Runner 4
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Il messaggio arrivava da un mittente sconosciuto.
Nessun nome. Nessun volto. Solo un testo essenziale.
Poche righe. Un comando. E un link.
Questa sera. Stesso posto. Stessa ora.
Niente abiti. Solo intimo e calze. Scegli tu quali, ma se non saranno di mio gusto potresti pentirtene.
Procurati una mascherina. Questa volta lo spettacolo sarà dal vivo.
Il link che trovi allegato mostra le tue foto di ieri sera, con il volto nascosto.
Se non obbedisci, manderò le stesse foto, ma con il volto scoperto.
Il cuore di Leda sembrò fermarsi.
Tutto dentro di lei si strinse in un unico nodo: rabbia, paura, vergogna.
Ma anche qualcos’altro. Qualcosa che aveva già sentito.
Quel calore sordo e profondo.
Quello che aveva conosciuto solo poche ore prima. Quello che ancora le pulsava tra le gambe.
Aprì il link.
La pagina si caricò in un istante. Lo schermo illuminò la stanza come un riflettore.
Le fotografie apparvero in sequenza. Una dopo l’altra. Nitide. Perfette.
Ogni immagine era un colpo allo stomaco.
Lei, nell’ombra. Sulla panchina.
Le gambe aperte. La schiena dritta. I seni nudi. Il piacere inciso sul volto, anche se nascosto.
Non c’erano titoli volgari, né slogan. Solo le immagini. Pure. Crude. Devastanti.
E Leda… si scoprì accesa.
Ancora.
Lo sguardo fisso su sé stessa, su quella donna che non riconosceva più ma che la ipnotizzava, come se la vedesse per la prima volta davvero.
Non sembrava una vittima.
Non sembrava costretta.
Sembrava viva. Accesa. Irraggiungibile e potentemente femmina.
Ogni scatto riattivava un frammento della sera precedente.
E ogni scatto la faceva fremere.
Alla fine della pagina, una sola riga.
Un indirizzo e-mail.
E sotto, una nota asciutta:
Per assistere allo spettacolo dal vivo: domani ore 22:00. Posti limitati.
Chiuse il dispositivo, ma le immagini le erano rimaste incise sulla pelle. Non serviva lo schermo per rivederle.
Si alzò lentamente dal letto, nuda, ancora umida, lo sguardo perso nel buio.
Le mani tremavano.
Non di paura.
O forse sì, ma non solo.
La consapevolezza la travolse come uno schiaffo e una carezza insieme:
non poteva più tornare indietro.
Quell’uomo aveva il potere di distruggerla. Ma anche quello, subdolo e feroce, di mostrarle una parte di sé che nessuno aveva mai toccato.
Nemmeno lei.
E ora…
non sapeva più se voleva essere salvata.
Rimise l’iPad sul comodino e si infilò di nuovo tra le lenzuola, ancora tiepide del proprio corpo.
Non pianse. Non tremò.
Chiuse semplicemente gli occhi.
Sapeva perfettamente che, al risveglio, la giornata non sarebbe stata come le altre.
Sarebbe stata intensa. Carica. Eccitante in modo irrazionale.
Quello che la stupiva non era più la paura. Non era nemmeno l’assenza di rabbia.
Ciò che la lasciava davvero spiazzata era non sentire alcuna urgenza di denunciare.
Né di fuggire. Né di parlarne con qualcuno.
Non si trattava di panico o di terrore di essere scoperta.
No.
Era un’altra cosa.
Una volontà.
Forse inconsapevole, forse profonda.
Di lasciarsi portare via.
Di esplorare.
Di mettersi a nudo nel senso più radicale.
"Forse sto solo cominciando a conoscermi per la prima volta," pensò, appena un soffio, mentre il sonno la riprendeva con dolcezza.
E si addormentò serena.
Quando si svegliò, il sole era già alto e la luce filtrava pigramente dalle tende leggere.
Nessuna tensione nei muscoli. Nessun senso di colpa.
Solo la consapevolezza morbida di essere intera. E donna.
Completamente.
In modo nuovo. Più profondo. Più vero.
Fece colazione con calma, un caffè forte, qualche biscotto.
La radio accesa in sottofondo parlava di una mattina come tante.
Ma per lei non era così.
Entrò in bagno, i piedi nudi sul pavimento freddo. Il vapore sullo specchio era ancora lì, un vago ricordo della notte. Si fermò. Si guardò.
Si piacque. Con uno sguardo diverso.
Prese di nuovo l’iPad.
Aprì il sito.
La pagina si caricò come se stesse aprendo un confessionale segreto.
Le sue fotografie erano ancora lì, identiche, perfette.
E sotto di esse… il counter delle visualizzazioni.
Oltre diecimila.
In meno di una notte.
Per un istante sentì lo stomaco chiudersi.
Poi, lentamente… fremette.
Non per paura.
Ma per eccitazione.
Tutte quelle persone… l’avevano scelta.
Tra milioni di volti e di corpi, avevano cliccato su di lei.
Per guardarla. Per cercare piacere.
Per masturbarsi su di lei.
L’idea le fece correre un brivido lungo la schiena.
Non come vittima.
Non più.
Cominciò a pensarli come il Suo pubblico.
Uomini, donne, sconosciuti davanti a uno schermo, a fissare il suo corpo come se fosse arte proibita.
Leda, regina muta di un palcoscenico segreto.
E ne provò un orgoglio nuovo. Distorto. Incredibilmente femminile.
Chiuse gli occhi un istante.
Sorrise.
Stava nascendo qualcosa.
E non aveva alcuna intenzione di fermarlo.
Si vestì con movimenti rapidi ma curati, quasi danzati.
Leggings lucidi, aderenti come una seconda pelle, che riflettevano la luce del mattino a ogni passo.
Sopra, una maglietta nera con aperture strategiche sulle spalle e sulla schiena, che lasciava intravedere la morbidezza della pelle, il disegno fluido delle scapole.
Ai piedi, semplici scarpe da tennis.
Comoda. Leggera. Ma seducente come non mai.
Uscì di casa senza pensarci troppo. Il sole scaldava il selciato, il traffico le scorreva accanto distratto, ignaro della tempesta che si muoveva con lei.
La destinazione era chiara.
Una boutique elegante, specializzata in lingerie e accessori raffinati, conosciuta per le sue mascherine in pizzo, sensuali e misteriose.
Coprivano solo il necessario, lasciando trapelare gli zigomi, la curva delle sopracciglia, la promessa di un’identità senza mai rivelarla del tutto.
Entrò.
Scelse con cura.
Una mascherina nera, finemente ricamata, con sottili nastri che si annodavano dietro la nuca.
Semplice. Essenziale. Perfetta.
Fu solo uscendo, mentre camminava tra le vetrine, che si rese conto di non aver indossato alcun intimo.
Né tanga. Né reggiseno.
Nulla.
Come se fosse normale.
Come se il suo corpo non avesse più bisogno di veli.
Tirò i leggings più in alto sui fianchi, facendo aderire il tessuto fino a fargli disegnare ogni piega, ogni forma, ogni respiro.
Sotto, era completamente nuda.
E il mondo se ne accorse.
Molti sguardi si posarono su di lei.
Alcuni velati. Altri diretti.
Fischi. Commenti. Inviti indecenti.
Epiteti crudi, sporchi, eppure stranamente eccitanti.
Nessuno di quei tentativi la toccò davvero.
Ma tutti la attraversarono.
Era come un’attrice su un palco che non si vede, ma che tutti guardano.
E in quello sguardo collettivo c’era potere, desiderio, fame.
E lei… si nutriva.
Quando rientrò a casa, non disse nulla.
Non pensò.
Tolse tutto.
La maglietta cadde sul pavimento, seguita dai leggings. Le scarpe rimasero vicino alla porta.
Rimase nuda. In piedi. Bellissima. E consapevole.
Il corpo non era solo ciò che portava in giro.
Era il suo linguaggio. Il suo biglietto da visita.
La chiave e la serratura.
Si stese sul letto, non per fuggire, ma per prepararsi.
Il respiro lento. Gli occhi socchiusi.
Un piccolo riposo, il silenzio prima dello spettacolo.
La notte l’attendeva.
Quando si svegliò, il pomeriggio era già inoltrato.
La luce era più morbida, dorata. Avvolgeva la stanza con un silenzio complice.
Leda si stiracchiò lentamente, sentendo ogni fibra del corpo rispondere con docilità e prontezza. Nessuna fatica. Nessun disagio.
Solo attesa.
Sapeva bene cosa l’avrebbe attesa tra poche ore.
E per questo, decise di prepararsi.
Cominciò da sé stessa.
Un bagno lungo. Caldo. Quasi cerimoniale.
L’acqua le accarezzava la pelle mentre si immergeva lentamente, i muscoli si scioglievano, la mente si placava. Non c’era più tensione, solo concentrazione.
Ogni gesto era misurato. Ogni movimento aveva un significato.
Non era vanità. Era lucidità.
Terminato il bagno, si occupò della pelle. Ogni centimetro fu passato al setaccio. Eliminò con pazienza chirurgica ogni imperfezione, ogni pelo superfluo, ogni dettaglio che potesse turbare la linea perfetta che stava disegnando su sé stessa.
Poi venne la crema.
Una base idratante profumata e leggera, arricchita con micro-particelle brillanti che, una volta assorbite, lasciarono sul suo corpo una lucentezza setosa e costante.
Ogni passaggio era una carezza. Ogni carezza, una dichiarazione.
Poi lo specchio.
Era il momento del volto.
La mascherina avrebbe coperto parte del viso, sì, ma non l’anima che stava disegnando. E quella si leggeva nei dettagli.
Cominciò dalle labbra.
Rosso amaranto, scuro, lucido, pieno.
Un colore che sembrava uscito da un frutto proibito.
Contorno leggermente più scuro, marrone profondo, per dare volume, per ingannare l’occhio e attrarre il desiderio.
Ogni passata era lenta. Precisa. Studiata.
Poi le guance, scolpite da un fard sapientemente sfumato, a dare risalto agli zigomi, al taglio deciso del viso, all’eleganza innata che ora sapeva rivendicare senza esitazioni.
Infine, gli occhi.
L’immancabile eyeliner, nero come inchiostro, lungo e sottile, allungato verso le tempie, ad amplificare lo sguardo, a renderlo misterioso, selvatico, impossibile da ignorare.
Lo completò con un ombretto sfumato, toni caldi e opachi, perfetto per dare profondità, per far risaltare la luce irregolare dei suoi occhi.
I capelli raccolti in una coda alta.
Tirati, forti, femminili.
Un tocco di cera lucida li rese compatti, luminosi, quasi liquidi. Nessuna ciocca fuori posto. Nessuna esitazione.
Era arrivato il momento più importante.
L’intimo. L’unica cosa che le era concessa.
Leda si mosse con calma, in un silenzio quasi cerimoniale, mentre apriva i cassetti con gesti misurati, le dita che accarezzavano i tessuti come se stesse scegliendo parole da pronunciare con il corpo.
La scelta per le gambe fu rapida. Naturale. Istantanea.
Un paio di autoregenti da 10 denari, leggerissime, quasi invisibili, ma terminate da un bordo in pizzo alto, importante, che diceva tutto quello che le labbra tacevano.
Le fece scivolare dolcemente sulle cosce, con attenzione, con rispetto.
Si assicurò che aderissero alla perfezione, che non si arricciassero, che non scendessero.
Ogni piega, ogni centimetro, era sotto controllo.
Poi venne lo slip.
Ma non era davvero uno slip.
Un perizoma in raso nero elasticizzato, sottile come un soffio, ma modellato in modo da seguire ogni curva, da disegnare il pube con precisione chirurgica, come farebbe un artista con la sua tela.
Guardandosi allo specchio già in quell’istante, Leda vide un corpo che non apparteneva più alla quotidianità.
Era qualcosa di astratto e violento, dolce e perfetto insieme.
Mancava solo il reggiseno.
Fu incerta, per un istante.
Ma poi lo trovò.
Un corpetto. Coordinato. In raso e seta.
Lucido, teso, pensato per comprimere e sollevare.
Alzava il suo seno piccolo con una grazia artificiale, lo modellava in una curva che non era mai stata sua, ma che ora le apparteneva con orgoglio.
Lo indossò lentamente, chiudendolo sul retro, sentendo la stretta diventare forma, la costrizione diventare potere.
Si mise di fronte allo specchio a figura intera, nella camera, in piedi, in silenzio.
E si guardò.
Il riflesso non era solo sensuale.
Era magnetico.
Era la sintesi perfetta tra l’istinto animale e la coscienza più raffinata della seduzione.
Era pronta.
Pronta a far perdere la testa.
Pronta a diventare quell’anello invisibile tra la donna di strada e la femmina assoluta.
Ma solo fuori sembrava pronta.
Restava mezz’ora.
Il tempo di un pensiero. Di un cedimento.
Le gambe tremavano.
L’approssimarsi dell’orario non le dava euforia, ma un senso di vuoto improvviso.
Le certezze si assottigliavano.
Le sicurezze di poche ore prima si sfilacciavano come seta tesa sotto le unghie.
Ritornò in cucina.
Aprì l’antina.
Il gin. Il suo coraggio liquido.
Versò una dose abbondante, la bevve tutta d’un sorso.
Bruciava. Ma era ciò che cercava.
Un fuoco dentro. Per domare quello fuori.
Indossò un vestito estivo lungo, morbido, leggero, che cadeva addosso come una cortina temporanea, una bugia momentanea.
Prese la mascherina, la ripose in borsa.
E uscì.
Ogni passo era meno sicuro del precedente.
Le mani tese, il respiro trattenuto.
Il cuore le batteva nel petto come se volesse fuggire prima di lei.
Ma le gambe…
le gambe andavano da sole.
E non si sarebbero fermate.
Perché ormai il destino era in marcia.
Arrivò al parchetto.
La stessa calma irreale della sera prima. Nessun rumore. Nessun passante.
Il cancello era chiuso. Di nuovo.
Ma stavolta non ci fu esitazione.
Con una disinvoltura sorprendente, quasi elegante, Leda lo scavalcò.
Le dita afferrarono le sbarre, i tacchi toccarono appena il ferro, il corpo fluido come un’ombra.
Era dentro.
Dentro il perimetro. Dentro la parte.
Mentre avanzava lungo il vialetto, le mani salirono ai fianchi.
Afferrarono l’orlo del vestito estivo, lo tirarono su, oltre la testa, lo lasciarono scivolare via.
Un gesto netto, silenzioso.
Ora era come richiesto: in intimo, calze, e tacchi alti.
Il rumore sottile dei suoi passi sul ghiaietto si univa al fruscio leggero delle calze sulle cosce, come un sussurro nella notte.
Avanzava. Ma qualcosa non tornava.
La panchina non si vedeva più.
Solo una presenza scura, imprecisa, tesa come una vela nel vento.
Quando fu più vicina, ne comprese la natura: una palizzata di tessuto nero, alto e rigido, come una cortina da teatro, tesa a delimitare uno spazio.
E proprio di fronte a lei, un’apertura perfetta.
Quasi un invito.
Non parlò. Non pensò.
Allungò la mano, spostò il telo e varcò la soglia.
Dentro era come un altro mondo.
Luci bianche, dirette, poste in alto come fari da set fotografico, illuminavano a giorno la panchina.
Ogni dettaglio, ogni ombra, era cancellato dalla potenza della luce.
Attorno, il resto era penombra.
Gli alberi erano solo sagome.
Ma lì… nascoste nell’ombra, Leda sentiva la presenza.
Occhi. Silenzi trattenuti. Respiro condiviso.
Non era sola. Non lo sarebbe mai più stata.
Si voltò di scatto, un gesto quasi protettivo, e mise la mascherina sul volto.
I nastri si strinsero dietro la nuca, il pizzo aderì alla pelle.
Una volta giratasi di nuovo, vide ciò che l’attendeva.
Accanto alla panchina, una struttura metallica era stata montata.
Vecchia, ruvida, un’altalena da giardino, ma priva del seggiolino.
Al suo posto, due catene penzolanti, e due bracciali in pelle nera, lucida, perfettamente allacciabili.
Quella visione la colpì come un fulmine.
Il sangue le si gelò nelle vene.
Le mani si irrigidirono ai lati del corpo.
Il cuore accelerò improvvisamente, come se volesse fuggire prima di lei.
Eppure, il passo successivo fu in avanti.
Non poteva resistere. Non voleva più tornare indietro.
Ogni parte di lei, pur tremando, la spingeva a toccare quel confine.
Si avvicinò.
Le luci alle sue spalle, il buio davanti.
Il suo corpo al centro.
La femmina e la donna, la maschera e la carne.
E ancora una volta, nessuna voce. Solo sguardi.
La voce.
Quella stessa voce, familiare e distante, tornò a farsi sentire, netta, irrefutabile, tagliando il silenzio come una lama.
«Portati all’interno della struttura.»
Leda non rispose.
Si mosse. Obbedì.
Un passo, poi un altro, entrò sotto l’arco metallico dell’altalena, tra le catene che pendevano immobili. Le luci puntate su di lei la rendevano cieca, annullando tutto ciò che stava fuori dal cerchio.
Era nel cuore del palco, dentro il riflettore.
Fu allora che comprese davvero la scena.
Non era più un gioco.
Era un rito. Un’esibizione. Una consacrazione.
Il silenzio che seguì fu lungo.
Un tempo dilatato, che sembrava sciogliersi lentamente sulla pelle.
Le luci le colpivano il volto, le spalle, il seno. Leda non vedeva nulla, solo ombre indistinte oltre il bagliore.
Poi la voce parlò di nuovo.
Questa volta pubblica, teatrale, per il pubblico che non vedeva ma sapeva presente.
«Eccola, signori e signore...»
Una fitta, nel petto.
"Donne?"
La domanda le attraversò la mente come una scheggia. Non era preparata.
Non del tutto. Non così.
«Ora cominciamo la nostra serata.
Prima di tutto: chi avrà l’onore di legarla?
Al miglior offerente, il privilegio della prima costrizione.»
Una sequenza di voci basse, quasi sussurri, si rincorsero per qualche istante nell’ombra.
Mormorii, numeri, offerte.
E poi, tutto tacque.
Un’ombra si avvicinò.
Dal buio entrò nel cerchio di luce, camminando piano, sicura. Indossava un passamontagna nero, il volto invisibile, anonimo e definitivo.
In mano, due catene leggere, da cui pendevano bracciali di pelle lucida.
Leda non si mosse.
L’uomo cominciò dalle mani.
Le prese con gesti lenti, quasi rispettosi, e le chiuse delicatamente nei bracciali già fissati all’altalena.
Poi, con un gesto fluido, tirò dolcemente le catene, portandole sopra la testa.
Il metallo emise un suono sottile, freddo, che riempì l’aria come un respiro trattenuto.
Mentre verificava che ogni chiusura fosse ben salda, le dita si fermarono sulla pelle.
Accarezzarono prima le braccia, risalendo e scendendo con calma.
Sfiorarono l’interno delle ascelle, poi tracciarono linee invisibili sul seno, con una lentezza che sembrava studio.
Scese ancora.
Il ventre. Il pube.
Un respiro rapido sfuggì dalle labbra dell’uomo.
Poi un sussurro sarcastico, quasi divertito:
«Ehi… questa è già bagnata.»
Leda chiuse gli occhi.
Le dita le sfiorarono le cosce, poi scesero lungo i ginocchi, le gambe tese, fino ai polpacci.
Due nuovi bracciali di pelle furono fissati alle caviglie, che vennero poi allargate lentamente, tirate fino al limite della sua flessibilità, fino a renderla esposta, nuda, divisa.
La struttura metallica ora la teneva ferma, aperta, mostrata.
E lei era il centro della scena.
Il metallo era freddo.
La pelle, tesa.
Le braccia alzate, le gambe divaricate. Immobile. Prigioniera.
Il respiro corto, affannoso, che cercava di non trasformarsi in panico.
Leda era sola. Più che nuda.
Era esposta. Esposta davvero.
Non più dietro a un filtro, non più con un volto nascosto sullo schermo.
Ora era lì, legata, nel cuore di un’installazione umana e brutale, davanti a sconosciuti che pagavano per guardare.
Il silenzio era quasi peggiore delle parole.
Nessuno parlava.
Nessuno si muoveva.
Ma lei sentiva gli occhi. Le attese. Il desiderio.
E solo allora capì davvero:
non era desiderata, era a disposizione.
E il pubblico non l’aveva scelta per ammirarla.
L’aveva acquistata per consumarla.
Un brivido le percorse la schiena, partì lento dalla nuca e le attraversò la colonna vertebrale.
Il terrore cominciò a prenderla. Per davvero.
Un tremolio leggero cominciò dalle mani, quasi invisibile, poi si propagò ai polsi, agli avambracci. Le cosce tese la sostenevano, ma anche lì la tensione si trasformava in una vibrazione instabile.
I muscoli non rispondevano più con fermezza.
Erano paura.
Eppure, sotto quel gelo che le si stava infilando nel petto, c’era un altro fuoco.
Sordo. Grave. Inconfessabile.
Una sensazione che non voleva ascoltare.
Ma che saliva.
Silenziosa. Inevitabile.
Il corpo, immobilizzato, diventava ipersensibile.
Ogni centimetro della pelle si tendeva come se aspettasse qualcosa.
Ogni respiro entrava più a fondo.
Ogni sguardo invisibile sembrava toccarla.
Le mani tremavano. Ma il ventre pulsava.
Non voleva. Non lo accettava.
Eppure, lo sentiva.
Un’eccitazione profonda, avvolgente, che saliva piano come una marea.
La sua mente la respingeva.
Il corpo, invece, la reclamava.
Era una femmina esposta. Sola. In un cerchio di luce.
Legata. Vulnerabile. Desiderata.
Comprata.
E il cuore, quel traditore silenzioso, batteva con un ritmo che parlava una lingua più antica della paura.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
Nessun nome. Nessun volto. Solo un testo essenziale.
Poche righe. Un comando. E un link.
Questa sera. Stesso posto. Stessa ora.
Niente abiti. Solo intimo e calze. Scegli tu quali, ma se non saranno di mio gusto potresti pentirtene.
Procurati una mascherina. Questa volta lo spettacolo sarà dal vivo.
Il link che trovi allegato mostra le tue foto di ieri sera, con il volto nascosto.
Se non obbedisci, manderò le stesse foto, ma con il volto scoperto.
Il cuore di Leda sembrò fermarsi.
Tutto dentro di lei si strinse in un unico nodo: rabbia, paura, vergogna.
Ma anche qualcos’altro. Qualcosa che aveva già sentito.
Quel calore sordo e profondo.
Quello che aveva conosciuto solo poche ore prima. Quello che ancora le pulsava tra le gambe.
Aprì il link.
La pagina si caricò in un istante. Lo schermo illuminò la stanza come un riflettore.
Le fotografie apparvero in sequenza. Una dopo l’altra. Nitide. Perfette.
Ogni immagine era un colpo allo stomaco.
Lei, nell’ombra. Sulla panchina.
Le gambe aperte. La schiena dritta. I seni nudi. Il piacere inciso sul volto, anche se nascosto.
Non c’erano titoli volgari, né slogan. Solo le immagini. Pure. Crude. Devastanti.
E Leda… si scoprì accesa.
Ancora.
Lo sguardo fisso su sé stessa, su quella donna che non riconosceva più ma che la ipnotizzava, come se la vedesse per la prima volta davvero.
Non sembrava una vittima.
Non sembrava costretta.
Sembrava viva. Accesa. Irraggiungibile e potentemente femmina.
Ogni scatto riattivava un frammento della sera precedente.
E ogni scatto la faceva fremere.
Alla fine della pagina, una sola riga.
Un indirizzo e-mail.
E sotto, una nota asciutta:
Per assistere allo spettacolo dal vivo: domani ore 22:00. Posti limitati.
Chiuse il dispositivo, ma le immagini le erano rimaste incise sulla pelle. Non serviva lo schermo per rivederle.
Si alzò lentamente dal letto, nuda, ancora umida, lo sguardo perso nel buio.
Le mani tremavano.
Non di paura.
O forse sì, ma non solo.
La consapevolezza la travolse come uno schiaffo e una carezza insieme:
non poteva più tornare indietro.
Quell’uomo aveva il potere di distruggerla. Ma anche quello, subdolo e feroce, di mostrarle una parte di sé che nessuno aveva mai toccato.
Nemmeno lei.
E ora…
non sapeva più se voleva essere salvata.
Rimise l’iPad sul comodino e si infilò di nuovo tra le lenzuola, ancora tiepide del proprio corpo.
Non pianse. Non tremò.
Chiuse semplicemente gli occhi.
Sapeva perfettamente che, al risveglio, la giornata non sarebbe stata come le altre.
Sarebbe stata intensa. Carica. Eccitante in modo irrazionale.
Quello che la stupiva non era più la paura. Non era nemmeno l’assenza di rabbia.
Ciò che la lasciava davvero spiazzata era non sentire alcuna urgenza di denunciare.
Né di fuggire. Né di parlarne con qualcuno.
Non si trattava di panico o di terrore di essere scoperta.
No.
Era un’altra cosa.
Una volontà.
Forse inconsapevole, forse profonda.
Di lasciarsi portare via.
Di esplorare.
Di mettersi a nudo nel senso più radicale.
"Forse sto solo cominciando a conoscermi per la prima volta," pensò, appena un soffio, mentre il sonno la riprendeva con dolcezza.
E si addormentò serena.
Quando si svegliò, il sole era già alto e la luce filtrava pigramente dalle tende leggere.
Nessuna tensione nei muscoli. Nessun senso di colpa.
Solo la consapevolezza morbida di essere intera. E donna.
Completamente.
In modo nuovo. Più profondo. Più vero.
Fece colazione con calma, un caffè forte, qualche biscotto.
La radio accesa in sottofondo parlava di una mattina come tante.
Ma per lei non era così.
Entrò in bagno, i piedi nudi sul pavimento freddo. Il vapore sullo specchio era ancora lì, un vago ricordo della notte. Si fermò. Si guardò.
Si piacque. Con uno sguardo diverso.
Prese di nuovo l’iPad.
Aprì il sito.
La pagina si caricò come se stesse aprendo un confessionale segreto.
Le sue fotografie erano ancora lì, identiche, perfette.
E sotto di esse… il counter delle visualizzazioni.
Oltre diecimila.
In meno di una notte.
Per un istante sentì lo stomaco chiudersi.
Poi, lentamente… fremette.
Non per paura.
Ma per eccitazione.
Tutte quelle persone… l’avevano scelta.
Tra milioni di volti e di corpi, avevano cliccato su di lei.
Per guardarla. Per cercare piacere.
Per masturbarsi su di lei.
L’idea le fece correre un brivido lungo la schiena.
Non come vittima.
Non più.
Cominciò a pensarli come il Suo pubblico.
Uomini, donne, sconosciuti davanti a uno schermo, a fissare il suo corpo come se fosse arte proibita.
Leda, regina muta di un palcoscenico segreto.
E ne provò un orgoglio nuovo. Distorto. Incredibilmente femminile.
Chiuse gli occhi un istante.
Sorrise.
Stava nascendo qualcosa.
E non aveva alcuna intenzione di fermarlo.
Si vestì con movimenti rapidi ma curati, quasi danzati.
Leggings lucidi, aderenti come una seconda pelle, che riflettevano la luce del mattino a ogni passo.
Sopra, una maglietta nera con aperture strategiche sulle spalle e sulla schiena, che lasciava intravedere la morbidezza della pelle, il disegno fluido delle scapole.
Ai piedi, semplici scarpe da tennis.
Comoda. Leggera. Ma seducente come non mai.
Uscì di casa senza pensarci troppo. Il sole scaldava il selciato, il traffico le scorreva accanto distratto, ignaro della tempesta che si muoveva con lei.
La destinazione era chiara.
Una boutique elegante, specializzata in lingerie e accessori raffinati, conosciuta per le sue mascherine in pizzo, sensuali e misteriose.
Coprivano solo il necessario, lasciando trapelare gli zigomi, la curva delle sopracciglia, la promessa di un’identità senza mai rivelarla del tutto.
Entrò.
Scelse con cura.
Una mascherina nera, finemente ricamata, con sottili nastri che si annodavano dietro la nuca.
Semplice. Essenziale. Perfetta.
Fu solo uscendo, mentre camminava tra le vetrine, che si rese conto di non aver indossato alcun intimo.
Né tanga. Né reggiseno.
Nulla.
Come se fosse normale.
Come se il suo corpo non avesse più bisogno di veli.
Tirò i leggings più in alto sui fianchi, facendo aderire il tessuto fino a fargli disegnare ogni piega, ogni forma, ogni respiro.
Sotto, era completamente nuda.
E il mondo se ne accorse.
Molti sguardi si posarono su di lei.
Alcuni velati. Altri diretti.
Fischi. Commenti. Inviti indecenti.
Epiteti crudi, sporchi, eppure stranamente eccitanti.
Nessuno di quei tentativi la toccò davvero.
Ma tutti la attraversarono.
Era come un’attrice su un palco che non si vede, ma che tutti guardano.
E in quello sguardo collettivo c’era potere, desiderio, fame.
E lei… si nutriva.
Quando rientrò a casa, non disse nulla.
Non pensò.
Tolse tutto.
La maglietta cadde sul pavimento, seguita dai leggings. Le scarpe rimasero vicino alla porta.
Rimase nuda. In piedi. Bellissima. E consapevole.
Il corpo non era solo ciò che portava in giro.
Era il suo linguaggio. Il suo biglietto da visita.
La chiave e la serratura.
Si stese sul letto, non per fuggire, ma per prepararsi.
Il respiro lento. Gli occhi socchiusi.
Un piccolo riposo, il silenzio prima dello spettacolo.
La notte l’attendeva.
Quando si svegliò, il pomeriggio era già inoltrato.
La luce era più morbida, dorata. Avvolgeva la stanza con un silenzio complice.
Leda si stiracchiò lentamente, sentendo ogni fibra del corpo rispondere con docilità e prontezza. Nessuna fatica. Nessun disagio.
Solo attesa.
Sapeva bene cosa l’avrebbe attesa tra poche ore.
E per questo, decise di prepararsi.
Cominciò da sé stessa.
Un bagno lungo. Caldo. Quasi cerimoniale.
L’acqua le accarezzava la pelle mentre si immergeva lentamente, i muscoli si scioglievano, la mente si placava. Non c’era più tensione, solo concentrazione.
Ogni gesto era misurato. Ogni movimento aveva un significato.
Non era vanità. Era lucidità.
Terminato il bagno, si occupò della pelle. Ogni centimetro fu passato al setaccio. Eliminò con pazienza chirurgica ogni imperfezione, ogni pelo superfluo, ogni dettaglio che potesse turbare la linea perfetta che stava disegnando su sé stessa.
Poi venne la crema.
Una base idratante profumata e leggera, arricchita con micro-particelle brillanti che, una volta assorbite, lasciarono sul suo corpo una lucentezza setosa e costante.
Ogni passaggio era una carezza. Ogni carezza, una dichiarazione.
Poi lo specchio.
Era il momento del volto.
La mascherina avrebbe coperto parte del viso, sì, ma non l’anima che stava disegnando. E quella si leggeva nei dettagli.
Cominciò dalle labbra.
Rosso amaranto, scuro, lucido, pieno.
Un colore che sembrava uscito da un frutto proibito.
Contorno leggermente più scuro, marrone profondo, per dare volume, per ingannare l’occhio e attrarre il desiderio.
Ogni passata era lenta. Precisa. Studiata.
Poi le guance, scolpite da un fard sapientemente sfumato, a dare risalto agli zigomi, al taglio deciso del viso, all’eleganza innata che ora sapeva rivendicare senza esitazioni.
Infine, gli occhi.
L’immancabile eyeliner, nero come inchiostro, lungo e sottile, allungato verso le tempie, ad amplificare lo sguardo, a renderlo misterioso, selvatico, impossibile da ignorare.
Lo completò con un ombretto sfumato, toni caldi e opachi, perfetto per dare profondità, per far risaltare la luce irregolare dei suoi occhi.
I capelli raccolti in una coda alta.
Tirati, forti, femminili.
Un tocco di cera lucida li rese compatti, luminosi, quasi liquidi. Nessuna ciocca fuori posto. Nessuna esitazione.
Era arrivato il momento più importante.
L’intimo. L’unica cosa che le era concessa.
Leda si mosse con calma, in un silenzio quasi cerimoniale, mentre apriva i cassetti con gesti misurati, le dita che accarezzavano i tessuti come se stesse scegliendo parole da pronunciare con il corpo.
La scelta per le gambe fu rapida. Naturale. Istantanea.
Un paio di autoregenti da 10 denari, leggerissime, quasi invisibili, ma terminate da un bordo in pizzo alto, importante, che diceva tutto quello che le labbra tacevano.
Le fece scivolare dolcemente sulle cosce, con attenzione, con rispetto.
Si assicurò che aderissero alla perfezione, che non si arricciassero, che non scendessero.
Ogni piega, ogni centimetro, era sotto controllo.
Poi venne lo slip.
Ma non era davvero uno slip.
Un perizoma in raso nero elasticizzato, sottile come un soffio, ma modellato in modo da seguire ogni curva, da disegnare il pube con precisione chirurgica, come farebbe un artista con la sua tela.
Guardandosi allo specchio già in quell’istante, Leda vide un corpo che non apparteneva più alla quotidianità.
Era qualcosa di astratto e violento, dolce e perfetto insieme.
Mancava solo il reggiseno.
Fu incerta, per un istante.
Ma poi lo trovò.
Un corpetto. Coordinato. In raso e seta.
Lucido, teso, pensato per comprimere e sollevare.
Alzava il suo seno piccolo con una grazia artificiale, lo modellava in una curva che non era mai stata sua, ma che ora le apparteneva con orgoglio.
Lo indossò lentamente, chiudendolo sul retro, sentendo la stretta diventare forma, la costrizione diventare potere.
Si mise di fronte allo specchio a figura intera, nella camera, in piedi, in silenzio.
E si guardò.
Il riflesso non era solo sensuale.
Era magnetico.
Era la sintesi perfetta tra l’istinto animale e la coscienza più raffinata della seduzione.
Era pronta.
Pronta a far perdere la testa.
Pronta a diventare quell’anello invisibile tra la donna di strada e la femmina assoluta.
Ma solo fuori sembrava pronta.
Restava mezz’ora.
Il tempo di un pensiero. Di un cedimento.
Le gambe tremavano.
L’approssimarsi dell’orario non le dava euforia, ma un senso di vuoto improvviso.
Le certezze si assottigliavano.
Le sicurezze di poche ore prima si sfilacciavano come seta tesa sotto le unghie.
Ritornò in cucina.
Aprì l’antina.
Il gin. Il suo coraggio liquido.
Versò una dose abbondante, la bevve tutta d’un sorso.
Bruciava. Ma era ciò che cercava.
Un fuoco dentro. Per domare quello fuori.
Indossò un vestito estivo lungo, morbido, leggero, che cadeva addosso come una cortina temporanea, una bugia momentanea.
Prese la mascherina, la ripose in borsa.
E uscì.
Ogni passo era meno sicuro del precedente.
Le mani tese, il respiro trattenuto.
Il cuore le batteva nel petto come se volesse fuggire prima di lei.
Ma le gambe…
le gambe andavano da sole.
E non si sarebbero fermate.
Perché ormai il destino era in marcia.
Arrivò al parchetto.
La stessa calma irreale della sera prima. Nessun rumore. Nessun passante.
Il cancello era chiuso. Di nuovo.
Ma stavolta non ci fu esitazione.
Con una disinvoltura sorprendente, quasi elegante, Leda lo scavalcò.
Le dita afferrarono le sbarre, i tacchi toccarono appena il ferro, il corpo fluido come un’ombra.
Era dentro.
Dentro il perimetro. Dentro la parte.
Mentre avanzava lungo il vialetto, le mani salirono ai fianchi.
Afferrarono l’orlo del vestito estivo, lo tirarono su, oltre la testa, lo lasciarono scivolare via.
Un gesto netto, silenzioso.
Ora era come richiesto: in intimo, calze, e tacchi alti.
Il rumore sottile dei suoi passi sul ghiaietto si univa al fruscio leggero delle calze sulle cosce, come un sussurro nella notte.
Avanzava. Ma qualcosa non tornava.
La panchina non si vedeva più.
Solo una presenza scura, imprecisa, tesa come una vela nel vento.
Quando fu più vicina, ne comprese la natura: una palizzata di tessuto nero, alto e rigido, come una cortina da teatro, tesa a delimitare uno spazio.
E proprio di fronte a lei, un’apertura perfetta.
Quasi un invito.
Non parlò. Non pensò.
Allungò la mano, spostò il telo e varcò la soglia.
Dentro era come un altro mondo.
Luci bianche, dirette, poste in alto come fari da set fotografico, illuminavano a giorno la panchina.
Ogni dettaglio, ogni ombra, era cancellato dalla potenza della luce.
Attorno, il resto era penombra.
Gli alberi erano solo sagome.
Ma lì… nascoste nell’ombra, Leda sentiva la presenza.
Occhi. Silenzi trattenuti. Respiro condiviso.
Non era sola. Non lo sarebbe mai più stata.
Si voltò di scatto, un gesto quasi protettivo, e mise la mascherina sul volto.
I nastri si strinsero dietro la nuca, il pizzo aderì alla pelle.
Una volta giratasi di nuovo, vide ciò che l’attendeva.
Accanto alla panchina, una struttura metallica era stata montata.
Vecchia, ruvida, un’altalena da giardino, ma priva del seggiolino.
Al suo posto, due catene penzolanti, e due bracciali in pelle nera, lucida, perfettamente allacciabili.
Quella visione la colpì come un fulmine.
Il sangue le si gelò nelle vene.
Le mani si irrigidirono ai lati del corpo.
Il cuore accelerò improvvisamente, come se volesse fuggire prima di lei.
Eppure, il passo successivo fu in avanti.
Non poteva resistere. Non voleva più tornare indietro.
Ogni parte di lei, pur tremando, la spingeva a toccare quel confine.
Si avvicinò.
Le luci alle sue spalle, il buio davanti.
Il suo corpo al centro.
La femmina e la donna, la maschera e la carne.
E ancora una volta, nessuna voce. Solo sguardi.
La voce.
Quella stessa voce, familiare e distante, tornò a farsi sentire, netta, irrefutabile, tagliando il silenzio come una lama.
«Portati all’interno della struttura.»
Leda non rispose.
Si mosse. Obbedì.
Un passo, poi un altro, entrò sotto l’arco metallico dell’altalena, tra le catene che pendevano immobili. Le luci puntate su di lei la rendevano cieca, annullando tutto ciò che stava fuori dal cerchio.
Era nel cuore del palco, dentro il riflettore.
Fu allora che comprese davvero la scena.
Non era più un gioco.
Era un rito. Un’esibizione. Una consacrazione.
Il silenzio che seguì fu lungo.
Un tempo dilatato, che sembrava sciogliersi lentamente sulla pelle.
Le luci le colpivano il volto, le spalle, il seno. Leda non vedeva nulla, solo ombre indistinte oltre il bagliore.
Poi la voce parlò di nuovo.
Questa volta pubblica, teatrale, per il pubblico che non vedeva ma sapeva presente.
«Eccola, signori e signore...»
Una fitta, nel petto.
"Donne?"
La domanda le attraversò la mente come una scheggia. Non era preparata.
Non del tutto. Non così.
«Ora cominciamo la nostra serata.
Prima di tutto: chi avrà l’onore di legarla?
Al miglior offerente, il privilegio della prima costrizione.»
Una sequenza di voci basse, quasi sussurri, si rincorsero per qualche istante nell’ombra.
Mormorii, numeri, offerte.
E poi, tutto tacque.
Un’ombra si avvicinò.
Dal buio entrò nel cerchio di luce, camminando piano, sicura. Indossava un passamontagna nero, il volto invisibile, anonimo e definitivo.
In mano, due catene leggere, da cui pendevano bracciali di pelle lucida.
Leda non si mosse.
L’uomo cominciò dalle mani.
Le prese con gesti lenti, quasi rispettosi, e le chiuse delicatamente nei bracciali già fissati all’altalena.
Poi, con un gesto fluido, tirò dolcemente le catene, portandole sopra la testa.
Il metallo emise un suono sottile, freddo, che riempì l’aria come un respiro trattenuto.
Mentre verificava che ogni chiusura fosse ben salda, le dita si fermarono sulla pelle.
Accarezzarono prima le braccia, risalendo e scendendo con calma.
Sfiorarono l’interno delle ascelle, poi tracciarono linee invisibili sul seno, con una lentezza che sembrava studio.
Scese ancora.
Il ventre. Il pube.
Un respiro rapido sfuggì dalle labbra dell’uomo.
Poi un sussurro sarcastico, quasi divertito:
«Ehi… questa è già bagnata.»
Leda chiuse gli occhi.
Le dita le sfiorarono le cosce, poi scesero lungo i ginocchi, le gambe tese, fino ai polpacci.
Due nuovi bracciali di pelle furono fissati alle caviglie, che vennero poi allargate lentamente, tirate fino al limite della sua flessibilità, fino a renderla esposta, nuda, divisa.
La struttura metallica ora la teneva ferma, aperta, mostrata.
E lei era il centro della scena.
Il metallo era freddo.
La pelle, tesa.
Le braccia alzate, le gambe divaricate. Immobile. Prigioniera.
Il respiro corto, affannoso, che cercava di non trasformarsi in panico.
Leda era sola. Più che nuda.
Era esposta. Esposta davvero.
Non più dietro a un filtro, non più con un volto nascosto sullo schermo.
Ora era lì, legata, nel cuore di un’installazione umana e brutale, davanti a sconosciuti che pagavano per guardare.
Il silenzio era quasi peggiore delle parole.
Nessuno parlava.
Nessuno si muoveva.
Ma lei sentiva gli occhi. Le attese. Il desiderio.
E solo allora capì davvero:
non era desiderata, era a disposizione.
E il pubblico non l’aveva scelta per ammirarla.
L’aveva acquistata per consumarla.
Un brivido le percorse la schiena, partì lento dalla nuca e le attraversò la colonna vertebrale.
Il terrore cominciò a prenderla. Per davvero.
Un tremolio leggero cominciò dalle mani, quasi invisibile, poi si propagò ai polsi, agli avambracci. Le cosce tese la sostenevano, ma anche lì la tensione si trasformava in una vibrazione instabile.
I muscoli non rispondevano più con fermezza.
Erano paura.
Eppure, sotto quel gelo che le si stava infilando nel petto, c’era un altro fuoco.
Sordo. Grave. Inconfessabile.
Una sensazione che non voleva ascoltare.
Ma che saliva.
Silenziosa. Inevitabile.
Il corpo, immobilizzato, diventava ipersensibile.
Ogni centimetro della pelle si tendeva come se aspettasse qualcosa.
Ogni respiro entrava più a fondo.
Ogni sguardo invisibile sembrava toccarla.
Le mani tremavano. Ma il ventre pulsava.
Non voleva. Non lo accettava.
Eppure, lo sentiva.
Un’eccitazione profonda, avvolgente, che saliva piano come una marea.
La sua mente la respingeva.
Il corpo, invece, la reclamava.
Era una femmina esposta. Sola. In un cerchio di luce.
Legata. Vulnerabile. Desiderata.
Comprata.
E il cuore, quel traditore silenzioso, batteva con un ritmo che parlava una lingua più antica della paura.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
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Commenti dei lettori al racconto erotico