gli occhi, senza voltarsi, fissando il soffitto con uno sguardo ancora velato. Allungò la mano verso il comodino, senza neppure guardare, cercando alla cieca il cellulare. Lo trovò, lo tirò a sé, e solo allora lo guardò.
C’era un solo messaggio, ricevuto a notte fonda. Lo aprì con la lentezza di chi sa già che quello che leggerà non le sarà indifferente.
"Sei stata perfetta. Un dono inaspettato. Ti vogliamo di nuovo oggi, stesso tavolo, stesso orario. Il perizoma non serve più, ce l’abbiamo già. Stavolta vogliamo vederti entrare con le autoreggenti. Non farci aspettare."
Nessuna emoticon, nessuna firma. Solo parole nette, dirette. Un tono che non lasciava spazio a risposte, solo a decisioni.
Princy deglutì piano, lo stomaco vuoto e il cuore che aveva appena accelerato un po'. Rimase immobile, stesa nuda tra le lenzuola, le dita che sfioravano lo schermo e il respiro che tornava a farsi profondo.
Quella frase – "ti vogliamo di nuovo oggi" – aveva qualcosa di irresistibile. Non erano più i complimenti a farla tremare. Era l’idea che la stessero reclamando.
Si alzò dal letto con lentezza, ancora nuda, con la pelle che portava addosso il ricordo del piacere e l’eco delle parole appena lette. Non servivano ripensamenti. Il messaggio era stato chiaro, diretto, senza possibilità di replica. E qualcosa, dentro di lei, si era già piegato in avanti, pronto ad accogliere quell'ordine.
Si avvicinò all’armadio. Oggi niente mutande. Niente reggiseno.
Scelse i leggings tecnici neri, lucidi, quelli più aderenti. Li tirò su lentamente, sentendo il tessuto freddo scivolarle lungo le gambe e poi stringerle il bacino. Si sistemò la canotta, anch’essa nera e attillata, che le fasciava il petto lasciando intravedere i capezzoli già tesi.
Seduta sul bordo del letto, si chinò a legare le scarpe. Le mani sfiorarono la pelle liscia delle cosce, ancora leggermente umida per la tensione che le si era svegliata dentro. Si alzò in piedi, fece un respiro profondo e uscì.
La strada davanti a casa era deserta. Iniziò a correre con un passo leggero, regolare, lasciando che il corpo si svegliasse chilometro dopo chilometro. Ma la mente era altrove.
Quel “ti vogliamo di nuovo oggi” le rimbombava dentro, come un mantra. E non era solo desiderio: era un bisogno.
Sentiva i seni oscillare liberi sotto la canotta, sfiorati dal tessuto a ogni passo. Sentiva il vuoto tra le gambe, quella zona nuda e vibrante sotto i leggings che cominciava a scaldarsi in modo fin troppo evidente.
Ogni passo era un pensiero. Ogni respiro, un cedimento.
Qualcosa in lei – qualcosa che non sapeva di avere – stava parlando chiaro: non voleva scegliere, voleva obbedire.
Essere guardata, sì. Ma anche… mostrata.
Esibita.
Usata.
E mentre il sudore cominciava a scendere lungo la schiena, tra i seni, sul ventre scoperto sotto la canotta, sentiva che la corsa era solo un modo per preparare il corpo a quello che l’aspettava.
Stava diventando qualcosa.
O forse stava solo tornando a esserlo.
Aveva corso più del solito, senza accorgersene.
Quando vide il cancello della villa, il fiato era spezzato, il cuore impazzito. Ma non per la fatica. Si sentiva inondata. Come se durante quella corsa qualcosa si fosse liberato dentro di lei, rotto, svelato.
Aprì il cancello senza rallentare davvero. Lo spinse con la mano destra mentre con l’altra si tirava su la canotta e la sfilava sopra la testa. Continuò a camminare scalciando via le scarpe, poi i leggings, lasciandoli cadere come scaglie bagnate sull’erba. Il suo corpo, nudo e lucido di sudore, non cercava riparo.
Cercava solo verità.
Il tuffo nella piscina fu netto, quasi violento. L’acqua le chiuse la bocca, le avvolse il seno teso, le gambe affaticate. Ma non la raffreddò. Non del tutto.
Anzi.
Cominciò a nuotare a bracciate lunghe, le braccia che tagliavano la superficie, le cosce che spingevano con forza. Come se quella corsa non fosse bastata. Come se dovesse ancora liberarsi di qualcosa. Di troppo.
Si fermò dopo pochi minuti.
Si appoggiò al bordo, con le braccia distese e la fronte contro il cemento caldo. Respirava forte, le gocce le scendevano sul viso mischiandosi all’acqua della vasca.
E fu lì, ferma e sola, che le parole cominciarono a rimbombare nella testa.
Parole che le aveva lasciato quel messaggio.
Parole che non c’erano scritte, ma che adesso sentiva urlare dentro.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Ogni parola le graffiava dentro una verità che non aveva mai voluto guardare. E che ora la stava scuotendo nel ventre.
Non era l’acqua a eccitarla. Non era il ricordo delle mani di ieri, o la corsa, o la fatica.
Era l’idea.
L’idea di non appartenersi più completamente.
Di lasciare che altri la vedessero. La toccassero. La decidessero.
Non come donna da conquistare. Ma come corpo da usare.
Un brivido le attraversò la schiena, diverso dal freddo.
Era la consapevolezza.
E aveva il sapore oscuro e dolcissimo della resa, come se un oscuro passeggero si stesse impadronendo di lei.
Uscì dalla piscina lentamente, l’acqua che le scivolava addosso in rivoli lenti, lucidi come vetro. Il corpo bagnato brillava sotto il primo sole, il respiro ancora spezzato. Camminò nuda fino all’ingresso, senza fretta, gocciolando sul pavimento liscio. Le mani scostavano i capelli bagnati dal volto con grazia automatica, ma dentro la mente non c’era quiete.
Esibita.
La parola le tornò addosso come una mano invisibile che le sfiorava il fianco. La sentì dentro le cosce, dove l’acqua non era riuscita a calmare il calore.
Entrò nella doccia e girò la manopola sull’acqua appena calda. Il getto partì con un sibilo, colpendola alla base del collo e poi giù, sul seno, sulle scapole, lungo la schiena.
Rimase immobile, lasciando che l’acqua le colasse addosso come una carezza costante.
Prese il bagnoschiuma, versandolo lentamente sulla spugna, e cominciò a insaponarsi.
Prima le braccia. Poi i seni, pieni, tesi, ancora sensibili. Il palmo li stringeva come per testarne la consistenza.
La spugna scivolò giù sul ventre, poi tra le gambe, con un tocco più lento. Più attento.
Usata.
Chiuse gli occhi mentre passava la spugna lì.
Un fremito.
Non stava pensando a qualcuno in particolare. Ma all’idea di appartenere a nessuno. E quindi a tutti.
Sorrise.
Non c’era nulla da spiegare. Solo da sentire.
Sciacquò via la schiuma e chiuse l’acqua. Restò lì, ancora un momento, le mani aperte contro il vetro, il respiro calmo. Poi si asciugò con movimenti misurati, premendo l’asciugamano sul corpo, sentendo ogni curva, ogni zona sensibile. Si guardò allo specchio. I capelli ancora umidi, le labbra socchiuse. Le pupille leggermente dilatate.
Esposta.
Sussurrò la parola a mezza voce, senza decidersi se sorridere o tremare. Non era una fantasia. Era un bisogno.
Scese in cucina completamente nuda. Nessuno poteva vederla, eppure si sentiva guardata.
Apre il frigorifero. Una bottiglia d’acqua fredda, un vasetto di yogurt bianco, qualche fetta di pesca.
Niente di più.
Si sedette sullo sgabello alto, le cosce ancora umide contro il legno, e mangiò lentamente, con un cucchiaino piccolo. Una goccia di yogurt le finì sull’ombelico. Si guardò. Non la pulì subito. Si portò la frutta alla bocca come fosse un gesto sacro. Masticava lentamente, respirando il silenzio, masticando… e pensando.
Comandata.
La parola le esplose nella mente come un fremito vero.
Tutto ciò che stava facendo – doccia, colazione, respiro – era un’attesa. Una preparazione. Una consegna.
Seduta sullo sgabello alto, le gambe divaricate in modo naturale, la pelle ancora tiepida di doccia e desiderio, finì di mangiare lentamente. L’ultimo cucchiaino di yogurt sparì tra le labbra, mentre una goccia le scivolava giù lungo il ventre nudo, insinuandosi nell’incavo dell’ombelico.
Non si mosse.
Non la pulì.
Non ancora.
La mano sinistra salì piano, con lentezza, sfiorando il seno destro. Il capezzolo era ancora eretto, durissimo, quasi gonfio. Bastò la punta del dito per farlo fremere.
Lo prese tra pollice e indice.
Esibita.
Lo strinse.
Il fiato si spezzò.
Usata.
Strinse ancora più forte.
Più forte.
Un dolore improvviso, acuto, violento, come una lama di fuoco che le attraversava il petto.
Il capezzolo si piegò, si attorcigliò tra le dita come a cercare una via di fuga, ma lei non mollava.
Lo torceva.
Lo strizzava.
Esposta.
Un lamento le uscì dalla gola, più simile a un ruggito trattenuto che a un gemito. La testa cadde all’indietro, gli occhi si spalancarono e subito si chiusero.
Poi fu buio.
Buio e marea.
L’orgasmo esplose all’improvviso, incontrollabile, dal basso ventre fino alle spalle, una scossa che le fece perdere l’equilibrio, tanto che lo sgabello si inclinò, cigolò, e lei dovette aggrapparsi al piano della cucina per non cadere. Il corpo sobbalzava ancora, il seno palpitava nel dolore, la gola restava muta mentre tutto dentro urlava.
Comandata.
La parola le colpì la mente come un colpo di frusta, tagliando il silenzio che si era creato intorno a lei.
Rimase lì, ansimante, i muscoli tesi, il braccio ancora a mezz’aria, la mano aperta, come se avesse appena lasciato andare qualcosa.
O qualcuno.
Era nuda.
Sudata.
Dolente.
Camminò lentamente verso la piscina, ancora nuda, senza più nulla da nascondere neanche a se stessa. La pelle, sensibile al minimo alito d’aria, le pizzicava dove aveva ancora addosso tracce di sudore e piacere. Non si immerse: si sdraiò sul lettino, inclinato verso il sole, le gambe distese, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Chiuse gli occhi.
Il calore del sole le scaldava il ventre e i seni, come un tocco lungo, costante. Sotto di lei, la stoffa del lettino era ancora fresca, appena ombreggiata.
Il giardino era immobile, perfetto. Eppure, dentro, qualcosa martellava.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Una ad una, quelle parole tornavano. Non come idee. Non come fantasie.
Ma come verità.
Scomode.
Eccitanti.
Indiscutibili.
Si rivide il giorno prima, al bar, mentre si sfilava il perizoma. Il gesto era stato istintivo, teatrale… ma ora capiva. Era stato qualcosa di più. Era stato un’offerta.
Aveva donato un pezzo di sé.
E nessuna parte di lei si era pentita.
Aveva corso per scappare, si era immersa per calmarsi, si era punita per capire.
E ora, nuda sotto il sole, il cuore ancora troppo veloce, la pelle che sembrava voler respirare da sola, sapeva.
Sapeva che non era finzione.
Non era solo eccitazione.
Era desiderio nella sua forma più pura. Più pericolosa.
Non quello di essere amata.
Ma quello di essere presa.
Aprì gli occhi, fissando il cielo terso sopra di sé. Inspirò lentamente, profondamente, come per affondare quel pensiero dentro le costole.
Voleva farlo.
Voleva sentire.
Voleva provarci davvero.
Si sentì sorridere, senza rendersene conto.
Oggi, al bar, non sarebbe andata a giocare.
Avrebbe obbedito.
amminò lentamente verso la piscina, ancora nuda, senza più nulla da nascondere neanche a se stessa. La pelle, sensibile al minimo alito d’aria, le pizzicava dove aveva ancora addosso tracce di sudore e piacere. Non si immerse: si sdraiò sul lettino, inclinato verso il sole, le gambe distese, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Chiuse gli occhi.
Il calore del sole le scaldava il ventre e i seni, come un tocco lungo, costante. Sotto di lei, la stoffa del lettino era ancora fresca, appena ombreggiata.
Il giardino era immobile, perfetto. Eppure, dentro, qualcosa martellava.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Una ad una, quelle parole tornavano. Non come idee. Non come fantasie.
Ma come verità.
Scomode.
Eccitanti.
Indiscutibili.
Si rivide il giorno prima, al bar, mentre si sfilava il perizoma. Il gesto era stato istintivo, teatrale… ma ora capiva. Era stato qualcosa di più. Era stato un’offerta.
Aveva donato un pezzo di sé.
E nessuna parte di lei si era pentita.
Aveva corso per scappare, si era immersa per calmarsi, si era punita per capire.
E ora, nuda sotto il sole, il cuore ancora troppo veloce, la pelle che sembrava voler respirare da sola, sapeva.
Sapeva che non era finzione.
Non era solo eccitazione.
Era desiderio nella sua forma più pura. Più pericolosa.
Non quello di essere amata.
Ma quello di essere presa.
Aprì gli occhi, fissando il cielo terso sopra di sé. Inspirò lentamente, profondamente, come per affondare quel pensiero dentro le costole.
Voleva farlo.
Voleva sentire.
Voleva provarci davvero.
La giornata si consumava piano, quasi a dispetto del desiderio che le bruciava dentro. Il sole si era fatto più alto, poi più caldo, poi aveva cominciato lentamente a scendere. Princy, ancora nuda, si era coperta solo per non scottarsi. Aveva preso un libro, lo aveva aperto, ma non riusciva a leggere. Le parole sulla pagina non avevano significato. Rimbalzavano come acqua sul vetro.
Quelle vere erano altrove.
Dentro di lei.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Le martellavano in testa come un tamburo ossessivo, e ogni volta che tornavano, il suo corpo reagiva. Un piccolo brivido. Un irrigidimento del capezzolo. Una tensione nelle cosce. Non c’era pace. Ma non la cercava. Stava vivendo un’attesa carica, densa, erotica. Ogni ora che passava non la stancava: la preparava.
Si stese di nuovo, cercando di dormire. Chiuse gli occhi. Ma nel dormiveglia, sentiva voci. Immaginava mani. Frasi brevi. Ordini. Sguardi. La sua mente cominciava già a costruire il momento che sarebbe arrivato. E il corpo lo sentiva.
Guardava l’orologio ogni dieci minuti. Poi ogni cinque.
Quando il sole cominciò a piegarsi verso il tardo pomeriggio, sentì qualcosa cambiare dentro. Non era più tensione.
Era certezza.
Si alzò lentamente. Andò in camera. Lì, davanti allo specchio, si guardò come non aveva mai fatto prima.
Si toccò piano il ventre, il seno, le spalle. Ogni centimetro della sua pelle sembrava pronto, come se avesse un’urgenza propria.
Non si chiese cosa indossare.
Si chiese: cosa si aspettano da me?
E iniziò a vestirsi.
Entrò in camera lentamente, ancora con il corpo nudo che portava addosso il ricordo del sole e del piacere. Aprì l’anta dell’armadio e scostò le grucce, senza esitazione. Non cercava qualcosa di comodo, né di sexy in senso convenzionale. Scelse quella sottoveste.
Quella materna.
Di raso leggerissimo, color avorio, con le spalline sottili e il tessuto che le sfiorava il corpo senza stringerlo. L’orlo, poco sotto la metà della coscia, ondeggiava appena al minimo movimento.
Le sembrava quasi assurdo quanto quel capo innocente, persino anacronistico, potesse trasformarsi. Addosso a lei, in quel momento, era un segnale.
Poi prese le calze. Autoreggenti. Color carne, ma lucide.
Lucide come se fossero bagnate.
Il bordo di pizzo alto, floreale, evidente, disegnava una linea netta tra la pelle e il peccato.
Le srotolò con cura, facendole scorrere lungo le gambe. Il raso della sottoveste si sollevava un po’, svelando quel bordo.
Lo fece apposta.
Lo voleva visibile.
Aprì la scarpiera. Scelse un paio di décolleté chiuse, in vernice color porpora, dal tacco vertiginoso. Quando li indossò, il corpo le cambiò postura. Le anche si inclinarono, la schiena si arcuò leggermente, il seno si proiettò in avanti.
Non era comoda.
Ma era perfetta.
Si sedette davanti allo specchio per truccarsi.
Oggi niente misura.
Cominciò dalla base: fondotinta preciso, levigato, il contour marcato a disegnare zigomi più duri, più netti.
Poi gli occhi: eyeliner nero spesso, allungato verso l’esterno con un taglio quasi felino. Ombretto caldo, ma cupo: borgogna e rame, sfumati a creare profondità e intensità.
Ciglia finte, lunghe, curve, che vibravano a ogni battito di ciglia.
Sulle labbra: un rossetto porpora scuro, lucido. Lo stesso colore delle scarpe.
E poi la matita, a contornarle meglio, più pienamente.
Le sopracciglia definite, tirate verso l’alto.
Un piccolo tocco di illuminante sul naso e sull’arco di cupido.
Si guardò allo specchio.
Non sembrava più Princy.
Sembrava una cosa.
Una visione.
Un invito.
Non mise nulla sotto la sottoveste.
Né tanga, né reggiseno, né altro.
Solo se stessa. La pelle, il calore, l’umidità che non accennava a diminuire.
La sottoveste le sfiorava le cosce, ma non le proteggeva. Le calze, lucide e tese, salivano fino a metà coscia lasciando quel bordo di pizzo ben visibile ogni volta che muoveva un passo. Le scarpe porpora, altissime, le costringevano a una camminata lenta, fiera, oscillante.
Salì in macchina senza coprirsi. Nessun cappotto, nessuna borsa, solo le chiavi e il telefono.
Lo sterzo era rovente al tatto.
La pelle del sedile aderiva alle sue cosce nude.
Mise in moto. Nessuna musica. Solo il suono dei propri pensieri e del cuore.
Durante il tragitto, le mani stringevano il volante, ma la mente correva altrove.
Ogni buca dell’asfalto le faceva fremere le cosce.
Ogni curva la faceva stringere le gambe.
Le parole tornavano.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Parcheggiò appena fuori dal centro, in una zona dove sapeva che ci sarebbe stato passaggio. Lo fece apposta.
Spense l’auto, prese un respiro profondo.
Poi aprì la portiera.
Uscì lentamente, facendo ruotare prima il busto, poi le gambe.
Il bordo della sottoveste si sollevò.
Nuda.
Completamente.
Chiunque guardasse – e qualcuno lo fece – ebbe un attimo di esitazione.
Poi stupore.
Poi desiderio.
Lei non voltò lo sguardo. Non abbassò gli occhi.
Camminò.
Il passo era quello da passerella: lungo, deciso, sensuale. Le anche ondeggiavano appena, le gambe si incrociavano con precisione, i tacchi battevano sull’asfalto con un ritmo perfetto.
L’aria tiepida le accarezzava il viso, le spalle, ma anche le labbra lì sotto, già gonfie, già umide, già tese.
Ogni passo la faceva sentire più esposta.
Più viva.
Arrivò nella via centrale. Li vide.
Erano lì, seduti allo stesso tavolo del giorno prima, uno con le gambe larghe, l’altro con il bicchiere in mano.
Appena la videro, i loro occhi si accesero. Non di sorpresa.
Di riconoscimento.
Lei lesse nei loro sguardi il desiderio.
Ma anche altro.
Una complicità.
Un consenso muto.
Un sorriso beffardo comparve sulle labbra di uno dei due, mentre dava una rapida occhiata a quella sottoveste trasparente al sole, al bordo delle calze, alle scarpe che avevano preteso.
Princy rispose con un sorriso più sottile.
Non c’era più nulla da dire.
Aveva obbedito.
E ora, era lì.
Li aveva visti da lontano, ma quando fu a pochi metri, i due si alzarono insieme, come se il suo arrivo fosse stato la scintilla attesa.
Uno dei due le fece un cenno col mento, l’altro aprì le braccia con fare teatrale.
“Sera, Princy… o forse dovremmo dire la nostra troia, oggi,” disse con voce bassa, quasi calda, ma con un’intonazione che tagliava l’aria.
“Guarda quanto sei figa,” aggiunse l’altro, “e lo sei per noi.”
Lei non disse nulla. Non ne aveva bisogno.
Abbassò leggermente lo sguardo, e un rossore sottile le salì alle guance. Non era vergogna. Era eccitazione accettata, dichiarata. Come una lingua di fuoco che le accarezzava le viscere.
Fece gli ultimi passi fino al tavolo.
Quando fu davanti a loro, entrambi si avvicinarono, uno da destra, uno da sinistra. Le baciarono le guance, ma non fu un gesto affettuoso.
Fu un marchio.
Le loro mani scivolarono subito. Una le afferrò il gluteo da sopra la sottoveste, stringendo il tessuto teso. L’altra, invece, andò sotto. Pelle su pelle. Un palmo intero che si aprì sul lato della natica nuda, accarezzandola come se avesse già il diritto di farlo.
Lei si morse appena il labbro e si sedette.
Non protestò.
Non rise.
Non parlò.
Sedette lentamente, accavallando le gambe con eleganza, il bordo del pizzo che si intravedeva chiaramente sotto l’orlo corto del vestito. Le calze lucide catturavano la luce, disegnavano le curve delle sue cosce come un invito.
Loro la guardavano.
Ma non come uomini che ammirano una donna.
La guardavano come si guarda una cosa bella che si possiede.
“Uno spritz, Aperol, per lei,” ordinò uno dei due al cameriere, senza neanche voltarsi a chiederle.
Princy non obiettò. Le parole continuavano a rimbombarle dentro.
Comandata.
Usata.
E lì, in quel momento, era esattamente ciò che desiderava essere.
Le mani dei ragazzi non stavano ferme.
Scivolavano sulle sue cosce, con lentezza, ma senza timidezza.
Le dita seguivano il bordo della calza, salivano, affondavano nel vuoto sotto la stoffa leggera.
Ogni contatto le faceva stringere appena le dita sul bordo del tavolo.
Ma non si ritraeva.
Anzi.
Quando il cameriere arrivò con il vassoio, fu come se si fossero messi d’accordo.
Uno le afferrò le ginocchia e le aprì con un gesto netto.
L’altro allungò la mano e fece scendere una spallina della sottoveste, lasciando emergere un seno turgido, teso, che sembrava voler respirare da solo.
La pelle era chiarissima, percorsa da brividi.
Princy ebbe un sobbalzo. Un fremito.
Il volto le si colorò in un istante, il calore le salì fino alle tempie.
Il cameriere restò interdetto. Immobile. Poi abbassò appena lo sguardo.
Vide tutto.
La vulva nuda, aperta, lucida, implume.
Il seno esposto, il capezzolo scuro, teso, vibrante.
Le calze, le scarpe.
Lei.
Lei lo guardò.
E sorrise.
Non un sorriso pieno, ma quello obliquo, consapevole, di chi sta mostrando, e vuole essere visto.
Poi, con calma, si sistemò.
Risalì la spallina, richiuse le gambe.
Sorseggiò lo spritz come se nulla fosse accaduto.
Le mani del più spregiudicato non si erano mai fermate davvero. Continuavano a esplorare la coscia inguainata di Princy, salendo a piccoli scatti, determinati, decisi. Superarono l’orlo della calza, accarezzarono il bordo interno del pizzo… poi continuarono.
Lei non si oppose.
Le gambe si aprirono di pochi centimetri, quanto bastava.
Le dita trovarono la pelle calda e nuda, liscia, bagnata.
E lì, in mezzo, il cuore pulsante del suo desiderio.
Non fu un tocco leggero.
Le dita le presero la clitoride tra pollice e indice, stringendola.
La ruotarono, la torsero appena, come se sapessero esattamente cosa cercare.
Un fremito le attraversò il ventre, la schiena si inarcò leggermente, le mani si strinsero ai bordi del sedile.
Socchiuse gli occhi, la bocca si aprì a metà, lasciando uscire un suono strozzato, quasi un sussurro che non voleva farsi sentire… ma che uscì lo stesso.
Lui le parlò con voce roca, a pochi centimetri dal viso:
“Sei già vogliosa, vero?”
Lei non rispose. Respirava. Tremava.
“Ti sei bagnata prima di venire qui, vero?”
“Sì…” ansimò. “Sì.”
Il suo complice ridacchiò, senza togliere gli occhi da lei.
“Togliti le scarpe. Metti quelle meraviglie sul tavolo.”
La voce era ferma. Un ordine.
Princy non esitò.
Sfilò prima una scarpa, poi l’altra, facendo attenzione a non rovinare il bilanciamento delle gambe. Le poggiò sul tavolo, tra i bicchieri, senza dire nulla.
Poi, lentamente, scivolò con il bacino in avanti, lasciandosi affondare nella sedia.
Le gambe si aprirono.
La sottoveste si sollevò.
Non c’era più nulla da nascondere.
Le dita tornarono a cercarla, ma stavolta con più decisione.
Non più solo in superficie.
Entrarono in lei, con un gesto secco, profondo, come a prenderle l’anima.
Princy sussultò, si aggrappò al tavolo. La testa si piegò indietro, la bocca aperta in un respiro muto, il ventre contratto.
Non era dolore.
Era impatto.
Era resa.
“Gira la sedia.”
La voce dell’altro, rimasto in silenzio fino a quel momento, arrivò come una scarica.
Princy obbedì senza chiedere.
Sollevò leggermente il bacino, afferrò i braccioli e ruotò la sedia di novanta gradi. Ora era esposta su entrambi i lati. Uno aveva pieno accesso al suo ventre ancora lucido, l’altro al suo fondoschiena appena coperto dalla seta ormai arricciata della sottoveste.
Si risistemò, sedendosi con le gambe larghe, il busto flesso in avanti. La posizione la costrinse a chinarsi, quasi con il viso sul tavolo.
Fu allora che sentì le loro mani afferrarle i polsi.
Le portarono le mani sui pantaloni, all’altezza dell’inguine.
Sotto il tessuto rigido sentì due erezioni nette, dure, vive.
Palpitavano.
La facevano tremare.
Non appena le sue mani si posarono su di loro, le dita si mossero da sole, lente, curiose.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo di intesa.
Alle sue spalle, una mano le afferrò un gluteo nudo con forza, premendo, saggiando, come se ne testasse la cedevolezza.
Poi salì.
Scivolò in mezzo, tra le pieghe del desiderio e della sottomissione.
Un altro gesto.
Un dito le venne portato davanti alle labbra.
“Lecca, troia,” le sussurrarono, con tono basso e calmo.
Non ci fu esitazione.
Le labbra si aprirono. La lingua sfiorò. Poi leccò, bagnò, preparò.
Il dito, umido e caldo, scomparve subito dopo nel suo antro più segreto.
Lei non disse nulla.
Solo il corpo parlava.
E si offriva.
Ci fu un istante di silenzio. Solo il rumore leggero del ghiaccio nei bicchieri.
Poi un affondo lento, profondo, deciso.
Lei sobbalzò, il fiato le si spezzò in gola.
Le mani ancora sui loro pantaloni, il viso abbassato sul tavolino, mentre la tensione la percorreva da dentro.
Non era più eccitazione.
Era qualcosa oltre.
Una vertigine.
Una rivelazione.
Il suo corpo si contorceva appena, come se non sapesse più se trattenere o accogliere. Ma non si tirava indietro.
Li guardò, con gli occhi velati e accesi.
La sedia cigolava piano sotto il movimento lento e alternato dei loro corpi.
Princy, piegata in avanti, le mani ancora poggiate sulle erezioni tese dei ragazzi, era un corpo aperto, un’anima rovesciata.
Dentro di lei non c’era più spazio per il dubbio.
Solo piacere.
Solo resa.
Dietro, le spinte erano sempre più profonde, più determinate.
Davanti, il più tranquillo – almeno fino a un attimo prima – le prese il viso con una mano ferma e glielo schiacciò sul tavolo.
La guancia contro il legno freddo, il respiro appannava il vetro del bicchiere ancora pieno.
“Vuoi che ti chiaviamo vero Troia?”
La voce era bassa, ma tagliente come una lama.
Lei non rispose subito.
Ma dentro, ogni fibra si tese.
Le mani si chiusero a pugno.
Il ventre si contrasse.
Le natiche si sollevarono d’istinto.
Usata.
Esibita.
Dominata.
Le parole non erano più concetti.
Erano realtà.
Erano ciò che lei era, in quel momento esatto.
Poi arrivò la risposta.
Non un grido.
Non un sì teatrale.
Ma un sussurro, lungo, roco, carico di piacere.
“Sììì…”
Un sì prolungato, liquido, profondo.
Quasi un gemito.
Quasi una supplica.
Le mani dei ragazzi, libere e precise, guidarono le sue, aprirono le dita e le riempirono.
Non più il tessuto dei pantaloni.
Non più una barriera.
Ma carne viva. Dura. Pulsante. Calda.
Le dita si strinsero quasi da sole, accogliendo quella doppia verità che ora le apparteneva.
Ogni battito dei loro corpi sembrava comunicare col proprio.
Li avvolgeva, li accarezzava, li stringeva a ritmo, alternando la pressione con un istinto naturale, quasi animale.
Sapeva esattamente cosa fare.
E lo faceva senza pensarci.
“Segaci troia” le disse quello che le stava penetrando il suo antro più segreto
Dietro di lei, la penetrazione continuava, decisa, profonda.
L’altra mano la teneva ancora giù, il viso premuto contro il tavolo, la guancia calda sul legno.
“Forza troia, continua, adesso prendiamo questi bei tacchi e ti sodomizziamo a fondo” non riusciva quasi più a reagire, oramai riusciva solo a emettere dei flebili “siiiii”
La posizione non era comoda.
Era umiliante.
Era perfetta.
Tutto in lei tremava.
Il ventre, le gambe, i polsi.
Le mani si muovevano, i respiri si rompevano, le parole non uscivano più.
La carica erotica del momento era devastante.
Non c’era pensiero, solo sensazioni.
L’umido che colava tra le cosce.
Le dita piene.
La voce che voleva uscire e non trovava forma.
Era lì.
Stava succedendo.
E lei lo stava vivendo.
Senza filtri.
Senza scuse.
Senza limiti.
I due ragazzi gemevano piano, trattenendo il fiato, vicini a esplodere.
E lei, in mezzo a loro, strumento e centro del piacere, oggetto e regina allo stesso tempo, si lasciava attraversare, accendere, portare via.
Il ritmo dei respiri si fece spezzato.
I loro corpi si tendevano, le mani le afferravano i polsi, i fianchi, i capelli.
I gemiti si fecero rauchi, inghiottiti dalla tensione dell’attimo che precede lo strappo.
Poi uno dei due si irrigidì.
Le mani tremarono, la bocca si aprì in un sussulto senza suono.
L’altro lo seguì subito dopo, un secondo appena.
Princy sentì la stretta delle loro mani aumentare, le spinte rallentare, poi un vuoto improvviso.
Un momento sospeso. Entrambi si erano svuotati usando una scarpa presa dal tavolo come contenitore del loro piacere.
Riaprì gli occhi, ancora appoggiata con il viso al tavolo, il corpo scosso, tremante.
La sua bocca era asciutta, ma la pelle le bruciava.
Le mani ancora sporche del loro piacere.
Fu allora che lo vide: uno dei due, quello più sfacciato, una delle sue scarpe in mano — con tracce del loro piacere ad adornarla — e la sollevò come un trofeo.
Dentro, il segno indelebile di quanto avevano ottenuto da lei.
“Tieni, troia,” disse, con un tono che era insieme brutale e perfettamente dosato.
“Bevi tutto.”
Le sollevò il mento facendole aprire la bocca.
I loro sguardi si incrociarono.
Lei non protestò.
Non tremò.
Solo annuì, una sola volta, con le pupille dilatate e le labbra già socchiuse.
La scarpa inclinata, il liquido ancora caldo, abbondante e vischioso che scivola lentamente tra le labbra.
Lei non distoglie lo sguardo.
Lo accoglie.
Lo inghiotte.
Tutto.
Quell’ultimo gesto, quell’estrema umiliazione trasformata in consacrazione, fu la miccia.
La scossa.
L’abisso.
Il piacere esplose in lei come mai prima.
Un orgasmo che non fu un singolo spasmo, ma una serie di onde, tremori, convulsioni leggere che le attraversarono l’addome, le gambe, il viso.
I muscoli le si contrassero a vuoto, le mani si aggrapparono al tavolo, i talloni si sollevarono, la gola si strinse in un grido muto.
Non riusciva a parlare.
Non riusciva a respirare.
Per lunghi, lunghissimi secondi, fu solo corpo.
Un corpo che vibrava, che ardeva, che godeva di essere stato portato oltre.
E in mezzo a quel nulla, in quell’abisso lucido di piacere e perdita di sé, le parole ritornarono.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
E ora, svuotata.
Sorrise.
Ancora con la bocca sporca, gli occhi lucidi, e l’anima… finalmente piena.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
Si accarezzò il ventre, le cosce, poi scese con lentezza, cercando di spegnere quella tensione che ormai era diventata fame. Le dita, umide dei suoi stessi pensieri, la toccarono piano. Nessuna fretta. Nessuna impazienza. Solo desiderio.
E venne. Diverso dal solito. Più lento, più diffuso. Un piacere che non era solo fisico, ma esibito, vissuto come un’estensione di quel pomeriggio. Di quegli sguardi. Delle mani che non aveva lasciato arrivare fino in fondo, ma che ora riviveva con ogni fibra.
Si strinse le cosce, il petto sollevato dal respiro, gli occhi socchiusi, le labbra aperte in un sospiro lungo, profondo.
Non c’erano più giochi da fare. Ora, c’era solo lei. Nuda. E finalmente libera di godere.
Seconda parte
Il sonno l’aveva abbracciata per tutta la notte, profondo e senza sogni. Quando cominciò a emergere lentamente da quel torpore, lo fece senza fretta, come chi non ha alcun motivo per alzarsi in fretta. Rimase immobile, ancora distesa, con gli occhi chiusi e il respiro regolare. Il lenzuolo era scivolato giù durante la notte, lasciandola completamente nuda sul letto ampio, la pelle ancora calda del proprio corpo, morbida e distesa.
Un piede sfiorava il bordo del materasso, l’altro piegato appena sotto il ginocchio, in una posa naturale, scomposta. Un braccio era sopra la testa, l’altro appoggiato mollemente sul ventre. Le labbra erano leggermente socchiuse, il viso disteso. Il seno si alzava e si abbassava in un ritmo pigro, quasi ipnotico, come il ventre piatto e rilassato. Nulla nel suo corpo tradiva tensione: sembrava una creatura lasciata lì dal piacere, non dalla stanchezza.
Solo dopo qualche minuto mosse appena le dita dei piedi. Poi il bacino, con un lieve ondeggiare. Un lungo sospiro le uscì dalla bocca mentre stirava appena una gamba, sentendo il contatto fresco del cotone sulla pelle nuda delle cosce e dei glutei. Un piccolo brivido, un ricordo ancora vivo la attraversò tra le gambe, facendola socchiudere le cosce, poi sorridere. Non se lo spiegava, ma si sentiva... bene.
Aprì infine gli occhi, senza voltarsi, fissando il soffitto con uno sguardo ancora velato. Allungò la mano verso il comodino, senza neppure guardare, cercando alla cieca il cellulare. Lo trovò, lo tirò a sé, e solo allora lo guardò.
C’era un solo messaggio, ricevuto a notte fonda. Lo aprì con la lentezza di chi sa già che quello che leggerà non le sarà indifferente.
"Sei stata perfetta. Un dono inaspettato. Ti vogliamo di nuovo oggi, stesso tavolo, stesso orario. Il perizoma non serve più, ce l’abbiamo già. Stavolta vogliamo vederti entrare con le autoreggenti. Non farci aspettare."
Nessuna emoticon, nessuna firma. Solo parole nette, dirette. Un tono che non lasciava spazio a risposte, solo a decisioni.
Princy deglutì piano, lo stomaco vuoto e il cuore che aveva appena accelerato un po'. Rimase immobile, stesa nuda tra le lenzuola, le dita che sfioravano lo schermo e il respiro che tornava a farsi profondo.
Quella frase – "ti vogliamo di nuovo oggi" – aveva qualcosa di irresistibile. Non erano più i complimenti a farla tremare. Era l’idea che la stessero reclamando.
Si alzò dal letto con lentezza, ancora nuda, con la pelle che portava addosso il ricordo del piacere e l’eco delle parole appena lette. Non servivano ripensamenti. Il messaggio era stato chiaro, diretto, senza possibilità di replica. E qualcosa, dentro di lei, si era già piegato in avanti, pronto ad accogliere quell'ordine.
Si avvicinò all’armadio. Oggi niente mutande. Niente reggiseno.
Scelse i leggings tecnici neri, lucidi, quelli più aderenti. Li tirò su lentamente, sentendo il tessuto freddo scivolarle lungo le gambe e poi stringerle il bacino. Si sistemò la canotta, anch’essa nera e attillata, che le fasciava il petto lasciando intravedere i capezzoli già tesi.
Seduta sul bordo del letto, si chinò a legare le scarpe. Le mani sfiorarono la pelle liscia delle cosce, ancora leggermente umida per la tensione che le si era svegliata dentro. Si alzò in piedi, fece un respiro profondo e uscì.
La strada davanti a casa era deserta. Iniziò a correre con un passo leggero, regolare, lasciando che il corpo si svegliasse chilometro dopo chilometro. Ma la mente era altrove.
Quel “ti vogliamo di nuovo oggi” le rimbombava dentro, come un mantra. E non era solo desiderio: era un bisogno.
Sentiva i seni oscillare liberi sotto la canotta, sfiorati dal tessuto a ogni passo. Sentiva il vuoto tra le gambe, quella zona nuda e vibrante sotto i leggings che cominciava a scaldarsi in modo fin troppo evidente.
Ogni passo era un pensiero. Ogni respiro, un cedimento.
Qualcosa in lei – qualcosa che non sapeva di avere – stava parlando chiaro: non voleva scegliere, voleva obbedire.
Essere guardata, sì. Ma anche… mostrata.
Esibita.
Usata.
E mentre il sudore cominciava a scendere lungo la schiena, tra i seni, sul ventre scoperto sotto la canotta, sentiva che la corsa era solo un modo per preparare il corpo a quello che l’aspettava.
Stava diventando qualcosa.
O forse stava solo tornando a esserlo.
Aveva corso più del solito, senza accorgersene.
Quando vide il cancello della villa, il fiato era spezzato, il cuore impazzito. Ma non per la fatica. Si sentiva inondata. Come se durante quella corsa qualcosa si fosse liberato dentro di lei, rotto, svelato.
Aprì il cancello senza rallentare davvero. Lo spinse con la mano destra mentre con l’altra si tirava su la canotta e la sfilava sopra la testa. Continuò a camminare scalciando via le scarpe, poi i leggings, lasciandoli cadere come scaglie bagnate sull’erba. Il suo corpo, nudo e lucido di sudore, non cercava riparo.
Cercava solo verità.
Il tuffo nella piscina fu netto, quasi violento. L’acqua le chiuse la bocca, le avvolse il seno teso, le gambe affaticate. Ma non la raffreddò. Non del tutto.
Anzi.
Cominciò a nuotare a bracciate lunghe, le braccia che tagliavano la superficie, le cosce che spingevano con forza. Come se quella corsa non fosse bastata. Come se dovesse ancora liberarsi di qualcosa. Di troppo.
Si fermò dopo pochi minuti.
Si appoggiò al bordo, con le braccia distese e la fronte contro il cemento caldo. Respirava forte, le gocce le scendevano sul viso mischiandosi all’acqua della vasca.
E fu lì, ferma e sola, che le parole cominciarono a rimbombare nella testa.
Parole che le aveva lasciato quel messaggio.
Parole che non c’erano scritte, ma che adesso sentiva urlare dentro.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Ogni parola le graffiava dentro una verità che non aveva mai voluto guardare. E che ora la stava scuotendo nel ventre.
Non era l’acqua a eccitarla. Non era il ricordo delle mani di ieri, o la corsa, o la fatica.
Era l’idea.
L’idea di non appartenersi più completamente.
Di lasciare che altri la vedessero. La toccassero. La decidessero.
Non come donna da conquistare. Ma come corpo da usare.
Un brivido le attraversò la schiena, diverso dal freddo.
Era la consapevolezza.
E aveva il sapore oscuro e dolcissimo della resa, come se un oscuro passeggero si stesse impadronendo di lei.
Uscì dalla piscina lentamente, l’acqua che le scivolava addosso in rivoli lenti, lucidi come vetro. Il corpo bagnato brillava sotto il primo sole, il respiro ancora spezzato. Camminò nuda fino all’ingresso, senza fretta, gocciolando sul pavimento liscio. Le mani scostavano i capelli bagnati dal volto con grazia automatica, ma dentro la mente non c’era quiete.
Esibita.
La parola le tornò addosso come una mano invisibile che le sfiorava il fianco. La sentì dentro le cosce, dove l’acqua non era riuscita a calmare il calore.
Entrò nella doccia e girò la manopola sull’acqua appena calda. Il getto partì con un sibilo, colpendola alla base del collo e poi giù, sul seno, sulle scapole, lungo la schiena.
Rimase immobile, lasciando che l’acqua le colasse addosso come una carezza costante.
Prese il bagnoschiuma, versandolo lentamente sulla spugna, e cominciò a insaponarsi.
Prima le braccia. Poi i seni, pieni, tesi, ancora sensibili. Il palmo li stringeva come per testarne la consistenza.
La spugna scivolò giù sul ventre, poi tra le gambe, con un tocco più lento. Più attento.
Usata.
Chiuse gli occhi mentre passava la spugna lì.
Un fremito.
Non stava pensando a qualcuno in particolare. Ma all’idea di appartenere a nessuno. E quindi a tutti.
Sorrise.
Non c’era nulla da spiegare. Solo da sentire.
Sciacquò via la schiuma e chiuse l’acqua. Restò lì, ancora un momento, le mani aperte contro il vetro, il respiro calmo. Poi si asciugò con movimenti misurati, premendo l’asciugamano sul corpo, sentendo ogni curva, ogni zona sensibile. Si guardò allo specchio. I capelli ancora umidi, le labbra socchiuse. Le pupille leggermente dilatate.
Esposta.
Sussurrò la parola a mezza voce, senza decidersi se sorridere o tremare. Non era una fantasia. Era un bisogno.
Scese in cucina completamente nuda. Nessuno poteva vederla, eppure si sentiva guardata.
Apre il frigorifero. Una bottiglia d’acqua fredda, un vasetto di yogurt bianco, qualche fetta di pesca.
Niente di più.
Si sedette sullo sgabello alto, le cosce ancora umide contro il legno, e mangiò lentamente, con un cucchiaino piccolo. Una goccia di yogurt le finì sull’ombelico. Si guardò. Non la pulì subito. Si portò la frutta alla bocca come fosse un gesto sacro. Masticava lentamente, respirando il silenzio, masticando… e pensando.
Comandata.
La parola le esplose nella mente come un fremito vero.
Tutto ciò che stava facendo – doccia, colazione, respiro – era un’attesa. Una preparazione. Una consegna.
Seduta sullo sgabello alto, le gambe divaricate in modo naturale, la pelle ancora tiepida di doccia e desiderio, finì di mangiare lentamente. L’ultimo cucchiaino di yogurt sparì tra le labbra, mentre una goccia le scivolava giù lungo il ventre nudo, insinuandosi nell’incavo dell’ombelico.
Non si mosse.
Non la pulì.
Non ancora.
La mano sinistra salì piano, con lentezza, sfiorando il seno destro. Il capezzolo era ancora eretto, durissimo, quasi gonfio. Bastò la punta del dito per farlo fremere.
Lo prese tra pollice e indice.
Esibita.
Lo strinse.
Il fiato si spezzò.
Usata.
Strinse ancora più forte.
Più forte.
Un dolore improvviso, acuto, violento, come una lama di fuoco che le attraversava il petto.
Il capezzolo si piegò, si attorcigliò tra le dita come a cercare una via di fuga, ma lei non mollava.
Lo torceva.
Lo strizzava.
Esposta.
Un lamento le uscì dalla gola, più simile a un ruggito trattenuto che a un gemito. La testa cadde all’indietro, gli occhi si spalancarono e subito si chiusero.
Poi fu buio.
Buio e marea.
L’orgasmo esplose all’improvviso, incontrollabile, dal basso ventre fino alle spalle, una scossa che le fece perdere l’equilibrio, tanto che lo sgabello si inclinò, cigolò, e lei dovette aggrapparsi al piano della cucina per non cadere. Il corpo sobbalzava ancora, il seno palpitava nel dolore, la gola restava muta mentre tutto dentro urlava.
Comandata.
La parola le colpì la mente come un colpo di frusta, tagliando il silenzio che si era creato intorno a lei.
Rimase lì, ansimante, i muscoli tesi, il braccio ancora a mezz’aria, la mano aperta, come se avesse appena lasciato andare qualcosa.
O qualcuno.
Era nuda.
Sudata.
Dolente.
Camminò lentamente verso la piscina, ancora nuda, senza più nulla da nascondere neanche a se stessa. La pelle, sensibile al minimo alito d’aria, le pizzicava dove aveva ancora addosso tracce di sudore e piacere. Non si immerse: si sdraiò sul lettino, inclinato verso il sole, le gambe distese, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Chiuse gli occhi.
Il calore del sole le scaldava il ventre e i seni, come un tocco lungo, costante. Sotto di lei, la stoffa del lettino era ancora fresca, appena ombreggiata.
Il giardino era immobile, perfetto. Eppure, dentro, qualcosa martellava.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Una ad una, quelle parole tornavano. Non come idee. Non come fantasie.
Ma come verità.
Scomode.
Eccitanti.
Indiscutibili.
Si rivide il giorno prima, al bar, mentre si sfilava il perizoma. Il gesto era stato istintivo, teatrale… ma ora capiva. Era stato qualcosa di più. Era stato un’offerta.
Aveva donato un pezzo di sé.
E nessuna parte di lei si era pentita.
Aveva corso per scappare, si era immersa per calmarsi, si era punita per capire.
E ora, nuda sotto il sole, il cuore ancora troppo veloce, la pelle che sembrava voler respirare da sola, sapeva.
Sapeva che non era finzione.
Non era solo eccitazione.
Era desiderio nella sua forma più pura. Più pericolosa.
Non quello di essere amata.
Ma quello di essere presa.
Aprì gli occhi, fissando il cielo terso sopra di sé. Inspirò lentamente, profondamente, come per affondare quel pensiero dentro le costole.
Voleva farlo.
Voleva sentire.
Voleva provarci davvero.
Si sentì sorridere, senza rendersene conto.
Oggi, al bar, non sarebbe andata a giocare.
Avrebbe obbedito.
amminò lentamente verso la piscina, ancora nuda, senza più nulla da nascondere neanche a se stessa. La pelle, sensibile al minimo alito d’aria, le pizzicava dove aveva ancora addosso tracce di sudore e piacere. Non si immerse: si sdraiò sul lettino, inclinato verso il sole, le gambe distese, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Chiuse gli occhi.
Il calore del sole le scaldava il ventre e i seni, come un tocco lungo, costante. Sotto di lei, la stoffa del lettino era ancora fresca, appena ombreggiata.
Il giardino era immobile, perfetto. Eppure, dentro, qualcosa martellava.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Una ad una, quelle parole tornavano. Non come idee. Non come fantasie.
Ma come verità.
Scomode.
Eccitanti.
Indiscutibili.
Si rivide il giorno prima, al bar, mentre si sfilava il perizoma. Il gesto era stato istintivo, teatrale… ma ora capiva. Era stato qualcosa di più. Era stato un’offerta.
Aveva donato un pezzo di sé.
E nessuna parte di lei si era pentita.
Aveva corso per scappare, si era immersa per calmarsi, si era punita per capire.
E ora, nuda sotto il sole, il cuore ancora troppo veloce, la pelle che sembrava voler respirare da sola, sapeva.
Sapeva che non era finzione.
Non era solo eccitazione.
Era desiderio nella sua forma più pura. Più pericolosa.
Non quello di essere amata.
Ma quello di essere presa.
Aprì gli occhi, fissando il cielo terso sopra di sé. Inspirò lentamente, profondamente, come per affondare quel pensiero dentro le costole.
Voleva farlo.
Voleva sentire.
Voleva provarci davvero.
La giornata si consumava piano, quasi a dispetto del desiderio che le bruciava dentro. Il sole si era fatto più alto, poi più caldo, poi aveva cominciato lentamente a scendere. Princy, ancora nuda, si era coperta solo per non scottarsi. Aveva preso un libro, lo aveva aperto, ma non riusciva a leggere. Le parole sulla pagina non avevano significato. Rimbalzavano come acqua sul vetro.
Quelle vere erano altrove.
Dentro di lei.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Le martellavano in testa come un tamburo ossessivo, e ogni volta che tornavano, il suo corpo reagiva. Un piccolo brivido. Un irrigidimento del capezzolo. Una tensione nelle cosce. Non c’era pace. Ma non la cercava. Stava vivendo un’attesa carica, densa, erotica. Ogni ora che passava non la stancava: la preparava.
Si stese di nuovo, cercando di dormire. Chiuse gli occhi. Ma nel dormiveglia, sentiva voci. Immaginava mani. Frasi brevi. Ordini. Sguardi. La sua mente cominciava già a costruire il momento che sarebbe arrivato. E il corpo lo sentiva.
Guardava l’orologio ogni dieci minuti. Poi ogni cinque.
Quando il sole cominciò a piegarsi verso il tardo pomeriggio, sentì qualcosa cambiare dentro. Non era più tensione.
Era certezza.
Si alzò lentamente. Andò in camera. Lì, davanti allo specchio, si guardò come non aveva mai fatto prima.
Si toccò piano il ventre, il seno, le spalle. Ogni centimetro della sua pelle sembrava pronto, come se avesse un’urgenza propria.
Non si chiese cosa indossare.
Si chiese: cosa si aspettano da me?
E iniziò a vestirsi.
Entrò in camera lentamente, ancora con il corpo nudo che portava addosso il ricordo del sole e del piacere. Aprì l’anta dell’armadio e scostò le grucce, senza esitazione. Non cercava qualcosa di comodo, né di sexy in senso convenzionale. Scelse quella sottoveste.
Quella materna.
Di raso leggerissimo, color avorio, con le spalline sottili e il tessuto che le sfiorava il corpo senza stringerlo. L’orlo, poco sotto la metà della coscia, ondeggiava appena al minimo movimento.
Le sembrava quasi assurdo quanto quel capo innocente, persino anacronistico, potesse trasformarsi. Addosso a lei, in quel momento, era un segnale.
Poi prese le calze. Autoreggenti. Color carne, ma lucide.
Lucide come se fossero bagnate.
Il bordo di pizzo alto, floreale, evidente, disegnava una linea netta tra la pelle e il peccato.
Le srotolò con cura, facendole scorrere lungo le gambe. Il raso della sottoveste si sollevava un po’, svelando quel bordo.
Lo fece apposta.
Lo voleva visibile.
Aprì la scarpiera. Scelse un paio di décolleté chiuse, in vernice color porpora, dal tacco vertiginoso. Quando li indossò, il corpo le cambiò postura. Le anche si inclinarono, la schiena si arcuò leggermente, il seno si proiettò in avanti.
Non era comoda.
Ma era perfetta.
Si sedette davanti allo specchio per truccarsi.
Oggi niente misura.
Cominciò dalla base: fondotinta preciso, levigato, il contour marcato a disegnare zigomi più duri, più netti.
Poi gli occhi: eyeliner nero spesso, allungato verso l’esterno con un taglio quasi felino. Ombretto caldo, ma cupo: borgogna e rame, sfumati a creare profondità e intensità.
Ciglia finte, lunghe, curve, che vibravano a ogni battito di ciglia.
Sulle labbra: un rossetto porpora scuro, lucido. Lo stesso colore delle scarpe.
E poi la matita, a contornarle meglio, più pienamente.
Le sopracciglia definite, tirate verso l’alto.
Un piccolo tocco di illuminante sul naso e sull’arco di cupido.
Si guardò allo specchio.
Non sembrava più Princy.
Sembrava una cosa.
Una visione.
Un invito.
Non mise nulla sotto la sottoveste.
Né tanga, né reggiseno, né altro.
Solo se stessa. La pelle, il calore, l’umidità che non accennava a diminuire.
La sottoveste le sfiorava le cosce, ma non le proteggeva. Le calze, lucide e tese, salivano fino a metà coscia lasciando quel bordo di pizzo ben visibile ogni volta che muoveva un passo. Le scarpe porpora, altissime, le costringevano a una camminata lenta, fiera, oscillante.
Salì in macchina senza coprirsi. Nessun cappotto, nessuna borsa, solo le chiavi e il telefono.
Lo sterzo era rovente al tatto.
La pelle del sedile aderiva alle sue cosce nude.
Mise in moto. Nessuna musica. Solo il suono dei propri pensieri e del cuore.
Durante il tragitto, le mani stringevano il volante, ma la mente correva altrove.
Ogni buca dell’asfalto le faceva fremere le cosce.
Ogni curva la faceva stringere le gambe.
Le parole tornavano.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
Parcheggiò appena fuori dal centro, in una zona dove sapeva che ci sarebbe stato passaggio. Lo fece apposta.
Spense l’auto, prese un respiro profondo.
Poi aprì la portiera.
Uscì lentamente, facendo ruotare prima il busto, poi le gambe.
Il bordo della sottoveste si sollevò.
Nuda.
Completamente.
Chiunque guardasse – e qualcuno lo fece – ebbe un attimo di esitazione.
Poi stupore.
Poi desiderio.
Lei non voltò lo sguardo. Non abbassò gli occhi.
Camminò.
Il passo era quello da passerella: lungo, deciso, sensuale. Le anche ondeggiavano appena, le gambe si incrociavano con precisione, i tacchi battevano sull’asfalto con un ritmo perfetto.
L’aria tiepida le accarezzava il viso, le spalle, ma anche le labbra lì sotto, già gonfie, già umide, già tese.
Ogni passo la faceva sentire più esposta.
Più viva.
Arrivò nella via centrale. Li vide.
Erano lì, seduti allo stesso tavolo del giorno prima, uno con le gambe larghe, l’altro con il bicchiere in mano.
Appena la videro, i loro occhi si accesero. Non di sorpresa.
Di riconoscimento.
Lei lesse nei loro sguardi il desiderio.
Ma anche altro.
Una complicità.
Un consenso muto.
Un sorriso beffardo comparve sulle labbra di uno dei due, mentre dava una rapida occhiata a quella sottoveste trasparente al sole, al bordo delle calze, alle scarpe che avevano preteso.
Princy rispose con un sorriso più sottile.
Non c’era più nulla da dire.
Aveva obbedito.
E ora, era lì.
Li aveva visti da lontano, ma quando fu a pochi metri, i due si alzarono insieme, come se il suo arrivo fosse stato la scintilla attesa.
Uno dei due le fece un cenno col mento, l’altro aprì le braccia con fare teatrale.
“Sera, Princy… o forse dovremmo dire la nostra troia, oggi,” disse con voce bassa, quasi calda, ma con un’intonazione che tagliava l’aria.
“Guarda quanto sei figa,” aggiunse l’altro, “e lo sei per noi.”
Lei non disse nulla. Non ne aveva bisogno.
Abbassò leggermente lo sguardo, e un rossore sottile le salì alle guance. Non era vergogna. Era eccitazione accettata, dichiarata. Come una lingua di fuoco che le accarezzava le viscere.
Fece gli ultimi passi fino al tavolo.
Quando fu davanti a loro, entrambi si avvicinarono, uno da destra, uno da sinistra. Le baciarono le guance, ma non fu un gesto affettuoso.
Fu un marchio.
Le loro mani scivolarono subito. Una le afferrò il gluteo da sopra la sottoveste, stringendo il tessuto teso. L’altra, invece, andò sotto. Pelle su pelle. Un palmo intero che si aprì sul lato della natica nuda, accarezzandola come se avesse già il diritto di farlo.
Lei si morse appena il labbro e si sedette.
Non protestò.
Non rise.
Non parlò.
Sedette lentamente, accavallando le gambe con eleganza, il bordo del pizzo che si intravedeva chiaramente sotto l’orlo corto del vestito. Le calze lucide catturavano la luce, disegnavano le curve delle sue cosce come un invito.
Loro la guardavano.
Ma non come uomini che ammirano una donna.
La guardavano come si guarda una cosa bella che si possiede.
“Uno spritz, Aperol, per lei,” ordinò uno dei due al cameriere, senza neanche voltarsi a chiederle.
Princy non obiettò. Le parole continuavano a rimbombarle dentro.
Comandata.
Usata.
E lì, in quel momento, era esattamente ciò che desiderava essere.
Le mani dei ragazzi non stavano ferme.
Scivolavano sulle sue cosce, con lentezza, ma senza timidezza.
Le dita seguivano il bordo della calza, salivano, affondavano nel vuoto sotto la stoffa leggera.
Ogni contatto le faceva stringere appena le dita sul bordo del tavolo.
Ma non si ritraeva.
Anzi.
Quando il cameriere arrivò con il vassoio, fu come se si fossero messi d’accordo.
Uno le afferrò le ginocchia e le aprì con un gesto netto.
L’altro allungò la mano e fece scendere una spallina della sottoveste, lasciando emergere un seno turgido, teso, che sembrava voler respirare da solo.
La pelle era chiarissima, percorsa da brividi.
Princy ebbe un sobbalzo. Un fremito.
Il volto le si colorò in un istante, il calore le salì fino alle tempie.
Il cameriere restò interdetto. Immobile. Poi abbassò appena lo sguardo.
Vide tutto.
La vulva nuda, aperta, lucida, implume.
Il seno esposto, il capezzolo scuro, teso, vibrante.
Le calze, le scarpe.
Lei.
Lei lo guardò.
E sorrise.
Non un sorriso pieno, ma quello obliquo, consapevole, di chi sta mostrando, e vuole essere visto.
Poi, con calma, si sistemò.
Risalì la spallina, richiuse le gambe.
Sorseggiò lo spritz come se nulla fosse accaduto.
Le mani del più spregiudicato non si erano mai fermate davvero. Continuavano a esplorare la coscia inguainata di Princy, salendo a piccoli scatti, determinati, decisi. Superarono l’orlo della calza, accarezzarono il bordo interno del pizzo… poi continuarono.
Lei non si oppose.
Le gambe si aprirono di pochi centimetri, quanto bastava.
Le dita trovarono la pelle calda e nuda, liscia, bagnata.
E lì, in mezzo, il cuore pulsante del suo desiderio.
Non fu un tocco leggero.
Le dita le presero la clitoride tra pollice e indice, stringendola.
La ruotarono, la torsero appena, come se sapessero esattamente cosa cercare.
Un fremito le attraversò il ventre, la schiena si inarcò leggermente, le mani si strinsero ai bordi del sedile.
Socchiuse gli occhi, la bocca si aprì a metà, lasciando uscire un suono strozzato, quasi un sussurro che non voleva farsi sentire… ma che uscì lo stesso.
Lui le parlò con voce roca, a pochi centimetri dal viso:
“Sei già vogliosa, vero?”
Lei non rispose. Respirava. Tremava.
“Ti sei bagnata prima di venire qui, vero?”
“Sì…” ansimò. “Sì.”
Il suo complice ridacchiò, senza togliere gli occhi da lei.
“Togliti le scarpe. Metti quelle meraviglie sul tavolo.”
La voce era ferma. Un ordine.
Princy non esitò.
Sfilò prima una scarpa, poi l’altra, facendo attenzione a non rovinare il bilanciamento delle gambe. Le poggiò sul tavolo, tra i bicchieri, senza dire nulla.
Poi, lentamente, scivolò con il bacino in avanti, lasciandosi affondare nella sedia.
Le gambe si aprirono.
La sottoveste si sollevò.
Non c’era più nulla da nascondere.
Le dita tornarono a cercarla, ma stavolta con più decisione.
Non più solo in superficie.
Entrarono in lei, con un gesto secco, profondo, come a prenderle l’anima.
Princy sussultò, si aggrappò al tavolo. La testa si piegò indietro, la bocca aperta in un respiro muto, il ventre contratto.
Non era dolore.
Era impatto.
Era resa.
“Gira la sedia.”
La voce dell’altro, rimasto in silenzio fino a quel momento, arrivò come una scarica.
Princy obbedì senza chiedere.
Sollevò leggermente il bacino, afferrò i braccioli e ruotò la sedia di novanta gradi. Ora era esposta su entrambi i lati. Uno aveva pieno accesso al suo ventre ancora lucido, l’altro al suo fondoschiena appena coperto dalla seta ormai arricciata della sottoveste.
Si risistemò, sedendosi con le gambe larghe, il busto flesso in avanti. La posizione la costrinse a chinarsi, quasi con il viso sul tavolo.
Fu allora che sentì le loro mani afferrarle i polsi.
Le portarono le mani sui pantaloni, all’altezza dell’inguine.
Sotto il tessuto rigido sentì due erezioni nette, dure, vive.
Palpitavano.
La facevano tremare.
Non appena le sue mani si posarono su di loro, le dita si mossero da sole, lente, curiose.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo di intesa.
Alle sue spalle, una mano le afferrò un gluteo nudo con forza, premendo, saggiando, come se ne testasse la cedevolezza.
Poi salì.
Scivolò in mezzo, tra le pieghe del desiderio e della sottomissione.
Un altro gesto.
Un dito le venne portato davanti alle labbra.
“Lecca, troia,” le sussurrarono, con tono basso e calmo.
Non ci fu esitazione.
Le labbra si aprirono. La lingua sfiorò. Poi leccò, bagnò, preparò.
Il dito, umido e caldo, scomparve subito dopo nel suo antro più segreto.
Lei non disse nulla.
Solo il corpo parlava.
E si offriva.
Ci fu un istante di silenzio. Solo il rumore leggero del ghiaccio nei bicchieri.
Poi un affondo lento, profondo, deciso.
Lei sobbalzò, il fiato le si spezzò in gola.
Le mani ancora sui loro pantaloni, il viso abbassato sul tavolino, mentre la tensione la percorreva da dentro.
Non era più eccitazione.
Era qualcosa oltre.
Una vertigine.
Una rivelazione.
Il suo corpo si contorceva appena, come se non sapesse più se trattenere o accogliere. Ma non si tirava indietro.
Li guardò, con gli occhi velati e accesi.
La sedia cigolava piano sotto il movimento lento e alternato dei loro corpi.
Princy, piegata in avanti, le mani ancora poggiate sulle erezioni tese dei ragazzi, era un corpo aperto, un’anima rovesciata.
Dentro di lei non c’era più spazio per il dubbio.
Solo piacere.
Solo resa.
Dietro, le spinte erano sempre più profonde, più determinate.
Davanti, il più tranquillo – almeno fino a un attimo prima – le prese il viso con una mano ferma e glielo schiacciò sul tavolo.
La guancia contro il legno freddo, il respiro appannava il vetro del bicchiere ancora pieno.
“Vuoi che ti chiaviamo vero Troia?”
La voce era bassa, ma tagliente come una lama.
Lei non rispose subito.
Ma dentro, ogni fibra si tese.
Le mani si chiusero a pugno.
Il ventre si contrasse.
Le natiche si sollevarono d’istinto.
Usata.
Esibita.
Dominata.
Le parole non erano più concetti.
Erano realtà.
Erano ciò che lei era, in quel momento esatto.
Poi arrivò la risposta.
Non un grido.
Non un sì teatrale.
Ma un sussurro, lungo, roco, carico di piacere.
“Sììì…”
Un sì prolungato, liquido, profondo.
Quasi un gemito.
Quasi una supplica.
Le mani dei ragazzi, libere e precise, guidarono le sue, aprirono le dita e le riempirono.
Non più il tessuto dei pantaloni.
Non più una barriera.
Ma carne viva. Dura. Pulsante. Calda.
Le dita si strinsero quasi da sole, accogliendo quella doppia verità che ora le apparteneva.
Ogni battito dei loro corpi sembrava comunicare col proprio.
Li avvolgeva, li accarezzava, li stringeva a ritmo, alternando la pressione con un istinto naturale, quasi animale.
Sapeva esattamente cosa fare.
E lo faceva senza pensarci.
“Segaci troia” le disse quello che le stava penetrando il suo antro più segreto
Dietro di lei, la penetrazione continuava, decisa, profonda.
L’altra mano la teneva ancora giù, il viso premuto contro il tavolo, la guancia calda sul legno.
“Forza troia, continua, adesso prendiamo questi bei tacchi e ti sodomizziamo a fondo” non riusciva quasi più a reagire, oramai riusciva solo a emettere dei flebili “siiiii”
La posizione non era comoda.
Era umiliante.
Era perfetta.
Tutto in lei tremava.
Il ventre, le gambe, i polsi.
Le mani si muovevano, i respiri si rompevano, le parole non uscivano più.
La carica erotica del momento era devastante.
Non c’era pensiero, solo sensazioni.
L’umido che colava tra le cosce.
Le dita piene.
La voce che voleva uscire e non trovava forma.
Era lì.
Stava succedendo.
E lei lo stava vivendo.
Senza filtri.
Senza scuse.
Senza limiti.
I due ragazzi gemevano piano, trattenendo il fiato, vicini a esplodere.
E lei, in mezzo a loro, strumento e centro del piacere, oggetto e regina allo stesso tempo, si lasciava attraversare, accendere, portare via.
Il ritmo dei respiri si fece spezzato.
I loro corpi si tendevano, le mani le afferravano i polsi, i fianchi, i capelli.
I gemiti si fecero rauchi, inghiottiti dalla tensione dell’attimo che precede lo strappo.
Poi uno dei due si irrigidì.
Le mani tremarono, la bocca si aprì in un sussulto senza suono.
L’altro lo seguì subito dopo, un secondo appena.
Princy sentì la stretta delle loro mani aumentare, le spinte rallentare, poi un vuoto improvviso.
Un momento sospeso. Entrambi si erano svuotati usando una scarpa presa dal tavolo come contenitore del loro piacere.
Riaprì gli occhi, ancora appoggiata con il viso al tavolo, il corpo scosso, tremante.
La sua bocca era asciutta, ma la pelle le bruciava.
Le mani ancora sporche del loro piacere.
Fu allora che lo vide: uno dei due, quello più sfacciato, una delle sue scarpe in mano — con tracce del loro piacere ad adornarla — e la sollevò come un trofeo.
Dentro, il segno indelebile di quanto avevano ottenuto da lei.
“Tieni, troia,” disse, con un tono che era insieme brutale e perfettamente dosato.
“Bevi tutto.”
Le sollevò il mento facendole aprire la bocca.
I loro sguardi si incrociarono.
Lei non protestò.
Non tremò.
Solo annuì, una sola volta, con le pupille dilatate e le labbra già socchiuse.
La scarpa inclinata, il liquido ancora caldo, abbondante e vischioso che scivola lentamente tra le labbra.
Lei non distoglie lo sguardo.
Lo accoglie.
Lo inghiotte.
Tutto.
Quell’ultimo gesto, quell’estrema umiliazione trasformata in consacrazione, fu la miccia.
La scossa.
L’abisso.
Il piacere esplose in lei come mai prima.
Un orgasmo che non fu un singolo spasmo, ma una serie di onde, tremori, convulsioni leggere che le attraversarono l’addome, le gambe, il viso.
I muscoli le si contrassero a vuoto, le mani si aggrapparono al tavolo, i talloni si sollevarono, la gola si strinse in un grido muto.
Non riusciva a parlare.
Non riusciva a respirare.
Per lunghi, lunghissimi secondi, fu solo corpo.
Un corpo che vibrava, che ardeva, che godeva di essere stato portato oltre.
E in mezzo a quel nulla, in quell’abisso lucido di piacere e perdita di sé, le parole ritornarono.
Esibita.
Usata.
Esposta.
Comandata.
E ora, svuotata.
Sorrise.
Ancora con la bocca sporca, gli occhi lucidi, e l’anima… finalmente piena.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
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