Princy Seconda parte
di
Ironwriter2025
genere
esibizionismo
Il sole era già alto quando aprì la porta finestra della villa e scivolò all’esterno, in punta di piedi, come per non disturbare la quiete perfetta del mattino. Indossava soltanto una camicia lunga in raso avorio, leggerissima, quasi impalpabile. Il tessuto, baciato dalla luce radente, lasciava intravedere le linee del corpo sotto: le spalle nude, le ombre del seno, le curve sottili della vita e i fianchi che si muovevano con grazia a ogni passo.
Il vecchio cappello di paglia, a tesa larga, le copriva metà volto, lasciando che solo le labbra socchiuse si vedessero, lucide e serene. Princy camminava con una naturalezza che sembrava studiata, eppure era solo istinto: quello di chi sa di piacersi, e non ha bisogno di conferme.
Raggiunse il lettino di legno sotto al pergolato, il telo già steso in attesa. Si fermò un momento, sollevando appena il viso al sole, chiudendo gli occhi, lasciando che la luce le sfiorasse la pelle delle gambe. Poi, lentamente, le mani risalirono lungo i fianchi, trovando i bottoni della camicia.
Non erano molti. Uno dopo l’altro si aprirono senza fretta, lasciando che il raso scivolasse via come acqua, svelando il corpo nudo sotto con la naturalezza di un rito. La stoffa le scivolò dalle spalle, rivelando la schiena snella e i seni piccoli, alti, intinti di luce dorata. Poi continuò a scendere, accarezzandole i fianchi e i glutei sodi, fino a fermarsi, impigliata un istante sulle cosce, per poi cadere ai piedi.
Non c’era nessuno a guardarla. Eppure lei si mosse come se ci fosse. Come se il suo corpo stesse danzando per un occhio invisibile, per una presenza impalpabile nascosta tra le foglie o dentro l’acqua ferma della piscina.
Con lentezza si sedette sul bordo del lettino, accavallò le gambe con eleganza, poi si distese all'indietro, le braccia aperte lungo i fianchi e il cappello calato di nuovo sul viso. Il corpo completamente nudo assorbiva il sole, e con lui quel senso di potere silenzioso che le saliva da dentro. Quella bellezza, quella libertà, erano per sé sola. Eppure, qualcosa in lei desiderava ancora essere vista.
Distesa sul lettino, Princy lasciava che il sole le accarezzasse la pelle nuda con la pazienza di un amante. Il cappello di paglia le ombreggiava il volto, ma la luce scivolava ovunque: sulle clavicole sporgenti, sull’incavo del ventre, lungo le gambe distese, fino ad accendersi tra le cosce con una sfacciataggine naturale. Lì, proprio lì, il sole sembrava indugiare di più, come attratto da un punto preciso: un riflesso sottile e umido che rendeva le sue grandi labbra lucide, vive, come se pulsassero una memoria propria.
Era eccitazione. Ancora. Inconfondibile.
Non era un pensiero chiaro, né un’immagine nitida. Era solo una sensazione che tornava a farsi strada nel corpo. Quanto successo il giorno precedente durante la corsa l'aveva accesa, come se nel suo corpo si fosse risvegliato dalla fase di torpore invernale, come se il suo io più profondo le stesse dicendo che il letargo era finito, ora era la stagione delle api e dei fiori.
Princy mosse appena il bacino, come se cercasse un equilibrio nuovo, ma finì solo per esporre ancora di più quella lucentezza impudica. Non c’era alcun pudore in lei, solo un respiro profondo e silenzioso, che faceva salire e scendere il petto in un ritmo lento. Le mani, immobili, riposavano lungo i fianchi. Non aveva bisogno di altro. Non ancora.
Distesa sul lettino, immobile sotto il sole, Princy sembrava dormire. Ma il corpo, nudo e vivo, diceva altro. Ogni linea, ogni tensione della pelle, ogni sfumatura di luce sulle sue curve sembrava una dichiarazione silenziosa. Quel luccichio tra le gambe, sottile e palpitante, non era un caso. Era un segnale.
Non era una richiesta, no. Era un'affermazione.
Voleva essere guardata. Sentire su di sé occhi che la cercavano, che indugiavano su ogni dettaglio del suo corpo senza bisogno di chiedere. Voleva provocare, sì, ma non per esibirsi: per affermare il proprio potere. La propria presenza. Ogni gesto, ogni abito, ogni scelta — dal cappello alla camicia trasparente, dal modo in cui accavallava le gambe al rossetto che avrebbe messo più tardi — tutto nasceva da quel bisogno. Non per piacere. Per dominare il desiderio altrui, senza dover mai dipendere da esso.
Aveva imparato a conoscere quel piacere sottile che nasceva dallo sguardo di chi osserva senza essere autorizzato. Dal silenzio imbarazzato di chi vorrebbe ma non osa. Dai complimenti non detti, dai pensieri sospesi. Era lì che trovava alimento. Non nell’atto in sé, ma nel poter decidere quando lasciarsi sfiorare e quando negarsi. Quando mostrarsi e quando voltare le spalle.
Niente in lei era sottomesso. Nulla concesso per caso.
Eppure, in quel momento, nella quiete assoluta del giardino, con solo il sole come testimone, qualcosa dentro di lei ardeva. Una tensione sottile, come una corda tirata tra la solitudine e il desiderio di essere scoperta. Non importava da chi. Un vicino distratto, un estraneo curioso, anche solo una finestra aperta su un punto invisibile della casa. Bastava l’idea. Bastava il rischio.
Il sole era fermo nel cielo, a picco su di lei, quando Princy aprì lentamente gli occhi sotto la tesa larga del cappello. Non c’era nessuno, eppure sentiva su di sé uno sguardo invisibile, come se da qualche parte, tra i rami degli alberi, dietro le tende leggere di una finestra lontana, qualcuno la stesse osservando. Non con invadenza, ma con adorazione. E questo pensiero, languido e sottile, le fece piegare le labbra in un sorriso appena accennato.
Iniziò a muoversi con lentezza, senza rompere il silenzio. Sollevò una gamba, piegandola con grazia, poi la lasciò ricadere di lato. Il busto ruotò appena, mettendo in tensione il ventre piatto e disegnando sul suo fianco una linea netta d’ombra e luce. Ogni spostamento sembrava studiato, ma era istinto. Un gioco. Una recita per un pubblico che forse non c’era, ma che lei voleva credere presente.
La mano destra risalì lungo il fianco, sfiorando la pelle con le dita tese, fino ad accarezzare con lentezza l’incavo sotto al seno. Non lo toccò, no, si fermò appena prima. Poi tornò giù, scivolando sul ventre, accompagnando la curva dei fianchi, per poi abbandonarsi di nuovo sul telo. Non serviva fare di più. L’effetto era già perfetto.
Sollevò il braccio sinistro e con gesto lento sistemò il cappello, spostandolo un po’ più in alto. Mostrò il volto. Occhi socchiusi, bocca leggermente aperta, pelle lucida di sole. Un fermo immagine. Come se volesse dire: guardami, ma solo per quanto te lo permetto.
Poi afferrò la bottiglietta d’acqua che aveva lasciato accanto al lettino e ne versò un filo tra le clavicole. L’acqua fredda le corse giù, scivolando tra i seni e seguendo la linea dell’addome, fino al pube. Non si mosse. Sentì solo la pelle contrarsi, i capezzoli indurirsi, e quella sottile goccia penetrare nel ricordo del piacere. E con esso, tornare viva.
Allungò un braccio verso l’erba alta accanto al lettino e strappò un filo sottile, flessibile. Lo portò sulla pelle e cominciò a tracciarvi piccoli cerchi. Prima sul ventre, poi sull’interno coscia, poi lungo il seno sinistro. Non rideva, non giocava: stava comunicando qualcosa. A chi? Forse a nessuno. Forse a sé stessa.
Poi sussurrò qualcosa. Solo un paio di parole, pronunciate a fior di labbra. Nessuno poteva sentirle, ma chiunque l’avesse vista ne avrebbe percepito il significato. Una provocazione, un invito, o forse una sfida.
Si tirò su lentamente, fino a sedersi sul lettino. Le gambe piegate, i glutei ben poggiati sul bordo, il busto proteso in avanti. Si stiracchiò. Il cappello le cadde sulla schiena, lasciando il viso libero. Si alzò in piedi. Allungò le braccia sopra la testa, si mise sulle punte, si tese come un animale pronto a fuggire… o a sedurre. Poi si voltò di spalle e inarcò la schiena, offrendosi al sole. I glutei alti, scolpiti, sembravano modellati apposta per quella luce.
Si chinò a raccogliere la camicia, la scosse lentamente, poi la passò sul corpo come per asciugarsi. Il raso freddo la fece rabbrividire. Infilò una manica, accennò a chiuderla… ma cambiò idea. Si guardò, si guardò come se si vedesse da fuori, poi lasciò cadere di nuovo l’indumento accanto a sé.
Si chinò a raccogliere la camicia, la scosse lentamente tra le dita, lasciandola fluttuare per un istante nell’aria calda. Il raso, ancora fresco d’ombra, le accarezzò la pelle mentre lo passava su di sé come per asciugare le ultime gocce d’acqua. Lo sollevò, infilò una manica con gesto disinvolto, poi si fermò. Non la indossò davvero. La lasciò semplicemente cadere su una spalla, come un drappo, lasciando il corpo esposto, lucente, assoluto.
Fece un passo verso casa. Poi un altro. I piedi nudi sull’erba ancora tiepida, le gambe slanciate che si muovevano con la naturalezza di una sfilata che non aveva bisogno di pubblico. Il cappello ancora in testa, il profilo delineato dal sole, il corpo che sembrava scolpito in un’idea precisa: adesso basta sogni. È tempo di andare in scena.
La porta a vetri si aprì con un lieve cigolio. Lei non si voltò. Sparì all’interno con la camicia che le scivolava lentamente giù dal braccio, lasciando solo un lembo appeso alla spalla.
Uscì dalla doccia e non si affrettò ad asciugarsi. Lasciò che l’acqua scorresse, scivolasse sul suo corpo, sulle gambe, lungo la schiena e oltre i glutei, raccogliendosi in gocce lente che sembravano trattenersi prima di cadere. Poi, con il telo ancora tra le mani, si avvicinò allo specchio.
Era nuda, ancora bagnata, con i capelli corti incollati alla nuca. Il vetro leggermente appannato le restituiva un’immagine che le piacque subito. Non sorrise. Si osservò con calma, con attenzione, come si osserva un volto caro. Poi si chinò in avanti, si passò le dita sulle guance e cominciò.
Sulle mani aveva una crema leggera, dal profumo appena dolce. La stese sul viso senza troppa precisione, come se stesse accarezzandosi. Non cercava perfezione: voleva solo ravvivare il colorito, far brillare la pelle, come quando si rientra da una giornata al mare. Prese un piccolo barattolo e con le dita sfiorò le palpebre, lasciandovi un’ombra calda, quasi ramata, che accendeva lo sguardo con un tocco appena visibile.
Poi tracciò una linea all’attaccatura delle ciglia, sottile, netta, come una promessa appena accennata. Era una linea che si allungava appena verso l’esterno, e bastava per trasformare gli occhi. Li rese più profondi, più taglienti, più… suoi.
Sulle guance mise poco, solo quel tanto che bastava a farle sembrare baciate dal sole, come se si fosse appena alzata da un pomeriggio passato all’aperto. E infine le labbra. Le definì con calma, prima con la punta delle dita, poi con il colore: un rosso pieno, ma non acceso. Un rosso maturo, caldo, sensuale. Quando lo stese, le labbra si dischiusero leggermente, e le sembrò di vedere in sé una donna nuova. O forse la stessa di sempre, ma pronta a mostrarsi.
Aprì l’anta dell’armadio e restò un momento immobile, in piedi, ancora in intimo. Il tanga nero aderiva perfettamente, scomparendo quasi tra le curve dei glutei, mettendone in risalto la forma piena e soda. Il reggiseno a balconcino, della stessa tinta, sosteneva i seni piccoli con discrezione e malizia: le coppe tagliate basse lasciavano scoperta la parte superiore, delineandola con precisione chirurgica. Sembrava un corpo disegnato.
Scelse d’impulso un paio di jeans skinny, quelli che non perdonano nulla. Li fece scivolare su per le gambe con lentezza, sollevando una gamba alla volta, tirandoli poi sui fianchi con un gesto secco. Le cuciture aderirono come una seconda pelle, disegnandole i glutei in una curva netta, piena, quasi sfacciata. Si girò di lato, poi di spalle, specchiandosi. Il sedere stava benissimo, le gambe sembravano ancora più lunghe. Ma non era convinta.
Prese una maglietta corta, lucida, aderente. Un grigio cangiante che al sole virava verso l’argento. Le fasciava il busto come una guaina morbida, scoprendole la pancia piatta, lasciando in vista l’ombelico e il taglio basso del jeans. Si osservò. Bella. Sicura. Sexy.
Ma troppo coperta. Troppo normale. Troppo… poco Princy, almeno per quel giorno.
Tirò su la maglietta con uno strattone e se la sfilò con impazienza. Poi tolse anche i jeans, lasciandoli cadere sul tappeto in un mucchio stropicciato.
Aprì il cassetto più in basso. Stavolta scelse un miniabito blu elettrico, in tessuto elasticizzato. Scollo a barchetta, senza maniche, corto fino a metà coscia. Lo infilò lentamente, facendolo scivolare lungo il corpo come un guanto. Si stirò il tessuto sui fianchi, si sistemò la scollatura che lasciava le clavicole perfettamente esposte, poi fece un paio di passi per la stanza.
Era spettacolare.
Ma troppo da sera. Da cocktail. Troppo mondano per quello che aveva in mente. E poi, lo sapeva, un abito così attirava sguardi, sì, ma anche cliché. Lei non voleva solo essere ammirata. Voleva far voltare la testa. Voleva provocare in modo più diretto. Più spiazzante.
Si fermò. Lo sfilò, arrotolandolo tra le mani e lasciandolo sulla sedia accanto al letto.
Rimasta solo in intimo, si sedette lentamente sul bordo del materasso, la schiena dritta, i piedi ben poggiati a terra. Le cosce leggermente aperte, le mani che scivolavano verso le ginocchia. Non era indecisa. Era… strategica.
D’un tratto balzò in piedi, come scossa da un’illuminazione. Il volto le si accese in un sorriso, di quelli che non lasciano spazio a esitazioni. Aveva trovato. Aveva deciso.
Si alzò dalla sponda del letto con grazia rapida, le mani che già si muovevano sicure dietro la schiena. Sganciò il reggiseno a balconcino e lo lasciò cadere sul lenzuolo, poi fece scorrere verso il basso il tanga nero che si accartocciò a terra come una cosa inutile. Restò nuda per un attimo, solo un attimo, prima di aprire un piccolo cassetto e tirare fuori il perizoma bianco.
Lucido, minuscolo, appena più che un filo. Lo alzò tra le dita come un trofeo e se lo fece scivolare su per le gambe, lentamente. Quando lo sistemò bene sui fianchi, lasciò che affondasse tra le labbra, profondo, deciso. Come una firma. Un modo per ricordarsi che ogni passo che avrebbe fatto sarebbe partito da lì: da quel piacere messo al suo posto.
Poi si voltò verso l’armadio più in alto, quello dove conservava le cose che non usava mai, ma che non avrebbe mai buttato. Trovò la camicia da notte della madre, rubata anni prima e accorciata con cura e malizia. Tessuto sottile, quasi impalpabile, trasparente il giusto per lasciar immaginare — o forse vedere — ciò che c’era sotto. La infilò con un gesto morbido, lasciando che le scivolasse sulle spalle e poi giù, fermandosi appena sotto ai glutei. Quel tanto che bastava a farle sentire l’orlo accarezzare la parte più alta delle cosce. Il resto restava scoperto. Volutamente.
Si chinò per prendere un paio di sandali chiari, tacco a spillo, fasce sottili attorno al piede, il tallone nudo. Li indossò lentamente, prima uno poi l’altro, con la calma di chi sa esattamente cosa sta facendo.
Poi si mise davanti allo specchio. Si guardò. Si riguardò. Le spalle dritte, le gambe forti, il seno libero sotto la seta trasparente, le punte dei capezzoli che si intuivano nel gioco di ombre, il perizoma bianco ben visibile appena si muoveva. Ogni dettaglio parlava per lei.
Aprì la porta con la sicurezza di chi non spera di essere vista, ma la pretende. Stava andando là fuori, nel mondo, non per cercare qualcuno. Ma per vedere chi avrebbe avuto il coraggio di guardarla davvero.
Il paese, a quell’ora del pomeriggio, sembrava immerso in un torpore ovattato. Le voci dei bar si mescolavano al tintinnio dei bicchieri e al rumore sordo dei passi sui marciapiedi assolati. Princy camminava come se fosse sola. O come se sapesse che nessuno poteva ignorarla.
Il tacco dei sandali a spillo scandiva il suo incedere morbido, mentre la camicia da notte – quella vecchia reliquia materna, ora arma perfetta – ondeggiava ad ogni passo, fermandosi appena sotto i glutei. Ogni tanto, una folata d’aria più vivace sollevava il bordo leggerissimo, scoprendo con evidenza il perizoma bianco lucido, scavato tra le curve. Ma lei non se ne curava. Camminava. Sorrideva appena. Si lasciava guardare.
All’angolo della via principale, poco prima del bar, due ragazzi venivano incontro a lei. Stavano passeggiando, chiacchierando a bassa voce, finché non la scorsero. Si bloccarono. Sorrisero, increduli. Poi accelerarono il passo.
«Ma… Princy?»
Lei li riconobbe subito, e si fermò. Sorrise, divertita dalla loro espressione. Erano cresciuti bene. Più larghi, più sicuri. Con quel tono da uomini che sanno ancora come si scherza da ragazzi.
«Siete voi?» disse, inclinando appena la testa, lasciando che i capelli corti e scuri disegnassero il suo profilo. Li abbracciò uno dopo l’altro, stringendoli appena, e lasciando che le mani di entrambi le sfiorassero la schiena nuda sotto la trasparenza della seta.
Uno di loro si scostò, la guardò da capo a piedi e poi ridacchiò. «Altro che sei cambiata… sei sempre più bella. E più sexy.»
«Anzi, aspetta…» aggiunse l’altro, prendendola per una mano e alzandole il braccio come si fa per un passo di danza. «Facci una giravolta. Dai, come ai vecchi tempi.»
Lei lo guardò di traverso, ma con un lampo divertito negli occhi. E obbedì.
Fece mezzo giro su sé stessa, con grazia quasi teatrale. Il tessuto della camicia da notte si sollevò come un petalo in vento, lasciando intravedere – senza alcun dubbio – il perizoma affondato tra le natiche, lucido e provocante. Una rivelazione rapida, ma studiata. I ragazzi fischiarono a bassa voce, le mani sulle labbra per contenere un'esclamazione.
«Dove stavi andando così, principessa?»
«Passeggiavo. Ma potrei anche lasciarmi trascinare…»
I due si scambiarono uno sguardo complice. «Allora vieni con noi. Al solito bar. Dai, è a due passi. Offriamo noi.»
Lei finse di riflettere. Un passo indietro, un angolo di sorriso.
«Solo se mi fate sedere comoda.»
«Ma certo,» rispose uno dei due con un mezzo sorriso, voltandosi già verso il bar. «Vieni con noi.»
Non le dissero altro. Nessun accenno al tavolino leggermente appartato, non nascosto ma ben posizionato, defilato quel tanto che bastava per consentire qualche libertà, pur restando in vista dalla strada. Un angolo perfetto per chi sa godere della discrezione e dell’esibizione allo stesso tempo.
Ripresero a camminare. Lei al centro, i due ragazzi ai suoi lati. Ma l’equilibrio non durava mai troppo: ogni pochi passi si scambiavano di posto, con il pretesto di scherzare, fare commenti, toccarle la mano o il fianco. Princy non diceva nulla. Sorrideva. Il busto dritto, lo sguardo avanti, come se quelle attenzioni fossero naturali. Come se spettassero a lei per diritto.
Uno le mise il braccio attorno alle spalle, tirandola a sé con un mezzo abbraccio affettuoso. L’altro approfittò per sfiorarle la schiena con la mano, sotto la seta della camicia, scendendo di poco oltre la linea dei fianchi. Le mani si facevano sempre più disinvolte. Una si poggiò sul fianco scoperto, con il pollice che scivolava lentamente verso il ventre. Un’altra, più audace, sfiorò il confine tra la coscia e il perizoma, proprio dove il tessuto lucido scompariva tra le pieghe del corpo.
Lei non si fermò. Non si irrigidì. Non si voltò.
Camminava come se nulla fosse, come se quel contatto fosse atteso. Apprezzato. Ma non concesso del tutto.
Perché Princy amava sentirsi desiderata. Amava gli sguardi che si posavano su di lei come mani. E amava anche le mani vere, purché sapessero fermarsi esattamente dove decideva lei. Fino al limite. Né un centimetro oltre.
Giunsero al bar e uno dei due fece un cenno al cameriere, indicando il tavolino appartato, appena un po’ più in là degli altri. Non nascosto, ma più raccolto, protetto da un vaso di ortensie e da un piccolo ombrellone bianco. Da lì si vedeva la strada, ma chi era sulla strada vedeva solo una parte di quel che accadeva al tavolo.
Un dettaglio che Princy notò immediatamente. E che le piacque.
Si voltò appena verso i due e li guardò negli occhi, uno dopo l’altro. Poi si sedette. Le gambe accavallate con eleganza, la camicia da notte che si tendeva sulle cosce nude, lasciando intravedere il perizoma ad ogni piccolo movimento. Le mani sul bordo del tavolo, la schiena dritta, il volto rilassato.
«Allora? Cosa mi fate bere?»
«A una milanesina come te, cosa si può offrire se non uno spritz?»
Il tono era scherzoso, ma lo sguardo già affilato.
Princy inclinò appena il capo, le labbra lucide che si piegarono in un sorriso morbido. «Certo. Ma solo se è spritz Select.»
Lo disse con una leggerezza che sembrava disinteresse, ma lo sguardo che seguì la frase era una sfida sottile. Un invito a stare al passo.
Uno dei due alzò la mano al cameriere. «Tre spritz. Ma Select, eh. Lei è una signorina seria.»
Si scambiarono uno sguardo divertito. Poi si sedettero più vicini a lei, uno per lato, mentre i bicchieri tintinnavano sul tavolo e il ghiaccio si scioglieva lento. Le loro ginocchia sfioravano già quelle di Princy sotto la tovaglia. Il sole calava, l’ombra era più fitta, e l’aria si faceva carica di qualcosa di più denso dell’estate.
«Ti ricordi quel campeggio?» chiese il più scuro dei due, sorseggiando.
«Quando ci fecero dormire sotto il telone bucato...»
«...e tu te ne uscisti dalla tenda con quella canottierina bagnata...»
«Bagnata e senza reggiseno,» aggiunse l’altro, ridendo. Ma non era una risata innocente. Lo sguardo gli era già scivolato sul décolleté appena visibile sotto la camicia trasparente.
«Quanti anni avevamo? Diciassette?»
Princy non rispose subito. Beveva lentamente, lasciando che il liquido amarognolo le arrossasse appena le labbra. Socchiuse gli occhi, come se stesse cercando tra i ricordi, ma la posa era studiata: il busto leggermente proteso in avanti, le gambe ancora accavallate ma con la gonna che si era sollevata di qualche centimetro in più, lasciando vedere l’attaccatura chiara del perizoma lucido.
«Sì… diciassette. Ma mi sa che già allora capivamo più di quanto fingessimo.»
I due alzarono di nuovo i bicchieri. «Brindiamo. Ai diciassette anni. E a come sei diventata oggi.»
Lei brindò, lasciando tintinnare appena il vetro contro il loro. Poi bevve tutto d’un sorso. La mano tremava appena, ma fu un tremito scelto, dosato.
Il secondo giro arrivò in fretta. E con lui, gli sguardi si fecero più lenti. Più diretti.
Il ragazzo alla sua sinistra si sporse un po’, come per sussurrarle qualcosa. Ma lo fece guardandole il collo, poi la spalla nuda, poi il seno. Gli occhi indugiavano, la bocca quasi sfiorava l’orecchio. «Sai che stai facendo impazzire tutti qui? Ti stanno guardando anche dai tavolini là in fondo.»
«Lascia che guardino,» rispose lei con un tono basso, quasi dolce. «Guardare non è proibito.»
L’altro, con il bicchiere in mano, tracciò un cerchio col dito lungo la gamba di Princy, dal ginocchio fino a metà coscia. «Guardare… e sognare. Tu sei una visione, lo sai? Un sogno vestito di niente.»
«Niente?» fece lei, alzando un sopracciglio, ironica.
«Sei più vestita adesso che se fossi nuda.»
Risero. Lei abbassò gli occhi, come se arrossisse. Ma era una finzione. Il piacere lo sentiva sul serio, dentro, come un calore che saliva dal ventre. Quelle frasi, quelle mani che non osavano ma ci provavano, la eccitavano. Le parole le accarezzavano la pelle come dita.
«Un altro brindisi,» disse lui, versando il fondo del suo bicchiere nel suo. «A Princy. Che ci ha tolto il fiato a diciassette anni e ce lo toglie anche adesso.»
«E che ci fa venire voglia di...»
«Zitti,» lo interruppe lei, ma con un sorriso smorzato. «Non rovinate il gioco.»
Fece un altro sorso, lasciando la bocca umida, il bicchiere vuoto tra le dita. Si appoggiò allo schienale, aprendo appena le gambe. Non esageratamente. Ma abbastanza perché la seta sottile si tendesse ancora. Uno degli amici deglutì visibilmente. L’altro si morse il labbro.
La conversazione si era fatta più rarefatta, diluita tra gli spritz vuoti e i respiri più lunghi. I complimenti si erano fatti più spinti, e i corpi si erano avvicinati quasi senza accorgersene. Ma fu il più audace dei due a rompere per primo l’equilibrio.
Senza dire nulla, come se fosse un gesto casuale, appoggiò la mano sul ginocchio di Princy. Non un tocco pesante. Ma deciso. La pelle nuda sotto le sue dita sembrava calda, viva. Lei abbassò lo sguardo verso la mano, poi lo alzò verso di lui con un sorriso lento, malizioso. Non gli chiese di toglierla. Non spostò il ginocchio. Restò ferma, lasciandogli quel contatto come si lascia un favore momentaneo a chi sa stare al proprio posto.
L’altro, con un movimento morbido, le si avvicinò. Posò un bacio lieve sulla guancia, un gesto quasi tenero. Ma nel ritrarsi, le dita gli scivolarono lungo la seta della spallina, e con una finta goffaggine la fece cadere dalla spalla sinistra. Un piccolo gesto, ma bastò a svelare parte della clavicola, e la curva piena del seno nudo sotto il tessuto trasparente.
Si allontanò appena, per guardarla meglio. Ammirava.
Intanto, l’amico più audace cominciava a far scivolare la mano lungo la coscia di Princy. Lenta, sicura, la percorreva verso l’alto. L’interno coscia era caldo, morbido, e il bordo del perizoma sembrava a un soffio di distanza.
L’altro, approfittando della distrazione del compagno, allungò ancora la mano sulla spalla scoperta di lei. E con un gesto tanto semplice quanto intenzionale, fece scendere la spallina ancora un po’. Il tessuto sottile scivolò giù, lasciando il seno scoperto. Il capezzolo, già turgido per l’aria e l’eccitazione, si mostrò senza timore.
Princy si voltò verso di lui, lentamente. Nessuno scatto, nessuna reazione indignata. Solo uno sguardo dritto, profondo, impassibile.
«Te lo ricordavi così?» chiese con voce bassa, morbida, ma con una tensione nascosta.
Lui non rispose. Deglutì appena. Lo sguardo restò fisso su di lei.
Princy si passò con calma la mano sul petto, risalì il bordo della camicia e tirò su la spallina, coprendo nuovamente il seno con la stessa eleganza con cui l’avrebbe fatto davanti a uno specchio. Non un gesto brusco, solo il ripristino del controllo.
«Lo tengo ancora bene, vero?»
Lo disse con un tono che era mezzo sorriso e mezzo comando. Poi si voltò di nuovo verso il compagno che le stava toccando la coscia. Lo guardò. Il suo sguardo diceva: continua, se sai come. Ma il messaggio era chiaro anche per l’altro: non confondete il mio silenzio con un sì assoluto.
Anche lei stava cominciando a scaldarsi davvero. Il gioco l’aveva eccitata, stuzzicata, avvolta in una spirale crescente fatta di sguardi, contatti, respiri. Ma ora sentiva qualcosa di diverso. Un punto di non ritorno che si avvicinava. E con esso, una sottile inquietudine: non la paura di quello che sarebbe potuto accadere… ma la possibilità concreta di perdere il controllo. E Princy non cedeva mai a caso.
L’altro ragazzo, quello che fino a poco prima si era mantenuto più in disparte, le posò la mano sulla gamba, seguendo il gesto del compagno. Entrambe le mani adesso salivano, lentamente, con estrema attenzione, sfiorando la pelle calda dell’interno coscia, come due predatori eleganti che si muovevano in perfetta sincronia.
Nessuno parlava più. I bicchieri erano vuoti, le parole svanite. Restava solo il suono dei respiri: più corti, più affannati, più veri.
Princy si morse lievemente il labbro. Sentiva le mani salire, scivolare verso l’alto. Ancora pochi centimetri e l’avrebbero toccata dove ormai era bagnata da tempo. Umida, palpitante. Pronta.
Ma non era quello il momento. Non lì. Non così.
Con un gesto morbido, lento e fluido, prese entrambe le mani e le sollevò dal suo corpo, posandole delicatamente sul tavolo. Non disse nulla, ma il messaggio era chiarissimo: non adesso.
Poi, con la stessa naturalezza, allungò le dita sotto l’orlo della camicia e fece scivolare verso il basso il perizoma bianco. Lo sfilò con eleganza, sollevando appena il bacino, e lo fece passare tra le gambe. Il tessuto lucido era zuppo dei suoi umori. Lo arrotolò tra le dita e lo posò al centro del tavolo, accanto ai bicchieri vuoti, come fosse un premio. O un trofeo.
Si alzò.
«Questo…» disse con tono calmo, seducente, «…è per chi paga il conto.»
Poi si voltò, e con passo lento e sicuro scavalcò il grande vaso di ortensie che la separava dalla via. Le gambe lunghe, tese, le natiche nude che si muovevano con grazia a ogni passo. La camicia, senza più il perizoma a proteggerla, si alzava ad ogni respiro, mostrando il corpo in tutta la sua sfacciata perfezione.
Senza voltarsi, si allontanò verso casa.
I due rimasero immobili, come sospesi, le mani ancora sul tavolo, il perizoma umido tra loro, lo sguardo inchiodato sulla curva che si allontanava. Non sapevano se fossero stati respinti… o semplicemente graziati.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
Il vecchio cappello di paglia, a tesa larga, le copriva metà volto, lasciando che solo le labbra socchiuse si vedessero, lucide e serene. Princy camminava con una naturalezza che sembrava studiata, eppure era solo istinto: quello di chi sa di piacersi, e non ha bisogno di conferme.
Raggiunse il lettino di legno sotto al pergolato, il telo già steso in attesa. Si fermò un momento, sollevando appena il viso al sole, chiudendo gli occhi, lasciando che la luce le sfiorasse la pelle delle gambe. Poi, lentamente, le mani risalirono lungo i fianchi, trovando i bottoni della camicia.
Non erano molti. Uno dopo l’altro si aprirono senza fretta, lasciando che il raso scivolasse via come acqua, svelando il corpo nudo sotto con la naturalezza di un rito. La stoffa le scivolò dalle spalle, rivelando la schiena snella e i seni piccoli, alti, intinti di luce dorata. Poi continuò a scendere, accarezzandole i fianchi e i glutei sodi, fino a fermarsi, impigliata un istante sulle cosce, per poi cadere ai piedi.
Non c’era nessuno a guardarla. Eppure lei si mosse come se ci fosse. Come se il suo corpo stesse danzando per un occhio invisibile, per una presenza impalpabile nascosta tra le foglie o dentro l’acqua ferma della piscina.
Con lentezza si sedette sul bordo del lettino, accavallò le gambe con eleganza, poi si distese all'indietro, le braccia aperte lungo i fianchi e il cappello calato di nuovo sul viso. Il corpo completamente nudo assorbiva il sole, e con lui quel senso di potere silenzioso che le saliva da dentro. Quella bellezza, quella libertà, erano per sé sola. Eppure, qualcosa in lei desiderava ancora essere vista.
Distesa sul lettino, Princy lasciava che il sole le accarezzasse la pelle nuda con la pazienza di un amante. Il cappello di paglia le ombreggiava il volto, ma la luce scivolava ovunque: sulle clavicole sporgenti, sull’incavo del ventre, lungo le gambe distese, fino ad accendersi tra le cosce con una sfacciataggine naturale. Lì, proprio lì, il sole sembrava indugiare di più, come attratto da un punto preciso: un riflesso sottile e umido che rendeva le sue grandi labbra lucide, vive, come se pulsassero una memoria propria.
Era eccitazione. Ancora. Inconfondibile.
Non era un pensiero chiaro, né un’immagine nitida. Era solo una sensazione che tornava a farsi strada nel corpo. Quanto successo il giorno precedente durante la corsa l'aveva accesa, come se nel suo corpo si fosse risvegliato dalla fase di torpore invernale, come se il suo io più profondo le stesse dicendo che il letargo era finito, ora era la stagione delle api e dei fiori.
Princy mosse appena il bacino, come se cercasse un equilibrio nuovo, ma finì solo per esporre ancora di più quella lucentezza impudica. Non c’era alcun pudore in lei, solo un respiro profondo e silenzioso, che faceva salire e scendere il petto in un ritmo lento. Le mani, immobili, riposavano lungo i fianchi. Non aveva bisogno di altro. Non ancora.
Distesa sul lettino, immobile sotto il sole, Princy sembrava dormire. Ma il corpo, nudo e vivo, diceva altro. Ogni linea, ogni tensione della pelle, ogni sfumatura di luce sulle sue curve sembrava una dichiarazione silenziosa. Quel luccichio tra le gambe, sottile e palpitante, non era un caso. Era un segnale.
Non era una richiesta, no. Era un'affermazione.
Voleva essere guardata. Sentire su di sé occhi che la cercavano, che indugiavano su ogni dettaglio del suo corpo senza bisogno di chiedere. Voleva provocare, sì, ma non per esibirsi: per affermare il proprio potere. La propria presenza. Ogni gesto, ogni abito, ogni scelta — dal cappello alla camicia trasparente, dal modo in cui accavallava le gambe al rossetto che avrebbe messo più tardi — tutto nasceva da quel bisogno. Non per piacere. Per dominare il desiderio altrui, senza dover mai dipendere da esso.
Aveva imparato a conoscere quel piacere sottile che nasceva dallo sguardo di chi osserva senza essere autorizzato. Dal silenzio imbarazzato di chi vorrebbe ma non osa. Dai complimenti non detti, dai pensieri sospesi. Era lì che trovava alimento. Non nell’atto in sé, ma nel poter decidere quando lasciarsi sfiorare e quando negarsi. Quando mostrarsi e quando voltare le spalle.
Niente in lei era sottomesso. Nulla concesso per caso.
Eppure, in quel momento, nella quiete assoluta del giardino, con solo il sole come testimone, qualcosa dentro di lei ardeva. Una tensione sottile, come una corda tirata tra la solitudine e il desiderio di essere scoperta. Non importava da chi. Un vicino distratto, un estraneo curioso, anche solo una finestra aperta su un punto invisibile della casa. Bastava l’idea. Bastava il rischio.
Il sole era fermo nel cielo, a picco su di lei, quando Princy aprì lentamente gli occhi sotto la tesa larga del cappello. Non c’era nessuno, eppure sentiva su di sé uno sguardo invisibile, come se da qualche parte, tra i rami degli alberi, dietro le tende leggere di una finestra lontana, qualcuno la stesse osservando. Non con invadenza, ma con adorazione. E questo pensiero, languido e sottile, le fece piegare le labbra in un sorriso appena accennato.
Iniziò a muoversi con lentezza, senza rompere il silenzio. Sollevò una gamba, piegandola con grazia, poi la lasciò ricadere di lato. Il busto ruotò appena, mettendo in tensione il ventre piatto e disegnando sul suo fianco una linea netta d’ombra e luce. Ogni spostamento sembrava studiato, ma era istinto. Un gioco. Una recita per un pubblico che forse non c’era, ma che lei voleva credere presente.
La mano destra risalì lungo il fianco, sfiorando la pelle con le dita tese, fino ad accarezzare con lentezza l’incavo sotto al seno. Non lo toccò, no, si fermò appena prima. Poi tornò giù, scivolando sul ventre, accompagnando la curva dei fianchi, per poi abbandonarsi di nuovo sul telo. Non serviva fare di più. L’effetto era già perfetto.
Sollevò il braccio sinistro e con gesto lento sistemò il cappello, spostandolo un po’ più in alto. Mostrò il volto. Occhi socchiusi, bocca leggermente aperta, pelle lucida di sole. Un fermo immagine. Come se volesse dire: guardami, ma solo per quanto te lo permetto.
Poi afferrò la bottiglietta d’acqua che aveva lasciato accanto al lettino e ne versò un filo tra le clavicole. L’acqua fredda le corse giù, scivolando tra i seni e seguendo la linea dell’addome, fino al pube. Non si mosse. Sentì solo la pelle contrarsi, i capezzoli indurirsi, e quella sottile goccia penetrare nel ricordo del piacere. E con esso, tornare viva.
Allungò un braccio verso l’erba alta accanto al lettino e strappò un filo sottile, flessibile. Lo portò sulla pelle e cominciò a tracciarvi piccoli cerchi. Prima sul ventre, poi sull’interno coscia, poi lungo il seno sinistro. Non rideva, non giocava: stava comunicando qualcosa. A chi? Forse a nessuno. Forse a sé stessa.
Poi sussurrò qualcosa. Solo un paio di parole, pronunciate a fior di labbra. Nessuno poteva sentirle, ma chiunque l’avesse vista ne avrebbe percepito il significato. Una provocazione, un invito, o forse una sfida.
Si tirò su lentamente, fino a sedersi sul lettino. Le gambe piegate, i glutei ben poggiati sul bordo, il busto proteso in avanti. Si stiracchiò. Il cappello le cadde sulla schiena, lasciando il viso libero. Si alzò in piedi. Allungò le braccia sopra la testa, si mise sulle punte, si tese come un animale pronto a fuggire… o a sedurre. Poi si voltò di spalle e inarcò la schiena, offrendosi al sole. I glutei alti, scolpiti, sembravano modellati apposta per quella luce.
Si chinò a raccogliere la camicia, la scosse lentamente, poi la passò sul corpo come per asciugarsi. Il raso freddo la fece rabbrividire. Infilò una manica, accennò a chiuderla… ma cambiò idea. Si guardò, si guardò come se si vedesse da fuori, poi lasciò cadere di nuovo l’indumento accanto a sé.
Si chinò a raccogliere la camicia, la scosse lentamente tra le dita, lasciandola fluttuare per un istante nell’aria calda. Il raso, ancora fresco d’ombra, le accarezzò la pelle mentre lo passava su di sé come per asciugare le ultime gocce d’acqua. Lo sollevò, infilò una manica con gesto disinvolto, poi si fermò. Non la indossò davvero. La lasciò semplicemente cadere su una spalla, come un drappo, lasciando il corpo esposto, lucente, assoluto.
Fece un passo verso casa. Poi un altro. I piedi nudi sull’erba ancora tiepida, le gambe slanciate che si muovevano con la naturalezza di una sfilata che non aveva bisogno di pubblico. Il cappello ancora in testa, il profilo delineato dal sole, il corpo che sembrava scolpito in un’idea precisa: adesso basta sogni. È tempo di andare in scena.
La porta a vetri si aprì con un lieve cigolio. Lei non si voltò. Sparì all’interno con la camicia che le scivolava lentamente giù dal braccio, lasciando solo un lembo appeso alla spalla.
Uscì dalla doccia e non si affrettò ad asciugarsi. Lasciò che l’acqua scorresse, scivolasse sul suo corpo, sulle gambe, lungo la schiena e oltre i glutei, raccogliendosi in gocce lente che sembravano trattenersi prima di cadere. Poi, con il telo ancora tra le mani, si avvicinò allo specchio.
Era nuda, ancora bagnata, con i capelli corti incollati alla nuca. Il vetro leggermente appannato le restituiva un’immagine che le piacque subito. Non sorrise. Si osservò con calma, con attenzione, come si osserva un volto caro. Poi si chinò in avanti, si passò le dita sulle guance e cominciò.
Sulle mani aveva una crema leggera, dal profumo appena dolce. La stese sul viso senza troppa precisione, come se stesse accarezzandosi. Non cercava perfezione: voleva solo ravvivare il colorito, far brillare la pelle, come quando si rientra da una giornata al mare. Prese un piccolo barattolo e con le dita sfiorò le palpebre, lasciandovi un’ombra calda, quasi ramata, che accendeva lo sguardo con un tocco appena visibile.
Poi tracciò una linea all’attaccatura delle ciglia, sottile, netta, come una promessa appena accennata. Era una linea che si allungava appena verso l’esterno, e bastava per trasformare gli occhi. Li rese più profondi, più taglienti, più… suoi.
Sulle guance mise poco, solo quel tanto che bastava a farle sembrare baciate dal sole, come se si fosse appena alzata da un pomeriggio passato all’aperto. E infine le labbra. Le definì con calma, prima con la punta delle dita, poi con il colore: un rosso pieno, ma non acceso. Un rosso maturo, caldo, sensuale. Quando lo stese, le labbra si dischiusero leggermente, e le sembrò di vedere in sé una donna nuova. O forse la stessa di sempre, ma pronta a mostrarsi.
Aprì l’anta dell’armadio e restò un momento immobile, in piedi, ancora in intimo. Il tanga nero aderiva perfettamente, scomparendo quasi tra le curve dei glutei, mettendone in risalto la forma piena e soda. Il reggiseno a balconcino, della stessa tinta, sosteneva i seni piccoli con discrezione e malizia: le coppe tagliate basse lasciavano scoperta la parte superiore, delineandola con precisione chirurgica. Sembrava un corpo disegnato.
Scelse d’impulso un paio di jeans skinny, quelli che non perdonano nulla. Li fece scivolare su per le gambe con lentezza, sollevando una gamba alla volta, tirandoli poi sui fianchi con un gesto secco. Le cuciture aderirono come una seconda pelle, disegnandole i glutei in una curva netta, piena, quasi sfacciata. Si girò di lato, poi di spalle, specchiandosi. Il sedere stava benissimo, le gambe sembravano ancora più lunghe. Ma non era convinta.
Prese una maglietta corta, lucida, aderente. Un grigio cangiante che al sole virava verso l’argento. Le fasciava il busto come una guaina morbida, scoprendole la pancia piatta, lasciando in vista l’ombelico e il taglio basso del jeans. Si osservò. Bella. Sicura. Sexy.
Ma troppo coperta. Troppo normale. Troppo… poco Princy, almeno per quel giorno.
Tirò su la maglietta con uno strattone e se la sfilò con impazienza. Poi tolse anche i jeans, lasciandoli cadere sul tappeto in un mucchio stropicciato.
Aprì il cassetto più in basso. Stavolta scelse un miniabito blu elettrico, in tessuto elasticizzato. Scollo a barchetta, senza maniche, corto fino a metà coscia. Lo infilò lentamente, facendolo scivolare lungo il corpo come un guanto. Si stirò il tessuto sui fianchi, si sistemò la scollatura che lasciava le clavicole perfettamente esposte, poi fece un paio di passi per la stanza.
Era spettacolare.
Ma troppo da sera. Da cocktail. Troppo mondano per quello che aveva in mente. E poi, lo sapeva, un abito così attirava sguardi, sì, ma anche cliché. Lei non voleva solo essere ammirata. Voleva far voltare la testa. Voleva provocare in modo più diretto. Più spiazzante.
Si fermò. Lo sfilò, arrotolandolo tra le mani e lasciandolo sulla sedia accanto al letto.
Rimasta solo in intimo, si sedette lentamente sul bordo del materasso, la schiena dritta, i piedi ben poggiati a terra. Le cosce leggermente aperte, le mani che scivolavano verso le ginocchia. Non era indecisa. Era… strategica.
D’un tratto balzò in piedi, come scossa da un’illuminazione. Il volto le si accese in un sorriso, di quelli che non lasciano spazio a esitazioni. Aveva trovato. Aveva deciso.
Si alzò dalla sponda del letto con grazia rapida, le mani che già si muovevano sicure dietro la schiena. Sganciò il reggiseno a balconcino e lo lasciò cadere sul lenzuolo, poi fece scorrere verso il basso il tanga nero che si accartocciò a terra come una cosa inutile. Restò nuda per un attimo, solo un attimo, prima di aprire un piccolo cassetto e tirare fuori il perizoma bianco.
Lucido, minuscolo, appena più che un filo. Lo alzò tra le dita come un trofeo e se lo fece scivolare su per le gambe, lentamente. Quando lo sistemò bene sui fianchi, lasciò che affondasse tra le labbra, profondo, deciso. Come una firma. Un modo per ricordarsi che ogni passo che avrebbe fatto sarebbe partito da lì: da quel piacere messo al suo posto.
Poi si voltò verso l’armadio più in alto, quello dove conservava le cose che non usava mai, ma che non avrebbe mai buttato. Trovò la camicia da notte della madre, rubata anni prima e accorciata con cura e malizia. Tessuto sottile, quasi impalpabile, trasparente il giusto per lasciar immaginare — o forse vedere — ciò che c’era sotto. La infilò con un gesto morbido, lasciando che le scivolasse sulle spalle e poi giù, fermandosi appena sotto ai glutei. Quel tanto che bastava a farle sentire l’orlo accarezzare la parte più alta delle cosce. Il resto restava scoperto. Volutamente.
Si chinò per prendere un paio di sandali chiari, tacco a spillo, fasce sottili attorno al piede, il tallone nudo. Li indossò lentamente, prima uno poi l’altro, con la calma di chi sa esattamente cosa sta facendo.
Poi si mise davanti allo specchio. Si guardò. Si riguardò. Le spalle dritte, le gambe forti, il seno libero sotto la seta trasparente, le punte dei capezzoli che si intuivano nel gioco di ombre, il perizoma bianco ben visibile appena si muoveva. Ogni dettaglio parlava per lei.
Aprì la porta con la sicurezza di chi non spera di essere vista, ma la pretende. Stava andando là fuori, nel mondo, non per cercare qualcuno. Ma per vedere chi avrebbe avuto il coraggio di guardarla davvero.
Il paese, a quell’ora del pomeriggio, sembrava immerso in un torpore ovattato. Le voci dei bar si mescolavano al tintinnio dei bicchieri e al rumore sordo dei passi sui marciapiedi assolati. Princy camminava come se fosse sola. O come se sapesse che nessuno poteva ignorarla.
Il tacco dei sandali a spillo scandiva il suo incedere morbido, mentre la camicia da notte – quella vecchia reliquia materna, ora arma perfetta – ondeggiava ad ogni passo, fermandosi appena sotto i glutei. Ogni tanto, una folata d’aria più vivace sollevava il bordo leggerissimo, scoprendo con evidenza il perizoma bianco lucido, scavato tra le curve. Ma lei non se ne curava. Camminava. Sorrideva appena. Si lasciava guardare.
All’angolo della via principale, poco prima del bar, due ragazzi venivano incontro a lei. Stavano passeggiando, chiacchierando a bassa voce, finché non la scorsero. Si bloccarono. Sorrisero, increduli. Poi accelerarono il passo.
«Ma… Princy?»
Lei li riconobbe subito, e si fermò. Sorrise, divertita dalla loro espressione. Erano cresciuti bene. Più larghi, più sicuri. Con quel tono da uomini che sanno ancora come si scherza da ragazzi.
«Siete voi?» disse, inclinando appena la testa, lasciando che i capelli corti e scuri disegnassero il suo profilo. Li abbracciò uno dopo l’altro, stringendoli appena, e lasciando che le mani di entrambi le sfiorassero la schiena nuda sotto la trasparenza della seta.
Uno di loro si scostò, la guardò da capo a piedi e poi ridacchiò. «Altro che sei cambiata… sei sempre più bella. E più sexy.»
«Anzi, aspetta…» aggiunse l’altro, prendendola per una mano e alzandole il braccio come si fa per un passo di danza. «Facci una giravolta. Dai, come ai vecchi tempi.»
Lei lo guardò di traverso, ma con un lampo divertito negli occhi. E obbedì.
Fece mezzo giro su sé stessa, con grazia quasi teatrale. Il tessuto della camicia da notte si sollevò come un petalo in vento, lasciando intravedere – senza alcun dubbio – il perizoma affondato tra le natiche, lucido e provocante. Una rivelazione rapida, ma studiata. I ragazzi fischiarono a bassa voce, le mani sulle labbra per contenere un'esclamazione.
«Dove stavi andando così, principessa?»
«Passeggiavo. Ma potrei anche lasciarmi trascinare…»
I due si scambiarono uno sguardo complice. «Allora vieni con noi. Al solito bar. Dai, è a due passi. Offriamo noi.»
Lei finse di riflettere. Un passo indietro, un angolo di sorriso.
«Solo se mi fate sedere comoda.»
«Ma certo,» rispose uno dei due con un mezzo sorriso, voltandosi già verso il bar. «Vieni con noi.»
Non le dissero altro. Nessun accenno al tavolino leggermente appartato, non nascosto ma ben posizionato, defilato quel tanto che bastava per consentire qualche libertà, pur restando in vista dalla strada. Un angolo perfetto per chi sa godere della discrezione e dell’esibizione allo stesso tempo.
Ripresero a camminare. Lei al centro, i due ragazzi ai suoi lati. Ma l’equilibrio non durava mai troppo: ogni pochi passi si scambiavano di posto, con il pretesto di scherzare, fare commenti, toccarle la mano o il fianco. Princy non diceva nulla. Sorrideva. Il busto dritto, lo sguardo avanti, come se quelle attenzioni fossero naturali. Come se spettassero a lei per diritto.
Uno le mise il braccio attorno alle spalle, tirandola a sé con un mezzo abbraccio affettuoso. L’altro approfittò per sfiorarle la schiena con la mano, sotto la seta della camicia, scendendo di poco oltre la linea dei fianchi. Le mani si facevano sempre più disinvolte. Una si poggiò sul fianco scoperto, con il pollice che scivolava lentamente verso il ventre. Un’altra, più audace, sfiorò il confine tra la coscia e il perizoma, proprio dove il tessuto lucido scompariva tra le pieghe del corpo.
Lei non si fermò. Non si irrigidì. Non si voltò.
Camminava come se nulla fosse, come se quel contatto fosse atteso. Apprezzato. Ma non concesso del tutto.
Perché Princy amava sentirsi desiderata. Amava gli sguardi che si posavano su di lei come mani. E amava anche le mani vere, purché sapessero fermarsi esattamente dove decideva lei. Fino al limite. Né un centimetro oltre.
Giunsero al bar e uno dei due fece un cenno al cameriere, indicando il tavolino appartato, appena un po’ più in là degli altri. Non nascosto, ma più raccolto, protetto da un vaso di ortensie e da un piccolo ombrellone bianco. Da lì si vedeva la strada, ma chi era sulla strada vedeva solo una parte di quel che accadeva al tavolo.
Un dettaglio che Princy notò immediatamente. E che le piacque.
Si voltò appena verso i due e li guardò negli occhi, uno dopo l’altro. Poi si sedette. Le gambe accavallate con eleganza, la camicia da notte che si tendeva sulle cosce nude, lasciando intravedere il perizoma ad ogni piccolo movimento. Le mani sul bordo del tavolo, la schiena dritta, il volto rilassato.
«Allora? Cosa mi fate bere?»
«A una milanesina come te, cosa si può offrire se non uno spritz?»
Il tono era scherzoso, ma lo sguardo già affilato.
Princy inclinò appena il capo, le labbra lucide che si piegarono in un sorriso morbido. «Certo. Ma solo se è spritz Select.»
Lo disse con una leggerezza che sembrava disinteresse, ma lo sguardo che seguì la frase era una sfida sottile. Un invito a stare al passo.
Uno dei due alzò la mano al cameriere. «Tre spritz. Ma Select, eh. Lei è una signorina seria.»
Si scambiarono uno sguardo divertito. Poi si sedettero più vicini a lei, uno per lato, mentre i bicchieri tintinnavano sul tavolo e il ghiaccio si scioglieva lento. Le loro ginocchia sfioravano già quelle di Princy sotto la tovaglia. Il sole calava, l’ombra era più fitta, e l’aria si faceva carica di qualcosa di più denso dell’estate.
«Ti ricordi quel campeggio?» chiese il più scuro dei due, sorseggiando.
«Quando ci fecero dormire sotto il telone bucato...»
«...e tu te ne uscisti dalla tenda con quella canottierina bagnata...»
«Bagnata e senza reggiseno,» aggiunse l’altro, ridendo. Ma non era una risata innocente. Lo sguardo gli era già scivolato sul décolleté appena visibile sotto la camicia trasparente.
«Quanti anni avevamo? Diciassette?»
Princy non rispose subito. Beveva lentamente, lasciando che il liquido amarognolo le arrossasse appena le labbra. Socchiuse gli occhi, come se stesse cercando tra i ricordi, ma la posa era studiata: il busto leggermente proteso in avanti, le gambe ancora accavallate ma con la gonna che si era sollevata di qualche centimetro in più, lasciando vedere l’attaccatura chiara del perizoma lucido.
«Sì… diciassette. Ma mi sa che già allora capivamo più di quanto fingessimo.»
I due alzarono di nuovo i bicchieri. «Brindiamo. Ai diciassette anni. E a come sei diventata oggi.»
Lei brindò, lasciando tintinnare appena il vetro contro il loro. Poi bevve tutto d’un sorso. La mano tremava appena, ma fu un tremito scelto, dosato.
Il secondo giro arrivò in fretta. E con lui, gli sguardi si fecero più lenti. Più diretti.
Il ragazzo alla sua sinistra si sporse un po’, come per sussurrarle qualcosa. Ma lo fece guardandole il collo, poi la spalla nuda, poi il seno. Gli occhi indugiavano, la bocca quasi sfiorava l’orecchio. «Sai che stai facendo impazzire tutti qui? Ti stanno guardando anche dai tavolini là in fondo.»
«Lascia che guardino,» rispose lei con un tono basso, quasi dolce. «Guardare non è proibito.»
L’altro, con il bicchiere in mano, tracciò un cerchio col dito lungo la gamba di Princy, dal ginocchio fino a metà coscia. «Guardare… e sognare. Tu sei una visione, lo sai? Un sogno vestito di niente.»
«Niente?» fece lei, alzando un sopracciglio, ironica.
«Sei più vestita adesso che se fossi nuda.»
Risero. Lei abbassò gli occhi, come se arrossisse. Ma era una finzione. Il piacere lo sentiva sul serio, dentro, come un calore che saliva dal ventre. Quelle frasi, quelle mani che non osavano ma ci provavano, la eccitavano. Le parole le accarezzavano la pelle come dita.
«Un altro brindisi,» disse lui, versando il fondo del suo bicchiere nel suo. «A Princy. Che ci ha tolto il fiato a diciassette anni e ce lo toglie anche adesso.»
«E che ci fa venire voglia di...»
«Zitti,» lo interruppe lei, ma con un sorriso smorzato. «Non rovinate il gioco.»
Fece un altro sorso, lasciando la bocca umida, il bicchiere vuoto tra le dita. Si appoggiò allo schienale, aprendo appena le gambe. Non esageratamente. Ma abbastanza perché la seta sottile si tendesse ancora. Uno degli amici deglutì visibilmente. L’altro si morse il labbro.
La conversazione si era fatta più rarefatta, diluita tra gli spritz vuoti e i respiri più lunghi. I complimenti si erano fatti più spinti, e i corpi si erano avvicinati quasi senza accorgersene. Ma fu il più audace dei due a rompere per primo l’equilibrio.
Senza dire nulla, come se fosse un gesto casuale, appoggiò la mano sul ginocchio di Princy. Non un tocco pesante. Ma deciso. La pelle nuda sotto le sue dita sembrava calda, viva. Lei abbassò lo sguardo verso la mano, poi lo alzò verso di lui con un sorriso lento, malizioso. Non gli chiese di toglierla. Non spostò il ginocchio. Restò ferma, lasciandogli quel contatto come si lascia un favore momentaneo a chi sa stare al proprio posto.
L’altro, con un movimento morbido, le si avvicinò. Posò un bacio lieve sulla guancia, un gesto quasi tenero. Ma nel ritrarsi, le dita gli scivolarono lungo la seta della spallina, e con una finta goffaggine la fece cadere dalla spalla sinistra. Un piccolo gesto, ma bastò a svelare parte della clavicola, e la curva piena del seno nudo sotto il tessuto trasparente.
Si allontanò appena, per guardarla meglio. Ammirava.
Intanto, l’amico più audace cominciava a far scivolare la mano lungo la coscia di Princy. Lenta, sicura, la percorreva verso l’alto. L’interno coscia era caldo, morbido, e il bordo del perizoma sembrava a un soffio di distanza.
L’altro, approfittando della distrazione del compagno, allungò ancora la mano sulla spalla scoperta di lei. E con un gesto tanto semplice quanto intenzionale, fece scendere la spallina ancora un po’. Il tessuto sottile scivolò giù, lasciando il seno scoperto. Il capezzolo, già turgido per l’aria e l’eccitazione, si mostrò senza timore.
Princy si voltò verso di lui, lentamente. Nessuno scatto, nessuna reazione indignata. Solo uno sguardo dritto, profondo, impassibile.
«Te lo ricordavi così?» chiese con voce bassa, morbida, ma con una tensione nascosta.
Lui non rispose. Deglutì appena. Lo sguardo restò fisso su di lei.
Princy si passò con calma la mano sul petto, risalì il bordo della camicia e tirò su la spallina, coprendo nuovamente il seno con la stessa eleganza con cui l’avrebbe fatto davanti a uno specchio. Non un gesto brusco, solo il ripristino del controllo.
«Lo tengo ancora bene, vero?»
Lo disse con un tono che era mezzo sorriso e mezzo comando. Poi si voltò di nuovo verso il compagno che le stava toccando la coscia. Lo guardò. Il suo sguardo diceva: continua, se sai come. Ma il messaggio era chiaro anche per l’altro: non confondete il mio silenzio con un sì assoluto.
Anche lei stava cominciando a scaldarsi davvero. Il gioco l’aveva eccitata, stuzzicata, avvolta in una spirale crescente fatta di sguardi, contatti, respiri. Ma ora sentiva qualcosa di diverso. Un punto di non ritorno che si avvicinava. E con esso, una sottile inquietudine: non la paura di quello che sarebbe potuto accadere… ma la possibilità concreta di perdere il controllo. E Princy non cedeva mai a caso.
L’altro ragazzo, quello che fino a poco prima si era mantenuto più in disparte, le posò la mano sulla gamba, seguendo il gesto del compagno. Entrambe le mani adesso salivano, lentamente, con estrema attenzione, sfiorando la pelle calda dell’interno coscia, come due predatori eleganti che si muovevano in perfetta sincronia.
Nessuno parlava più. I bicchieri erano vuoti, le parole svanite. Restava solo il suono dei respiri: più corti, più affannati, più veri.
Princy si morse lievemente il labbro. Sentiva le mani salire, scivolare verso l’alto. Ancora pochi centimetri e l’avrebbero toccata dove ormai era bagnata da tempo. Umida, palpitante. Pronta.
Ma non era quello il momento. Non lì. Non così.
Con un gesto morbido, lento e fluido, prese entrambe le mani e le sollevò dal suo corpo, posandole delicatamente sul tavolo. Non disse nulla, ma il messaggio era chiarissimo: non adesso.
Poi, con la stessa naturalezza, allungò le dita sotto l’orlo della camicia e fece scivolare verso il basso il perizoma bianco. Lo sfilò con eleganza, sollevando appena il bacino, e lo fece passare tra le gambe. Il tessuto lucido era zuppo dei suoi umori. Lo arrotolò tra le dita e lo posò al centro del tavolo, accanto ai bicchieri vuoti, come fosse un premio. O un trofeo.
Si alzò.
«Questo…» disse con tono calmo, seducente, «…è per chi paga il conto.»
Poi si voltò, e con passo lento e sicuro scavalcò il grande vaso di ortensie che la separava dalla via. Le gambe lunghe, tese, le natiche nude che si muovevano con grazia a ogni passo. La camicia, senza più il perizoma a proteggerla, si alzava ad ogni respiro, mostrando il corpo in tutta la sua sfacciata perfezione.
Senza voltarsi, si allontanò verso casa.
I due rimasero immobili, come sospesi, le mani ancora sul tavolo, il perizoma umido tra loro, lo sguardo inchiodato sulla curva che si allontanava. Non sapevano se fossero stati respinti… o semplicemente graziati.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
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