Runner 8

di
genere
etero

Il locale era immerso in una penombra rossa e ambrata, tagliata da lame di luce concentrata che accarezzavano i bordi del palco. L’aria odorava di legno lucido, profumo dolciastro, alcol forte e desiderio sospeso. La musica pulsava lenta, un basso rotondo e costante che sembrava sincronizzare i battiti di tutti i presenti. I tavoli erano disposti a semicerchio intorno alla pedana principale, leggermente rialzata, dominata al centro da un palo in acciaio satinato che saliva dritto verso il soffitto come una colonna sacra, lucida e fredda, in attesa di essere profanata.

Finalmente toccava a lei.

Quando le tende nere si scostarono, un brusio muto attraversò la sala. Il suo ingresso fu lento, teatrale, misurato. Indossava una parrucca corvina, tagliata a caschetto con frangia netta sugli occhi, che le incorniciava il viso come una maschera da femme fatale. Il trucco era pensato per ipnotizzare: ombre scure sugli occhi allungati da un eyeliner affilato, guance scolpite, rossetto lucido color ciliegia profonda, da mordere.

La camicetta in seta rossa ondeggiava morbida su di lei, lunga appena oltre la linea inferiore dei glutei, ma trasparente quanto bastava per rivelare, con ogni passo, i riflessi metallici del completino oro che brillava sotto. Il reggiseno a balconcino, dalle coppe tonde e ben sostenute, lasciava scoperta la parte superiore del seno, con le spalline che partivano dai fianchi delle coppe per abbracciarle il petto in modo insolito e provocante. Il perizoma sgambatissimo, teso sopra le anche e invisibile tra i glutei, faceva parte del gioco perverso. Le autoreggenti nere, velatissime, finivano in una balza larga di pizzo disegnato, elegante e peccaminoso. Sulle gambe, un paio di stivali bianchi in pelle lucida, alti oltre il ginocchio, con tacco sottile come uno stiletto.

Salì sul palco come una regina che prende possesso del suo trono. Ogni passo, ogni movimento, era pensato per sedurre. Il doppio passo lento, con fianchi che ondeggiavano al ritmo della musica, faceva tintinnare i sogni di chi la osservava. Un giro su sé stessa, una posa, un inchino accennato, ed eccola arrivare al palo. Lo sfiorò con una mano, poi vi si appoggiò con tutto il corpo, come si fa con un amante che si conosce bene.

La sala non era ancora piena, ma i presenti – una quindicina, distribuiti ai tavolini più vicini – la guardavano in silenzio. Alcuni con il bicchiere sospeso a mezz’aria, altri appoggiati allo schienale, occhi bassi e mandibole serrate, come a voler trattenere l’impulso di gridare. Qualcuno si sporse in avanti, cercando un dettaglio in più, un momento in cui lei – magari – li avrebbe guardati, notati, scelti. Ma lei non guardava nessuno in particolare, eppure sembrava accarezzare tutti con quello sguardo sotto la frangia, lento e rovente.

Avvolse il palo con un braccio, poi ci girò intorno una volta, lentamente, facendo ondeggiare i fianchi e piegando un ginocchio all’indietro. La camicia seguiva i movimenti come una seconda pelle, lasciando intuire e sognare. Quando cominciò a salire sul palo, gambe allungate, schiena inarcata, il riflesso dell’oro contro l’acciaio fece sussultare qualcuno tra il pubblico. E quando si lasciò scivolare, a gambe aperte e testa in giù, con i capelli della parrucca che sfioravano il pavimento e la bocca socchiusa, il respiro collettivo si fermò.

La sera prima, l’atmosfera nel suo appartamento era quieta e calda. Le luci basse, il profumo leggero di vaniglia che si diffondeva dalla candela accesa vicino alla finestra. Sedeva accoccolata sul divano, avvolta in una coperta di lana leggera, con un bicchiere di cognac francese che faceva brillare l’ambra contro il cristallo. Le dita sfioravano distrattamente le pagine ingiallite di un vecchio romanzo di Stephen King, Il Re Scorpione, mentre nella stanza regnava un silenzio perfetto, rotto solo dallo scricchiolio occasionale del legno sotto il riscaldamento.

Fu allora che il tablet sul tavolino vibrò una sola volta. Un suono secco, come uno schiocco di dita. Non si mosse subito. Sollevò lentamente il bicchiere, lo svuotò con un sorso lungo e poi richiuse il libro con un gesto assorto, posandolo sul petto come se volesse trattenerne l’atmosfera per un istante ancora. Si alzò con calma, si sistemò la vestaglia e solo allora si avvicinò allo schermo illuminato.

Sul display non c’era un nome. Solo “Mittente anonimo”. Un messaggio breve, diretto. Come un colpo di lama affilata:

Il nostro contratto si concluderà con una tua esibizione presso un locale di lap dance di un amico. Non hai bisogno di portare nulla, se non quello che hai anche ora sotto tutti i vestiti. A differenza delle altre spogliarelliste, se durante un privé l’avventore di turno ti dovesse chiedere delle prestazioni extra oltre al ballo, tu sarai obbligata a soddisfarle. Dopo che avrai fatto questo, cancellerò tutte le tue foto dal mio archivio e dai siti internet, insieme ai filmati. Se sarai nuovamente interessata ad altre proposte, ne parleremo in futuro. Fammi sapere: domani o dopodomani sera.

Le dita rimasero sospese per un attimo sulla tastiera. Il battito le era salito in gola, ma il viso non tradiva nulla. Nessuna sorpresa. Nessuna esitazione.

Domani sera. Confermo.
Premette “Invia”. Il tablet emise un suono lieve, poi il silenzio riprese possesso della stanza.

Si accarezzò lentamente la coscia, dove sotto al pigiama di cotone morbido sapeva già cosa indossava. Come richiesto. Come previsto.

Ora era lì.
Sul palco.
Nessun ripensamento. Nessuna paura.
Ogni passo la portava più vicina alla fine… o all’inizio.

Il palco sembrava pulsare sotto di lei, al ritmo morbido e insinuante della musica. Leda era appoggiata con la schiena al palo, la colonna fredda d’acciaio che ora le accarezzava la pelle nuda cosparsa di brillantini. Ogni punto di luce si rifrangeva sulla sua figura, facendo scintillare le spalle, il collo, la curva della schiena come un corpo celeste in rotazione lenta. Scivolò con grazia verso il basso, piegandosi sui talloni, senza mai staccarsi del tutto dal palo, come se quel contatto metallico le desse equilibrio e forza.

Le mani si mossero con lentezza studiata verso i bottoni della camicetta in seta rossa. Uno alla volta, senza fretta, li slacciava, svelando centimetro dopo centimetro il contrasto abbagliante del suo corpo dorato. Non c’era più traccia del bikini: solo il completino prezioso, un’armatura erotica color oro che faceva da cornice al suo corpo esposto. Il reggiseno a balconcino lasciava liberi i seni alti e lucenti, mentre il perizoma sgambatissimo sembrava scolpito addosso, come se fosse nato insieme a lei.

Si chinò in avanti con un movimento dolce, accompagnato da un’oscillazione precisa del bacino. Il seno si protese verso la platea, sospinto dalla posizione e messo in risalto dal gioco delle luci. Il brusio del pubblico aumentò come un fremito collettivo. Qualcuno si schiarì la gola, altri rimasero immobili, rapiti. Lei non cercava sguardi: li dominava tutti insieme.

La camicetta scivolava ora sulle spalle, tenuta solo dalle braccia tese lateralmente, come ali pronte a spiegarsi. Fece un passo oltre il palo, poi, con un movimento rapido e teatrale, ruotò su sé stessa, dando le spalle alla sala. Le sue mani accompagnarono lentamente il tessuto sulla schiena, facendo emergere il perizoma dorato che si infilava tra i glutei pieni, disegnandone i contorni come un filo d’oro.

Quando la seta raggiunse i gomiti, le mani la lasciarono andare. La camicia cadde leggera sul palco, ammassandosi ai suoi piedi come una reliquia sacrificata. Ora era completamente svestita per loro, offerta viva sotto la luce morbida, immobile per un istante come una statua sacra.

Divaricò i piedi. Le gambe si tesero con eleganza felina. In quella posizione di apertura, si chinò in avanti fino a poggiare le mani sul palo, trattenendosi piegata in un arco sensuale e perfetto, come un invito e una sfida allo stesso tempo. Il pubblico davanti a lei non sapeva se respirare o trattenere il fiato.

All’improvviso tutte le luci si spensero. La sala piombò in un buio denso, attraversato solo da un mormorio soffocato e da qualche respiro trattenuto. Poi, come un raggio sacro, uno spot solitario cadde su di lei, centrando esattamente la parte inferiore del suo corpo, ancora piegato in avanti, esposto, offerto.

La pelle liscia e dorata delle cosce rifletteva la luce come seta viva. Il perizoma, una sottile striscia di tessuto metallico, brillava come un gioiello sacro incastonato tra le sue gambe perfette, scolpite, tornite come colonne d’alabastro. Non si mosse subito. Rimase in quella posizione per lunghi, infiniti secondi. Il pubblico non osava muoversi. Nessun bicchiere si sollevava, nessun cameriere si avventurava in mezzo ai tavoli. Solo silenzio e sguardi avidi, sospesi.

Poi, lentamente, ricominciò a muovere i fianchi. Un’oscillazione lenta, ipnotica, quasi impercettibile all’inizio, che diveniva via via più ampia, più carnale. La mano sinistra scese verso la base del palo, dita che cercavano ancoraggio sul metallo freddo. La destra si alzò fino a metà altezza, ben salda. Fece forza sulle braccia, sollevò il busto con un gesto fluido e sicuro, e poi si issò, senza fretta, senza strappi, portando il suo corpo in posizione verticale.

La gamba destra si distese verso l’alto, seguendo la linea del palo. La sinistra si aprì verso l’esterno, ampia, sicura, quasi in spaccata. Il suo corpo ora era capovolto, sospeso nel vuoto, con la testa rivolta verso il basso e i capelli scuri della parrucca che sfioravano il palco come un sipario capovolto. Il torso vibrava leggermente per lo sforzo controllato, il ventre era teso, scolpito, e l’incavo tra le cosce attirava la luce in un gioco di riflessi perfetti.

Ogni centimetro di lei era esposto. Non c’era più pudore, solo padronanza.
Non più esitazione, solo dominio.

Gli uomini seduti davanti a lei, anche quelli più navigati, sembravano disarmati. Il gestore, in piedi dietro al bancone, aveva smesso da tempo di servire. Gli occhi fissi su di lei, come tutti gli altri. Qualcuno stringeva il bordo del tavolo, altri tenevano le mani strette in grembo come per trattenere un impulso più forte di loro.

Lei era lì. Prima ancora che ballerina, prima ancora che donna, era divenuta desiderio puro.

Con la stessa grazia con cui si era sollevata in verticale sul palo, Leda cominciò a ridiscendere. I muscoli tesi si rilassavano gradualmente, ma ogni movimento era ancora calcolato, carico di intenzione. I piedi toccarono nuovamente il palco, le ginocchia leggermente piegate, come in un atterraggio sensuale. Fece una serie di movimenti circolari, carezze lente sul palo, un gioco di rotazioni del bacino che accendevano il desiderio e lo tenevano sospeso, come una corda tesa pronta a spezzarsi.

Poi, il gesto che mandò un brivido sottile nell’intera sala: portò il palo tra i seni, premendolo al centro, e con le mani lo strinse come se fosse un corpo, come se lo stesse abbracciando, possedendo. Cominciò a muoversi, su e giù, scivolando con lentezza. Le mani seguivano la corsa del palo, mentre la lingua, improvvisa, uscì a sfiorarne la superficie. Leccava in modo lascivo, lento, come a inumidirlo per un uso più profondo. Il gesto era chiaro, volutamente indecente. Il brusio aumentò. I bicchieri erano abbandonati a metà corsa. Le schiene dritte, le bocche socchiuse. E ognuno sentì, come un riflesso incontrollabile, un sussulto nel basso ventre. Una contrazione involontaria. Un’irrigidimento che li rese tutti, improvvisamente, consapevoli di quanto desiderassero possederla.

Lei lo sentiva. Lo sapeva.

Scese dal palco con due passi precisi, decisi, come chi sa esattamente dove andare. Lo spot continuava a seguirla, isolandola dal mondo, rendendola luce viva. Si portò davanti a un uomo di mezza età, in prima fila. Lo osservò per un istante, poi gli voltò le spalle. Le gambe rimasero dritte mentre il busto si piegava in avanti con lentezza, finché il suo corpo non disegnò una curva perfetta. Poi si lasciò andare, con una naturalezza lasciva, sedendosi sul suo grembo.

Lui trattenne il fiato. Sentì subito il suo calore, la pressione viva dei suoi glutei contro l’evidente turgore dei pantaloni. Lei si abbandonò, si lasciò scivolare contro il suo petto, le mani di lei trovarono le sue e, con dolce fermezza, le guidarono. Le portò sul proprio seno, sopra il reggiseno, lasciandole lì, a stringerlo.

Poi si sollevò appena, seduta, voltandosi verso il volto sconcertato dell’uomo. Gli sussurrò con un filo di voce caldo come un sospiro:
— Mi aiuti a toglierlo?

Con il mento indicò il gancio del reggiseno. Le mani tremanti obbedirono, le dita goffe che cercavano l’aggancio tra le scapole. Scattò. Lei sorrise, riprese le sue mani e le fece scivolare lentamente sui suoi fianchi, su e giù, salendo fino a condurle nuovamente sui seni, questa volta nudi. Quando sentì il tocco diretto sulla pelle, la pressione sotto di lei aumentò. Contrazioni evidenti, quasi disperate.

Lei lo guardò con tenerezza teatrale, un sorriso che era insieme complicità e superiorità.
— Ti faccio un bell’effetto, tesoro...
Fece una breve pausa, accarezzandogli il volto.
— È stato un piacere compiacerti.

Si alzò con grazia felina. Sotto di lei, la macchia scura sui pantaloni parlava da sola. L'uomo restò immobile, quasi svuotato.

Con passo elegante e lento, Leda tornò verso il palco. I seni liberi ora si muovevano con lei, e ogni sguardo era su di loro. I maschi in sala erano in fermento, agitati come segugi che hanno perso la preda. Banconote venivano estratte di fretta, sventolate in aria, richiami ansiosi tentavano di attirarla. Ma lei non si fermò.

La sua prima esibizione era finita.

Raccolse la camicia e il reggiseno da terra con un gesto teatrale e si ritirò dietro le quinte. Il sipario di velluto nero si richiuse lentamente dietro di lei, e con esso si chiuse anche il fiato della platea. Solo lo sconforto restava sospeso nell’aria, come un odore persistente di desiderio non appagato.

Dietro le quinte, la porta si richiuse con un suono sordo. Il brusio del pubblico restò fuori, attutito, come se appartenesse a un altro mondo. Leda camminò lentamente lungo il corridoio, ancora scossa dentro ma con il corpo che trasudava sicurezza. Il sudore si mescolava ai brillantini, rendendo la sua pelle lucida, pulsante. Il palco era alle spalle, ma la sensazione del potere che aveva avuto su quegli uomini era ancora lì, palpabile sulla pelle.

Entrò nello spogliatoio e si lasciò cadere sulla panca, le gambe divaricate, il petto che ancora si alzava e abbassava piano. Si tolse gli stivali bianchi, poi le autoreggenti nere. La camicetta rossa era già abbandonata a terra. Fece scorrere la mano sulla coscia, poi si alzò e si diresse verso la doccia.

L’acqua calda le colpì la schiena come una carezza liquida. Chiuse gli occhi e restò lì, sotto il getto, lasciando che la tensione scivolasse via insieme al sudore. Si lavò con lentezza, passando le mani su ogni curva del suo corpo come se volesse riscoprirlo da capo. Ogni sfioramento era un richiamo, ogni carezza un piccolo risveglio. Il ricordo dell’uomo di prima, delle sue mani tremanti, delle contrazioni sotto di lei... tutto era ancora presente, vivido, e il calore che sentiva dentro non era solo dovuto alla doccia.

Quando uscì, si tamponò con un telo bianco e si fermò davanti allo specchio grande. Il suo volto era struccato, i capelli biondo miele ancora umidi le cadevano lisci sulle spalle. Si guardò a lungo, nuda, vera. Poi prese il bikini dorato: lo indossò lentamente, come se si stesse vestendo per una cerimonia. Le coppe del reggiseno le sollevarono i seni con precisione geometrica. Il perizoma, sottile e sgambatissimo, le si infilò tra i glutei scolpiti come una lama preziosa. Poi fece scivolare su per le gambe le autoreggenti bianche a rete, fino a far aderire perfettamente le balze elastiche sopra le cosce.

Ai piedi calzò un paio di sandali rossi, listini sottili che si intrecciavano sulle dita e si chiudevano alla caviglia. Il tacco vertiginoso le slanciava la figura, aggiungendo una linea feroce e sensuale a ogni passo.

Si avvicinò al tavolo da trucco e cominciò a lavorare sul volto. Fondotinta satinato, cipria dorata sulle guance, contouring decisi. Le sopracciglia arcuate come ali tese. L’eyeliner nero allungato all’estremo. Ciglia finte, folte e curve. Ombre rosso sangue sfumate sugli occhi. E infine le labbra, che divennero due rubini vivi, laccate di un rosso profondo e lucido.

Poi si fermò.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si guardò negli occhi, nello specchio. Restò lì. A lungo.

I suoi occhi brillavano.
No, non solo per il trucco o la luce fredda della lampada.
Brillavano di qualcosa che prima non c’era.
Una scintilla nuova.
Desiderio, potere, consapevolezza.
Ma anche eccitazione. Quella che non si finge. Quella che si sente vibrare sotto la pelle.
Leda non si era mai sentita così viva. Così sua.

Si alzò, si osservò per intero, con lentezza. Bikini dorato. Calze a rete. Tacchi rossi.
Ma mancava qualcosa.
Si voltò verso l’attaccapanni.
Prese il velo rosso trasparente. Lo appoggiò sulle spalle nude, lasciandolo ricadere fino appena sotto le natiche. Non copriva nulla, ma creava l’illusione. Fluttuava intorno a lei, come una promessa mai mantenuta.

Ora era pronta.

Aprì la porta del camerino.
Luci basse, musica lontana.
Un uomo l’attendeva. Ma lei non sapeva ancora quale.
Né cosa le avrebbe chiesto.
Né cosa le sarebbe accaduto dopo.

Quando Leda aprì la porta del camerino, il corridoio era immerso in una penombra dorata. Il rumore ovattato della sala le arrivava come un battito distante, un cuore vivo dietro un muro sottile. Ma non era sola.

Davanti a lei, appoggiata al muro con una calma studiata, c’era una donna. Alta, elegantissima, con un abito nero attillato in tessuto lucido che rifletteva appena le luci basse. Portava i capelli raccolti in uno chignon perfetto, il trucco preciso, gli occhi contornati di nero e rossetto bordeaux. Le sue unghie erano lunghe, laccate di un rosso cupo, e tra le dita sottili stringeva una cartellina rigida, come fosse lì per un colloquio privato. Ma nulla in quella donna aveva il sapore dell’ufficiale.

— Finalmente, disse con voce bassa, calda, quasi sussurrata. Ti stavo aspettando, Leda.

Leda non rispose. Sentiva il cuore battere troppo forte, la bocca un po’ secca. La donna fece un passo avanti, la osservò con uno sguardo lento, compiaciuto. Partì dagli occhi, poi le labbra, il collo, le spalle nude sotto il velo rosso trasparente, che fluttuava leggermente con il movimento del suo respiro. Le calze a rete, il bikini dorato, i tacchi rossi. La analizzò come un’opera d’arte che già conosceva, ma che aveva appena deciso di acquistare.

— Ora ascoltami bene, disse con un tono morbido, ma fermo. Le passò accanto e si posizionò alle sue spalle, il viso così vicino che Leda ne sentiva il profumo: ambra e muschio, persistente e femminile. La tua presenza in sala non sarà passiva. Non sei una decorazione. Il tuo compito è quello di agganciare i clienti. Intrattenerli. Sedurli. Portarli a offrirti da bere — o a portarti via con loro.

Una mano delicata le sfiorò la spalla destra. Leda sussultò appena, sorpresa dalla leggerezza del tocco. La mano discese lungo il braccio, accarezzando la pelle nuda con lentezza.

— Quando sarete soli nel privé... — continuò, mentre l’altra mano le scivolava sul fianco sinistro, accompagnando la curva del corpo — dovrai danzare per loro. Spogliarti. Strusciarti su di loro. Come se fossi il loro sogno diventato realtà.

Le dita salirono lungo il ventre, appena sotto la stoffa tesa del reggiseno dorato. Leda trattenne il respiro, un brivido netto le attraversò la schiena. Le labbra della donna erano ormai vicinissime all’orecchio, il tono sempre più intimo.

— Sta a te decidere se vuoi farti toccare. Sta a te decidere quanto vuoi spingerti oltre. Fuori da ogni privé ci sarà un uomo della sicurezza. Non entrerà, non interverrà, se non lo chiamerai tu. Questo significa che sei libera di fare tutto ciò che desideri. E libera anche di non fare nulla.

Le mani ora erano scivolate sulle natiche, sfiorando la stoffa sottilissima del perizoma, poi risalirono lentamente lungo la schiena, sistemando con gesti lenti il velo trasparente.

— Scegli bene, Leda. Osserva con attenzione. Trova quelli appetibili, belli da guardare... e con il portafoglio giusto. Lascia perdere chi ti guarda con troppa insistenza o troppo nervosismo. Prediligi quelli calmi, silenziosi, i più pericolosi. Sono loro quelli che pagano meglio... e che ricordano tutto.

La donna si portò davanti a lei, le prese il mento tra due dita, delicatamente, e le sollevò il volto. Gli occhi di Leda erano lucidi, emozionati. I capelli ancora umidi si appiccicavano alle tempie, rendendola ancora più sensuale, più reale. Il trucco, perfetto, accentuava la profondità del suo sguardo. Quel riflesso brillante che ora, anche lei, cominciava a vedere.

— Hai tutto ciò che serve. Non dimenticarlo mai.

Poi la lasciò andare, un ultimo tocco lieve sulle clavicole, e aprì per lei la porta che dava sulla sala.

— In bocca al lupo, regina.

Leda fece un respiro profondo.
Il cuore le martellava nel petto, un misto di eccitazione e adrenalina. Il velo le scivolava sulle cosce a ogni passo. I sandali le davano una postura perfetta, tesa, felina.

Quando varcò la soglia del locale, non aveva la minima idea di cosa l’avrebbe aspettata.

E forse, proprio per questo, non si era mai sentita così pronta.

L’ingresso nel locale era discreto, un’apertura nascosta da una tenda nera spessa che la inghiottì per un attimo e poi la lasciò emergere. Nessuno la notò subito. Tutti gli occhi erano puntati sulla ragazza già in scena: una bellezza esibita, esagerata, quasi completamente nuda, che si avvolgeva intorno al palo centrale come se vi stesse facendo l’amore. Il suo corpo si piegava, si inarcava, si apriva in movimenti studiati, e gli uomini la guardavano con occhi vuoti, come ipnotizzati.

Leda camminò piano. I tacchi rossi producevano un suono sottile sul pavimento in legno, coperto qua e là da tappeti rossi consumati. Le luci erano basse, calde, soffuse. Il fumo si sollevava pigro dai sigari, dai respiri trattenuti, dai desideri sospesi.

Sotto il velo rosso trasparente, il suo corpo brillava in modo diverso. Era meno vistosa della ragazza sul palco, ma infinitamente più magnetica. Non si muoveva per tutti. Si muoveva per scegliere.

I suoi occhi scrutavano.

Uomini soli, uomini in coppia, uomini in piccoli gruppi. Di tutte le età, di tutte le fisionomie. Alcuni sorseggiavano whisky d’annata, altri birre di poco valore. Alcuni ridevano sguaiati, altri fissavano il palco con l’espressione di chi ha dimenticato il mondo. Leda scivolava tra loro come un’ombra rossa, lasciando dietro di sé un’impronta silenziosa, ma precisa. Il suo sguardo passava su ciascuno, rapido e tagliente. Aveva già eliminato molti dei presenti. Troppo anziani. Troppo sfatti. Troppo evidenti, sbavanti, consumati.

Poi lo vide.
Era seduto da solo, leggermente defilato. Avrà avuto trent’anni, forse qualcosa meno. I capelli castano chiaro erano lunghi, ordinati, lucidi. Spalle larghe sotto una camicia scura, sbottonata appena, senza ostentazione. Un bicchiere tra le mani, che non portava spesso alla bocca. Osservava, ma non in modo morboso. Il suo sguardo era mobile, attento, educato.

Si incrociarono per un istante.

Lei lo guardò.
E lui, appena i loro occhi si toccarono, lo abbassò. Non per paura, non per vergogna. Ma per un pudore raro, quasi disarmante. E fu proprio quello a colpirla. Leda sentì una stretta allo stomaco, un rimbalzo secco al cuore. Quello.

Fece un secondo giro, lento. Lo studiò ancora. Aveva le mani grandi, belle. Portava un orologio importante ma non vistoso. Le scarpe pulite. Le gambe accavallate in modo naturale. Era il tipo giusto. Appetibile. E soprattutto… sembrava non avere idea di quanto la desiderasse.

Quando decise di buttarsi, fu come un tuffo.
Ogni passo la portava più vicino a lui e più dentro sé stessa.

Il pensiero si fece strada, chiaro, caldo, irresistibile:
Mi sto proponendo. Mi sto offrendo. Come oggetto di piacere. Come donna. Come dono.

E il cuore le batteva così forte che sentiva il velo muoversi con il ritmo del suo petto.

Ora era di fronte a lui.
Ora doveva parlare.

Si fermò davanti a lui senza dire nulla, per un istante che parve eterno. Lo fissò con dolce intensità, ma senza invadenza. Il cuore batteva forte, ma i suoi gesti restavano perfettamente controllati, come se ogni muscolo del corpo rispondesse a una musica solo sua.

Poi si abbassò. Lentamente.
La mano destra si posò sul tavolino basso davanti a lui, le dita ben distese, le unghie laccate di rosso che sfiorarono il legno lucido con la grazia di una piuma. Il braccio si tese con naturalezza, facendole inarcare leggermente la schiena, mentre il seno — spinto dal bikini dorato — si offriva alla vista di Alessio in tutta la sua rotondità compatta. Il velo rosso, trasparente e leggerissimo, fluttuò con il movimento e si posò sul tavolo come un sipario che cala tra due atti.

In quella posa raccolta, il viso a pochi centimetri dal suo, gli sussurrò:
— Posso farti compagnia?

La voce era un filo caldo, privo di esitazione.
Alessio la guardò. Non si sorprese, ma non era indifferente. Nei suoi occhi c’era attenzione, fame trattenuta, e una punta di stupore sincero per l’eleganza disarmante con cui lei si era avvicinata.

Senza parlare, le fece un piccolo cenno con la testa e con la mano indicò il divanetto a fianco.
Leda prese il velo con due dita, lo sollevò e lo fece scivolare lentamente lungo la seduta, come se stesse preparando un altare su cui adagiarsi. Lo stese con gesti misurati, lasciandolo aderire alla pelle del divano, poi si voltò e con uno spostamento fluido delle anche — un piccolo cerchio appena accennato — si sedette.

Le gambe si accavallarono in una mossa decisa, il piede della gamba sollevata oscillava lentamente. La schiena dritta, fiera, il busto leggermente in avanti come a sottolineare le curve e a cercare il contatto visivo. Si era sistemata a stretto contatto con lui, senza invaderlo, ma lasciando che le loro cosce si sfiorassero appena.

Il braccio vicino ad Alessio si sollevò con calma e si posò sullo schienale del divanetto, aperto, quasi protettivo. La mano, a quel punto, trovò il suo collo.
Non lo afferrò. Lo sfiorò.
Con il dorso prima, poi con le dita che si muovevano lente, esplorando la pelle con tocchi morbidi, circolari, tra la nuca e la base del collo.

Leda si avvicinò.
Portò le labbra a pochi millimetri dal suo orecchio, e lì gli sussurrò:
— Piacere, sono Leda.

La sua voce aveva un tono basso, rotondo, con una sfumatura lasciva ma non volgare. Era la voce di chi sa di essere desiderata. Ma anche di chi desidera.

Alessio si voltò appena, quel tanto che bastava per incontrare i suoi occhi da vicino.
— Piacere mio. Sono Alessio.

Il suo sguardo si era fatto più profondo, più vigile, ma restava composto. Sembrava osservare ogni dettaglio di lei con attenzione silenziosa: la lucentezza della pelle, le calze a rete che abbracciavano le cosce, il tacco rosso lucido che ora non smetteva di dondolare appena.

Leda sorrise.
Non per cortesia.
Ma per piacere. Per gusto.

Si era seduta accanto a lui.
Ma dentro, sapeva bene, stava per sedersi su qualcosa di più pericoloso:
il desiderio di lasciarsi andare.

— Posso offrirti qualcosa da bere?
La voce di Alessio era ferma, gentile, quasi seria. Come se quella proposta fosse un gesto di riguardo più che un’apertura scontata.

— Grazie, rispose lei con un sorriso che sapeva di miele e di decisione, molto gentile… prendo quello che bevi tu.

Un cenno al cameriere, rapido, e pochi istanti dopo una bottiglia di bollicine fu appoggiata sul tavolo, accompagnata da due flute di cristallo leggerissimo. Il vetro brillava sotto le luci calde del locale, mentre la bottiglia ancora imperlata di freddo faceva salire una leggera bruma bianca verso il collo. Un piccolo lusso inatteso.

Leda non gli diede il tempo di versare.

— Lascia fare a me, disse.
Si sollevò leggermente dal divano con un movimento misurato, appena il necessario per riorientare il corpo e — con la naturalezza di chi sa di appartenere a quel momento — si sistemò in braccio a lui.

Lo fece senza esitazioni, ma senza peso. Come se fosse stata disegnata per quel posto preciso, sul suo grembo. Le cosce gli avvolgevano una gamba, il suo fianco si adagiava contro il petto di lui. La rete bianca delle calze faceva attrito contro i suoi pantaloni, e il velo rosso le scivolava giù dai fianchi, raccogliendosi in pieghe lascive tra le sue ginocchia, lo lasciò cadere esponendo tutto il suo corpo alla sua preda, comuncandogli che era a disposizione.

Con movimenti lenti e precisi, prese i due bicchieri e li riempì. Il vino frizzante saliva spumoso e ghiacciato, lasciando sulle pareti del bicchiere una nebbiolina effimera. Porse uno dei due a lui, poi si girò a guardarlo, molto vicina, e senza dire nulla fece tintinnare leggermente i due calici

Un brindisi silenzioso.
Nessuna parola. Solo gli occhi. E in quelli di Leda c’era tutto: eccitazione, paura, promessa.

Bevvero d’un fiato.

Il liquido le scese in gola come una scossa elettrica, e lei trattenne il respiro per un attimo.
Coraggio liquido, pensò.
Ne aveva bisogno. Perché quello che stava per fare non era previsto. Non era richiesto.
Ma lo voleva.

Sentì la mano di Alessio tornare a riposo. Leda la intercettò al volo con la sua. Le dita si sfiorarono, si intrecciarono brevemente, poi lei la guidò con lentezza.
La condusse sul suo ventre, nudo, liscio.
E lì, tra il bordo teso del perizoma dorato e quello del reggiseno, posò la mano di lui.
Proprio lì. In quel triangolo di pelle viva, che ardeva appena sotto la superficie.

Quando la mano di Alessio toccò il suo ventre, Leda sentì una piccola scossa partire dalla pelle e propagarsi all’interno, come un’onda sottile che andava a infrangersi tra le cosce. Era una carezza morbida, calda, leggera, ma non incerta. Non c’era esitazione, solo rispetto e desiderio trattenuto. Quel palmo, poggiato appena sopra la linea dorata del perizoma, sembrava capace di ascoltare il battito del suo cuore.

Poi, la seconda mano.
Si posò sulla sua schiena nuda, proprio dove il velo rosso finiva di coprirla. Le dita scorsero con dolcezza lungo la colonna vertebrale, disegnandone la curva con movimenti lenti, attenti. Ogni centimetro accarezzato lasciava una scia di brividi.
— Sei molto bella, mormorò lui, con voce più bassa, roca di emozione.
— Sensuale... erotica. Raramente ho incontrato ragazze come te in un locale come questo.

Le parole le entrarono dentro come lame d’oro, taglienti ma dolci. Non erano un complimento banale. Erano ammirazione vera. Le labbra di Leda si piegarono in un sorriso appena accennato, mentre sentiva il suo corpo rispondere, attivarsi, tendersi.

La mano sulla schiena cominciò ad allargare il raggio d’azione. Dal centro si spostò verso i fianchi, poi giù, fino all’orlo sottile del perizoma dorato. Un tocco che non si fermava, ma non si imponeva.
Nel frattempo, la mano che le aveva sfiorato il ventre si era spostata verso il bordo alto delle autoreggenti bianche. Le dita risalivano piano lungo l’interno coscia, seguendo la trama della rete con un’attenzione quasi devota.

Leda sentiva tutto.
Ogni punto del suo corpo vibrava.
Sotto di lei, il corpo di Alessio si muoveva. Non in modo palese, ma costante. Una pressione crescente, evidente, che si manifestava tra i suoi glutei e la coscia di lui.
Un’irrequietezza dura, pulsante.
E più lui si muoveva, più le sue mani prendevano sicurezza, esplorando, cercando, accarezzando con una lentezza che la faceva trattenere il fiato.

Leda passò un braccio attorno alle sue spalle, stringendolo a sé. L’altro lo sollevò fino al viso di lui, e lì cominciò a carezzarlo con la punta delle dita. Gli sfiorò la guancia, la mascella, il contorno delle labbra. Le sue dita erano delicate, ma decise. Era un gesto intimo, silenzioso. Un invito.

Gli occhi di Alessio erano fissi nei suoi. C’erano dentro mille domande, ma anche una certezza crescente.
Leda si mosse appena, e quel piccolo scivolamento delle sue anche sopra il suo grembo fu come accendere una miccia.

La mano sulla schiena ora premeva sul bordo del perizoma, quasi a volerlo spostare. Quella sulla coscia si era avvicinata così tanto al centro del suo piacere che Leda trattenne un respiro, poi lo lasciò uscire lentamente, come un sospiro che non voleva confessarsi.

Leda sentiva le mani di Alessio diventare sempre più sicure, sempre più presenti. Una le risaliva la coscia interna, sfiorando appena l’orlo del perizoma dorato, con la punta delle dita che si avvicinava pericolosamente alla sua intimità. L’altra, quella sulla schiena, ormai carezzava il bordo inferiore, la zona dove il velo rosso non arrivava più. E lei… tremava. Non visibilmente, ma dentro.
Un fremito, sottile, profondo, bellissimo.

Era troppo.
Era il momento perfetto.
Ed era il momento di fermarlo.

Senza dire nulla, Leda afferrò entrambe le sue mani.
Non con forza, ma con una dolce fermezza che non lasciava spazio a esitazioni.

Con la sinistra — quella che minacciava di raggiungerla là dove tutto cominciava — la guidò piano via dal ventre, allontanandola con garbo, come se stesse chiudendo una porta che lei stessa aveva socchiuso. Le dita si intrecciarono appena prima di lasciarla andare, lasciando una scia elettrica tra i polpastrelli.

Ma la destra, quella sulla sua schiena, la prese e la condusse in basso, con decisione.

Scese lungo la curva della vita, oltre il bordo dorato del perizoma, e poi la posò pienamente, saldamente, sul proprio gluteo. Un gesto intimo, audace, eppure elegantissimo. Come una regina che concede una carezza solo quando lo desidera lei.

Alessio reagì con un sussulto. Il palmo si chiuse involontariamente, stringendo quella carne tonica, perfetta. Le sue dita si adagiarono con lentezza, poi si tesero, affondarono appena, incapaci di restare immobili. La stava toccando davvero. E lei lo permetteva. Anzi, lo guidava.

Si mosse su di lui, con lentezza, cambiando posizione per appoggiarsi con più peso sul suo bacino. Il contatto era pieno ora, reale. I muscoli del ventre di lui si contrassero, e sotto di lei la durezza si fece evidente, palpitante.

Leda si avvicinò al suo viso. Lentamente.
Ogni centimetro che riduceva la distanza tra le loro bocche era un centimetro in cui il tempo sembrava dilatarsi.

Quando fu vicinissima al suo orecchio, parlò.

— Più di così… qua non è possibile fare, tesoro…

La voce era un respiro caldo, vellutato, profondamente femminile. Ogni parola era stata scelta, pesata, intonata con precisione chirurgica per insinuarsi dentro di lui come un desiderio che non avrebbe più potuto ignorare.

Ma non finì lì.

Dopo aver pronunciato l’ultima sillaba, la punta della sua lingua si fece avanti. Leggera, umida, precisa. Scivolò lungo il profilo dell’orecchio, disegnandone il bordo interno con un tocco che sembrava una promessa sussurrata in una lingua senza parole.
Lo leccò.
Non in modo volgare. Ma in modo disarmante. Intimo. Come se volesse marchiarlo, senza lasciare traccia.

Il respiro di lui cambiò subito. Lo sentì sotto di sé. Più corto. Più profondo. Più trattenuto.
Le mani gli tremavano appena.
Ma ancora cercava di controllarsi. Invano.

Leda, ancora stretta a lui, gli sussurrò quelle parole all’orecchio e poi lasciò che la sua lingua ne tracciasse il profilo con precisione e voluttà. Lo fece con la grazia di chi vuole scolpire nella memoria altrui un segno indelebile, ma senza clamore. Solo pelle, umidità, e desiderio.

Poi si staccò appena.
Lo guardò.
I loro occhi si incontrarono a un respiro di distanza, e fu in quell’istante che poggiò le sue labbra sulle sue.
Non fu un bacio carnale, non ancora. Fu casto. Lento. A fil di labbra. Un tocco delicatissimo, appena percettibile, ma carico di significato. Un invito. Un assaggio. Una miccia accesa con un fiammifero silenzioso.

Il ragazzo non resistette.

Tenendo ancora una mano salda sul suo gluteo — dita che ormai affondavano con naturalezza in quella carne tesa e viva — sollevò l’altra verso la nuca di lei. Le passò le dita tra i capelli ancora umidi, li accarezzò, li raccolse, poi la guidò con dolce decisione verso di sé.
Le labbra si unirono di nuovo.
Ma stavolta fu diverso.

Il bacio divenne pieno. Profondo. Morbido e poi più affamato. Le loro bocche si cercavano, si adattavano, si aprivano l’una all’altra con crescente abbandono. Le mani di lei erano scivolate sulle spalle di lui, aggrappandosi con una pressione che parlava di bisogno e controllo. Il suo corpo si piegava leggermente in avanti, seguendo il bacio, come se volesse sciogliersi dentro di lui.

Quando si staccarono, Leda aveva il respiro affannato, ma non turbato.
Lo guardò.
E sorrise.

Un sorriso di piacere, sì.
Ma anche di consapevolezza.
Lei sapeva cosa aveva appena fatto nascere in lui.

E lui lo confermò, senza esitare.

Con estrema lentezza, come per non spezzare l’incanto, Alessio la sollevò appena e la depose con delicatezza sul divanetto, il velo rosso che scivolava come un sipario liquido sulla pelle lucida. Le sistemò le gambe, lasciandola lì, bella, sfatta, sorridente e tremante.

Poi si alzò.

I suoi occhi erano cambiati.
Non erano più attenti.
Erano fiammeggianti.
Aveva lo sguardo di chi ha già deciso.

— Non muovere un muscolo.
La voce era ferma, bassa, quasi roca.
Fece una pausa.
Un battito.

— Vado a comprarti. Per tutta la sera.

Quelle parole le si piantarono dentro come una coltellata di seta.
“Vado a comprarti.”
La mente fece resistenza per un solo istante. Ma il corpo reagì subito.

Un’ondata calda, liquida, la invase in basso. Il perizoma ne fu immediato testimone.
Il piacere non era solo nell’essere desiderata.
Era nell’essere presa.
Scelta. Voluta.
E acquistata, come un oggetto prezioso. Ma con l’onore di essere considerata degna di un prezzo.

Rimase lì, sul divanetto, immobile come le aveva chiesto.
Ma dentro non c’era quiete. C’era un vortice.

Seguì con gli occhi Alessio che si allontanava. Il suo passo era deciso, elegante. Lo vide raggiungere il banco del gestore, un uomo sulla cinquantina, giacca scura, sguardo cinico, mani che si muovevano più del necessario. Non riusciva a sentire nulla, ma vedeva tutto. I gesti, le espressioni. Discutono. Animatamente.
Per lunghi minuti.

Lei lì, come una statua viva, come una Venere moderna in mostra. I pensieri le rimbalzavano dentro, scontrandosi con la realtà della frase che ancora le pulsava dentro:
“Vado a comprarti.”

Poi Alessio tirò fuori il portafoglio.
Pagò. Senza batter ciglio.

Tornò verso di lei. Il volto sicuro, rilassato. Un uomo che ha appena concluso un affare importante. Si fermò davanti a lei, le porse la mano.
— Andiamo, Leda.
Lei la prese, alzandosi con grazia.
— Questa sera non avrai altro cliente al di fuori di me.

Cliente.
Ancora una volta.
Un altro colpo nello stomaco.

La parola le si infilò sotto la pelle come un ago rovente.
Cliente.
Era stata acquistata. Scelta, pagata, riservata. Come una bottiglia pregiata. Una pietanza costosa.
Una carne.

Eppure… sentì l’umidità aumentare sotto il perizoma. Una goccia calda.
Il piacere si stava mescolando all’umiliazione. E non riusciva più a distinguere dove finiva l’uno e cominciava l’altra.

Mentre lo seguiva verso la zona dei privé, si voltò verso di lui, con un tono di voce basso, ma tagliente:
— Lo sai che sarò solo io a decidere cosa potrai fare nel privé, vero?

Lui non rallentò il passo. Le lanciò solo uno sguardo da sopra la spalla.
Un sorriso beffardo, spavaldo, calcolato.
— Certo che lo so. Ma conto di farti perdere il controllo.

Quelle parole la scossero più della mano sulla coscia.
Farti perdere il controllo.
Il desiderio le salì come un fuoco, e le bruciò dietro lo sterno.

Raggiunsero la zona dei privé: piccoli cubicoli, ognuno con un divanetto e una tendina di strisce in plastica a fare da porta. Luoghi anonimi, veloci, destinati a gesti rapidi e corpi usati.
Leda si bloccò.

Guardò l’uomo della security, un energumeno con braccia incrociate e sguardo spento.
Lo fissò. Poi sorrise, teatrale, ammiccante.
— Tesoro, ho bisogno di un ambiente più intimo per il mio cliente. Mi ha comprata per tutta la sera.

L’uomo la squadrò dall’alto in basso. Il suo sguardo era diffidente, ma la frase aveva un peso.
Pagata. Per tutta la sera.
Annunciò qualcosa via radio, poi si voltò.
— Seguitemi.

Li condusse in un corridoio laterale, poco illuminato. Aprì una porta più pesante, senza etichetta. Dentro: silenzio, luce ambrata, tappeti.
Un divano ad angolo, in pelle scura, lucida.
Un piccolo angolo bar con ghiaccio, bicchieri e una bottiglia di gin.
Una porta semiaperta lasciava intravedere un bagno con lavandino, specchio, asciugamani piegati.

Leda varcò la soglia per prima. Sentì la porta chiudersi alle sue spalle.
Fece qualche passo.
Tacco dopo tacco.
Il velo rosso le accarezzava le gambe, le calze a rete frusciavano come una seconda pelle.

Si fermò al centro della stanza.

Eccomi in un postribolo, pensò. Mi ha comprata e adesso ha il diritto di usarmi a suo piacimento.
Un brivido le salì lungo la colonna vertebrale.
Non di paura. Di qualcosa che somigliava all’estasi.

Poi si voltò.
Lo guardò.
E un altro pensiero si fece spazio, più forte. Più lucido. Più feroce.
Anzi no. A mio piacimento.

Alessio si avvicinò senza una parola. I suoi passi erano silenziosi, sicuri. La luce ambrata della stanza lo accarezzava mentre le girava lentamente intorno, fino a portarsi alle sue spalle.
Leda sentiva il calore del suo respiro vicino alla pelle nuda. Le mani di lui si posarono con decisione ma con una delicatezza studiata sulla chiusura del reggiseno dorato.

Un clic.

Il gancio si aprì.
Le spalline scivolarono lungo le braccia, come se il tessuto fosse stanco di restarle addosso.
Il reggiseno si allentò, poi cadde sul tappeto, silenzioso e prezioso.
Le mani di Alessio le sfiorarono la schiena. Una carezza lunga, lenta, che la percorse dalla nuca alla base della schiena, passando sulla colonna vertebrale come una nota vibrata su uno spartito erotico.

Leda, senza voltarsi, portò le braccia avanti e incrociò le mani sul petto. Si coprì i seni con un gesto che non era difensivo, ma seduttivo. Il pudore scelto, non imposto.
Il gesto della donna che sa cosa provoca.

Alle sue spalle, la voce di Alessio era bassa e ferma:
— Ora balla per me.

Lui si sedette sul divano, gambe leggermente divaricate, le braccia lungo lo schienale, lo sguardo incollato alla sua figura.

Dal locale principale filtrava la musica. Il ritmo era lento, sensuale, pieno di bassi profondi e linee morbide.
Quanto bastava.

Leda cominciò a muoversi.

Iniziò con un passo lento. Le anche oscillavano in modo naturale, ipnotico. Poi piegò le ginocchia, mantenendo le gambe tese, la schiena inarcata. Il seno, ancora coperto dalle sue mani, si muoveva insieme al respiro, in un ritmo che dialogava con la musica.

Si lasciò andare in uno squat profondo, lento, tenendo i piedi ben piantati, il sedere che si abbassava fino quasi a sfiorare il pavimento. Poi risalì, scivolando lungo una linea invisibile.
Il velo rosso ormai era solo un’ombra sul suo corpo, sfiorava l’aria più che la pelle.

I movimenti si fecero più fluidi, più pieni. Le mani scesero dal petto, si posarono sui fianchi, e le sue curve si mostrarono in tutta la loro sensualità. Girò su sé stessa, inarcò la schiena, lasciò cadere la testa indietro.

Poi lo guardò.
E si avvicinò.

Un passo.
Due.
Tre.

Si mise tra le sue gambe, e lentamente — con una grazia che sembrava fatta di desiderio puro — si sedette su di lui.
Dandogli la schiena.
I suoi glutei nudi si adagiarono sul suo grembo, mentre il velo trasparente si apriva come un sipario dimenticato.

Si mosse.
Piano.
Sensualmente.
Il suo bacino disegnava cerchi lenti contro il pube di lui. Poteva sentirlo.
Duro.
Presente.
Pronto.

Poi prese le mani di Alessio con le sue, le sollevò, e le portò in alto, fino a posarle sui suoi seni.
Non le lasciò subito.
Le fece sentire.
La curva. Il peso. La pelle tesa. Il calore.

Il respiro di Alessio si era fatto più profondo, irregolare. Le sue mani, ormai abbandonate al piacere, accarezzavano i seni di Leda con una lentezza rapita, le dita che seguivano curve, venature, tensioni. I pollici sfioravano i capezzoli, li solleticavano appena, e Leda tremava sotto quel tocco come se fosse attraversata da fili invisibili che le partivano dal petto e le raggiungevano il basso ventre.

Lei continuava a muoversi, a ondeggiare con il bacino, lenta, decisa, sensuale. Sentiva tutto di lui: la durezza sotto il tessuto, la tensione nei polpacci, le mani forti che la stringevano a sé. Ma più ancora, sentiva il momento. Quello stato sospeso, perfetto, in cui l’aria diventa elettrica e il silenzio vale più di ogni parola.

Poi si fermò.
Piano.
Interruppe il movimento con grazia assoluta.
Le sue mani si posarono sulle sue, ancora strette sui suoi seni. Le accarezzò dolcemente, poi le sfilò via. Si voltò appena, abbastanza da incontrare il suo sguardo.

Gli occhi di Alessio erano velati di desiderio, ma anche increduli. Come se non si aspettasse che potesse davvero accadere.
Leda sorrise.

— Non hai ancora capito, vero?
La voce era calda, bassa, quasi roca.
Una voce impastata di piacere e decisione.

Le sue dita scesero lungo il braccio di lui, fino a raggiungerne la mano. La prese e se la portò tra le cosce, sopra il velo del perizoma, dove il calore del corpo batteva più forte. Gliela lasciò lì.
Poi si girò del tutto. Seduta a cavalcioni su di lui. Le mani sui suoi fianchi. Il seno nudo a pochi centimetri dal suo viso. Le labbra vicine, pronte. Gli occhi fissi nei suoi.

— Ora voglio che tu vada oltre.

Le parole non erano una richiesta.
Erano un comando travestito da invito.

— Voglio sentire cosa puoi fare quando non sei più trattenuto. Quando non stai più cercando di controllarti.

Si chinò e lo baciò. Non castamente, stavolta. Le labbra lo cercarono con fame elegante. Le lingue si toccarono, si riconobbero, si cercarono ancora. Il corpo di lei si mosse piano, cercando la linea giusta, il contatto pieno, la sfida diretta.

Poi si staccò appena, ancora una volta.

— Mi hai comprata per tutta la sera… ora fammi sentire quanto vali davvero.

Le parole di Leda erano ancora nell’aria, sospese come fumo dolce.
«Fammi sentire quanto vali davvero.»

Alessio non rispose.
Non ne aveva bisogno.

La guardò per un lungo istante, con gli occhi che sembravano accarezzarla prima ancora delle mani. Poi le passò una mano sui fianchi, sfiorandola con il dorso prima, poi con il palmo pieno, mentre l’altra saliva dietro di lei a stringerle la nuca. Non la guidava.
La teneva.

Con l’altra, quella rimasta libera, cominciò a scendere lungo il ventre. Le dita si posarono sul bordo dorato del perizoma, ma non lo rimosse. Lo sfiorò solo, con lentezza. Poi la accarezzò lì, dove la stoffa era tesa, dove il calore era più vivo.

Il tocco fu lento, misurato, appena insistente. Le dita esplorarono il perizoma da sopra, premendo leggermente, alternando carezze larghe e cerchi stretti, come se volesse disegnare il desiderio sulla pelle.
La sentì.

Umida.
Calda.
Accesa.

Sotto il sottile tessuto dorato, la sua eccitazione era viva, pulsante. Leda trattenne un gemito, il fiato spezzato contro le sue labbra. Il bacino si mosse da solo, come in risposta istintiva a quel tocco così misurato e così efficace. Cercava di non cedere subito, ma ogni secondo le era più difficile restare ferma.

Alessio la baciò di nuovo.
Stavolta con una fame più intensa, profonda.
Le mani continuarono a muoversi. Una le stringeva il fianco, l’altra accarezzava il pube sopra il perizoma con gesti sempre più netti, più insistenti.
Le dita si adattavano alla forma, si incurvavano, le seguivano.
Premettero un poco di più.
E Leda sussultò.

Gli occhi di lei si chiusero per un istante. La schiena si inarcò, il seno si schiacciò contro il petto di lui. Ogni fibra del suo corpo stava rispondendo. La testa cadde all’indietro, i capelli bagnati sfiorarono il petto di Alessio, la bocca socchiusa lasciava passare un respiro incerto, quasi vibrato.

— Così...
La voce di lui era roca, appena un sussurro all’orecchio.
— Così ti piace, Leda?

Lei non rispose.
Le mani gli si aggrapparono alle spalle.
Il corpo parlava per lei.

Alessio affondò leggermente le dita nella piega tra le labbra, ancora sopra il perizoma. Riconobbe con un istinto preciso ogni millimetro in cui il suo tocco la faceva tremare di più. Non aveva fretta. Voleva farla sciogliere centimetro dopo centimetro.
Poi si fermò.
Sollevò appena la testa, la guardò.

— Non ho ancora iniziato.

Le dita si infilarono sotto l’elastico. Solo la punta.

Le dita di Alessio scivolarono sotto il bordo del perizoma con lentezza disarmante. Solo la punta, all’inizio. Come un’esplorazione appena accennata, un avvertimento.
Leda trattenne il fiato, immobile sulle sue ginocchia, ancora a cavalcioni su di lui. Gli occhi chiusi, le labbra semiaperte, la schiena tesa in un arco involontario. Ogni fibra del suo corpo era concentrata lì, su quel gesto.

Poi lui affondò un poco di più.

Il tessuto si sollevò leggermente mentre le dita si insinuavano, calde, sicure, accarezzandola finalmente dove la desiderava. Nessuna esitazione. Solo precisione, ritmo, controllo. La sentì subito: bagnata, pronta, tremante.
Un gemito le sfuggì. Non forte. Appena un filo di voce rotta. Ma bastò a lui per sapere tutto.

Le labbra di Alessio cercarono il suo collo. La baciò sotto l’orecchio, lentamente, affondando il respiro nella pelle calda. Con l’altra mano, quella rimasta sul fianco, la strinse a sé, facendo aderire il bacino al suo, dove la pressione era ormai palese, crescente, dolorosa.

Poi la sollevò con un movimento fluido, deciso.
La fece scivolare dalle sue ginocchia al divano, la distese dolcemente sull’angolo morbido, mentre lei lasciava fare, lasciandosi guidare, abbandonando la presa ma non il controllo emotivo.

Si mise sopra di lei, un ginocchio sul divano, l’altro a terra. Le mani scivolarono lungo le cosce, sollevando con calma il perizoma lungo le gambe, tirandolo via con la lentezza di un rituale. Il tessuto dorato, ormai inumidito, aderiva ancora alla pelle, e si staccava con un lieve suono umido, sensuale, come un sigillo spezzato.

Ora era completamente nuda davanti a lui, con solo le calze a rete bianche e i tacchi rossi. Il velo rosso si era arrotolato a metà schiena, come una traccia dimenticata di un pudore ormai spento.
Alessio si prese il tempo di guardarla.

Il suo sguardo era diverso adesso. Non più solo desiderio.
Era adorazione.

Si chinò su di lei.
La baciò sul ventre.
Poi più in basso.
E più in basso ancora.

La lingua di Alessio fu il primo contatto reale, caldo, vivo. Non cercava fretta, né effetto: iniziò con una carezza larga, lenta, esplorativa. Leda si sollevò appena, un gemito trattenuto tra i denti, mentre le dita le si chiudevano a pugno sul bordo del divano. Non c’erano più barriere, non c’era più distanza. Era nuda, offerta, viva. Ed era sua, in quel momento preciso.

Lui la assaporava come si assapora un piacere raro, atteso, meritato. La lingua alternava movimenti lunghi e profondi ad altri più rapidi, mirati, precisi. Le labbra di lui si chiudevano, poi si riaprivano, la succhiavano appena, la cercavano come se volessero berla. E Leda non poteva più controllare il corpo.

Il bacino si muoveva da solo, seguendo il ritmo delle carezze, delle pressioni. Le gambe si chiudevano e si riaprivano attorno alla testa di lui in una danza disordinata, sempre più vicina al disarmo.

Ogni tocco la portava un passo oltre.
Ogni leccata era una scossa che partiva dal basso e saliva fino alla gola.
Il piacere si faceva liquido, pulsante, implacabile.

Poi lui inserì due dita, lentamente, con delicatezza.
Le guidò in profondità, con un angolo studiato, preciso.
Le fece sentire tutto.
Le sue pareti si chiusero attorno a quelle dita come a volerle trattenere dentro, implorarle di non uscire mai più.

E mentre le dita la penetravano con un ritmo crescente, la lingua tornò su quel punto preciso, lì dove tutto vibra, dove ogni donna ha il proprio centro. Leda aprì gli occhi ma non vedeva più nulla. Solo luce, solo sangue che batteva nelle tempie, solo gemiti che non riusciva più a trattenere.

— Sì… continua… così…
Le parole le sfuggirono, spezzate dal respiro.

Alessio aumentò appena la pressione.
Le dita piegate, la lingua rapida, decisa.

Il piacere montava come un’onda che non si può più arrestare.
Leda non era più padrona di nulla.
Il controllo, il pudore, il ruolo: tutto si stava sciogliendo in quel punto preciso del corpo.

Poi arrivò.

Una scarica. Un’esplosione interna, calda, devastante.
Le gambe si irrigidirono, il ventre si contrasse, un gemito lungo, pieno, profondo le uscì dalla bocca come una confessione. Il corpo si sollevò, tremò, si lasciò andare.

Rimase lì, sdraiata, il respiro ancora rotto. Le labbra socchiuse. Gli occhi lucidi. Il velo rosso disceso ai lati del corpo come un trofeo di guerra.
E Alessio, in ginocchio tra le sue gambe, la guardava.
Le dita ancora umide. La bocca lucida. Gli occhi fieri.

— Così mi piaci, sussurrò, risalendo con lentezza verso di lei.
— Persa. Bellissima. Distrutta.

E Leda, finalmente, non poteva più negarlo.

Leda era ancora distesa sul divano, le gambe aperte, il petto che si sollevava irregolarmente, la gola tesa nel tentativo di riportare l’ossigeno al cervello. Il piacere era ancora lì, liquido e vibrante, ogni muscolo del suo corpo sembrava ricordarne il passaggio.

Alessio la guardava dall’alto.
Non sorrideva.
Aveva il volto teso, gli occhi scuri, la mascella serrata.
Era il desiderio trattenuto per troppo tempo, che ora stava per esplodere.

Si chinò su di lei.
Non con dolcezza.
Con necessità.

Le afferrò le cosce con entrambe le mani e le sollevò, piegandole verso il petto. Leda non oppose resistenza.
Non avrebbe potuto.
Era troppo aperta. Troppo pronta.

Alessio si liberò con un gesto rapido, preciso. Il suono della zip spezzò il silenzio umido della stanza, subito seguito dal contatto. Il calore della sua pelle contro la sua. Duro, presente, implacabile.
Si avvicinò al suo viso, la guardò negli occhi, a pochi centimetri da lei.
Le prese il mento con due dita, lo sollevò leggermente.

— Adesso tocca a me.
E senza altro, entrò in lei.

Un unico, lungo, deciso affondo.

Leda spalancò la bocca in un gemito profondo, mentre il suo corpo si inarcava sotto il peso e la forza di lui. La riempiva. Completamente. E lo faceva senza esitazione. Nessuna dolcezza, stavolta. Solo desiderio puro. Fame. Possesso.

I colpi erano lenti all’inizio, ma profondi.
Poi più veloci, più decisi.
Le sue mani le stringevano le anche, la tiravano a sé, costringendola a sentire ogni millimetro.
Leda gemeva senza più filtri, il viso stravolto, gli occhi chiusi, le mani a stringere il tessuto del divano come se volesse aggrapparsi a qualcosa per non perdere il controllo del corpo.

Ma il controllo era già andato.
Alessio lo aveva preso.
E lei lo aveva lasciato fare.

Le gambe le si avvolsero attorno ai fianchi.
Il corpo le si aprì ancora di più.
Il piacere tornava, a ondate, come un’eco incessante.
Ogni colpo le faceva vibrare il ventre, il petto, il cervello.

— Guardami, le sussurrò, abbassandosi sul suo viso.
Lei aprì gli occhi, bocca socchiusa, i capelli scomposti, la pelle lucida di sudore e desiderio.

— Ti sto usando, Leda. Come volevi. Come ti piace.
E affondò di nuovo, più forte.

Un altro gemito.
Una nuova scossa.
Piacere e umiliazione si confondevano.
Pudore e bisogno si erano dissolti.

Lui la prendeva.
Forte.
Dentro.
E lei lo lasciava fare.
Anzi: lo voleva.

Il ritmo dei colpi diventava sempre più irregolare, più affamato. Alessio era sopra di lei, dentro di lei, e ogni affondo sembrava portarlo più vicino all’inevitabile.
Ma Leda, nel suo vortice di piacere, ancora lucida sotto le palpebre pesanti, capì che non voleva che finisse così. Non ancora.

Lo fermò.

Portò le mani sul suo petto e lo spinse delicatamente, con un sorriso stremato e provocante sulle labbra.
— Aspetta, mormorò, il fiato caldo, la voce roca.

Con un movimento lento e felino, lo lasciò scivolare fuori da sé, un brivido improvviso la percorse mentre si liberava di quella profondità. Si girò sul divano, voltandogli le spalle, e si inginocchiò, le mani poggiate sullo schienale imbottito, le ginocchia aperte, i piedi ancora calzati dai tacchi rossi.
Le calze a rete bianche, leggermente smosse, le disegnavano le cosce e accompagnavano le curve dei glutei come una trama peccaminosa. Il velo rosso era scivolato su un fianco, abbandonato come la sua ultima resistenza.

Si voltò appena, lo guardò sopra la spalla. I capelli disordinati, il volto arrossato, le labbra lucide.
— Adesso... prendimi come vuoi davvero.

Alessio non rispose.
I suoi occhi si fecero feroci, ardenti.

Le si avvicinò, si inginocchiò dietro di lei, le mani che scivolarono sui fianchi e poi si posarono sui glutei, aprendoli lentamente.
Lei era lì, completamente esposta. Calda, lucida, pronta.
Una visione da perdere il fiato.

Si guidò dentro di lei di nuovo, da dietro, affondando in un solo movimento, profondo, pieno, animalesco.
Leda gemette forte, la voce strozzata, il corpo teso. Era ancora più profondo. Più reale. Più vero.
Il ventre le si contrasse, le gambe le tremavano, ma si teneva salda, offrendosi completamente.

Alessio cominciò a muoversi.
Colpi lenti, profondi.
Poi più rapidi.
Poi ancora lenti, ma violenti.
Le mani le stringevano i fianchi, la tiravano contro di lui, senza pietà.
Ogni affondo era un richiamo, un ordine, una dichiarazione.

— Ti piace così, Leda?
Lei annuì. Ma non bastava.

— Dimmi che sei mia.
— Sono tua… sussurrò, la voce spezzata dal piacere.
— Adesso. Stanotte. Come vuoi.

E lui la prese davvero.
Fino in fondo.
Con forza.
Con fame.
Con un’intensità che la faceva gemere a ogni colpo, che le scioglieva le gambe, che le faceva perdere completamente la misura del tempo, dello spazio, di sé.

Si piegò su di lei, il petto contro la sua schiena, le mani che si spostavano sul seno, che la stringevano, che la reclamavano.

Alessio continuava a spingerla da dietro con colpi sempre più pieni, più rapidi, e Leda li assorbiva tutti, il corpo che ondeggiava al ritmo imposto, i gemiti che ormai non cercavano più di essere trattenuti. Le mani strette al divano, le braccia tese, i muscoli delle gambe che si tendevano a ogni affondo.

Il suo ventre era un fuoco, il respiro incandescente, i capezzoli duri contro la pelle, le calze a rete strette sulle cosce come lacci sacri.
E dentro… dentro era troppo.

Le dita di Alessio le trovarono il punto preciso, mentre continuava a penetrarla.
Cominciò a carezzarla lì, con un ritmo veloce e preciso, mentre la riempiva con forza.
Le bastarono pochi secondi.

Un urlo le salì in gola, le gambe cedettero per un istante, ma lui la sorresse.
Il suo corpo esplose in una seconda, violenta ondata di piacere.
Più intensa della prima. Più profonda.
Le pareti si strinsero attorno a lui, mentre Leda gemeva forte, abbandonata al piacere più crudo, più pieno.

Rimase lì, piegata, tremante, mentre il corpo cercava di riprendersi.

Ma Alessio non aveva finito.

Uscì da lei lentamente, con il respiro rotto, gli occhi fissi su quel corpo piegato davanti a lui, bagnato, disordinato, bellissimo.

La prese per i fianchi e la fece voltare, con delicatezza, ma senza lasciarle scelta.
Lei si girò, lo guardò con gli occhi lucidi di piacere, le labbra semiaperte, il petto che si alzava veloce.
Lui si inginocchiò davanti a lei, prese il suo volto tra le mani, le accarezzò la guancia.

— Ora voglio la tua bocca.

Lo disse piano, ma non c’era possibilità di fraintendere.

Leda, ancora ansante, si inginocchiò lentamente sul tappeto, guardandolo dal basso, come in una scena già scritta.
Le mani si posarono sulle sue cosce.
Le labbra si aprirono.
E lo prese in bocca.

Lui sussultò.
Chiuse gli occhi, gettò indietro il capo.

La sentiva. Calda, viva, accogliente.
La sua lingua lo accarezzava con lentezza, le labbra che si stringevano e si rilassavano.
Le mani gli accarezzavano le gambe, i fianchi, il ventre.

Era tutto perfetto.
Troppo.

Il piacere lo travolse.

Si lasciò andare con un gemito profondo, mentre la teneva per la nuca, senza forzare.
Lei lo accolse tutto, senza smettere di guardarlo, finché non si sciolse completamente.

Quando si staccò, le labbra ancora lucide, lo guardò dal basso con un’espressione difficile da definire: stanca, fiera, complice.

Il bagno aveva lavato via il sudore, ma non il calore.
Leda uscì per prima, i capelli ancora umidi che le scendevano sulle spalle, il corpo nuovamente avvolto nel minuscolo bikini dorato. Le calze a rete bianche ancora aderenti le avvolgevano le gambe con un’irriverenza sensuale, e ai piedi aveva di nuovo i tacchi rossi.
Sul volto, nessuna fretta: aveva rinnovato il trucco, esaltando l’intensità dello sguardo. L’eyeliner affilato, il rossetto ritoccato. L’effetto era devastante.

Quando Alessio rientrò nella stanza, la trovò così.
Sdraiata di lato sul divano, con le gambe elegantemente incrociate e la bottiglia di gin tra le dita.

Lo guardò con un sorriso pigro, ma affilato.
— Ne vuoi un sorso?

Lui fece per avvicinarsi al tavolino, ma lei lo fermò con un gesto secco della mano.

— Aspetta, mormorò.
Posò la bottiglia, si sollevò con lentezza e con un gesto fluido si sfilò nuovamente il reggiseno, lasciandolo scivolare sul divano senza dire una parola.

Poi prese un bicchiere dal vassoio accanto, lo riempì con un gesto sicuro e preciso.
Il cristallo gelido vibrava nella sua mano mentre si riabbassava sul divano.

Con un sorriso divertito, ma sensuale, sistemò il bicchiere tra i seni nudi, stringendoli leggermente con le braccia in un gesto tanto elegante quanto disarmante.

— Non è più interessante berlo così?
Lo guardava da sotto le ciglia, ferma, statica, ma con tutto il corpo teso come una promessa.

Il gin, imprigionato tra le curve, tremava impercettibilmente nel bicchiere, e così anche Alessio.

Alessio rimase immobile per un istante. Gli occhi incollati a quel bicchiere prigioniero tra i seni di Leda.
Poi fece un passo avanti, senza dire nulla.

Si chinò lentamente, il volto all’altezza del suo petto.
Le sue mani si posarono sulle sue cosce, ma non salirono oltre.
Fu il respiro a fare tutto: caldo, ravvicinato, umido.
Leda trattenne il fiato mentre lo vedeva portare le labbra al bordo del bicchiere e bere, lentamente, con precisione, senza far cadere una sola goccia.

Il gin freddo si mescolava al calore del suo corpo.
Alessio si allontanò appena, deglutendo, poi la guardò.
— Delizioso, disse piano, con un sorriso incerto.
Ma lei non sorrideva. Era seria.
Seria come lo è una donna che ha già deciso cosa succederà.

Si sollevò, lo spinse con due dita sulla spalla, lo fece sedere sul divano.
Poi si mise a cavalcioni su di lui, le mani sulle sue spalle, la schiena dritta, i seni all’altezza del suo viso.
Lo guardava fisso. Come se lo stesse leggendo. Come se lo stesse scrivendo dentro di sé.

— Adesso tocca a me…
La voce era bassa, roca, ma limpida.

Fece scorrere lentamente le mani sul suo petto, poi sul ventre, poi più giù.
Alessio la lasciava fare, completamente rapito.

Leda si chinò, portò la bocca vicino al suo orecchio.
— Hai pagato per usarmi… sussurrò.
— Ma ora sarò io a usar te.

E le sue labbra lo raggiunsero.
Non in un bacio tenero, non in una carezza.
Ma con fame. Con decisione. Con l’intensità di chi prende, non chiede.

Ogni movimento era lento, calibrato, ma senza esitazione.
Il suo corpo gli aderiva addosso come una seconda pelle, mentre le anche cominciavano a muoversi con un ritmo perfettamente calcolato, fatto di pressione e rilascio, di attrito e scivolamento.

Leda era ancora inginocchiata tra le sue gambe, lo sguardo fisso nei suoi occhi, ma qualcosa in lei cambiò improvvisamente.
Non una parola. Solo il movimento fluido del suo corpo che, con una grazia quasi felina, tornava a salire su di lui.

Lo cavalcò senza mai entrare in intimità vera, ma era sufficiente così: il perizoma dorato, inumidito e teso, faceva da tramite tra i due corpi, strofinandosi contro il pantalone sottile che non riusciva più a nascondere la tensione sotto di sé.

Cominciò a muoversi.
Lentamente.
Il bacino che disegnava cerchi lenti, perfettamente allineati al battito dei loro respiri.
Ogni sfregamento era preciso.
Ogni contatto un’esplosione trattenuta.

Leda si piegò su di lui, le mani che gli accarezzavano il volto, poi i capelli.
Le labbra si posarono sulle sue.
Un bacio lento, aperto, profondo.
Poi un altro.
E un altro ancora, mentre il corpo continuava a cercarlo, ad aderirgli, ad amplificare la tensione.

Alessio aveva le mani sul suo corpo, una che le stringeva la schiena, l’altra che risaliva lentamente a coprire il seno.
Lo baciò.
Con dolcezza prima, poi con fame.
I polpastrelli sulle sue curve tremavano, come se volessero ricordare ogni dettaglio.

— Sei bellissima, sussurrò, ma la voce era roca, spezzata dal desiderio.

Le labbra gli scesero lungo il collo, poi sul petto, fino a quando fu lui a cercare i suoi seni con la bocca.
Li baciò con gratitudine.
Li accarezzò con adorazione.
Le labbra si posavano sulla pelle calda e vibrante, la lingua che sfiorava, esplorava, accendeva.

Leda ansimava, il volto chino sul suo, le mani sulle sue spalle, i capelli che le cadevano davanti agli occhi.
I loro bacini si rincorrevano in un ritmo sempre più febbrile, la stoffa del perizoma e del pantalone a fare da tramite a un piacere che sembrava raddoppiare a ogni istante.

Non servivano parole.
Solo respiri.
Solo gemiti appena trattenuti.
Solo sguardi che dicevano tutto.

E poi, all’improvviso, il mondo sembrò fermarsi.

I corpi si inarcarono, gli occhi si chiusero, i cuori accelerarono insieme, all’unisono.

Un fremito.
Uno. Poi un altro.
Poi un’ondata calda e travolgente che li attraversò entrambi.

Lei si aggrappò a lui, stretta, tremante.
Lui la avvolse in un abbraccio forte, quasi a volerla proteggere da quell’onda che li stava ancora attraversando.

Per un attimo, non ci fu più il divano, il club, il gin.
Solo loro due.
Sudati, vivi, appagati.

E un silenzio carico come il cielo prima del temporale.

La luce rossa sopra la porta cominciò a lampeggiare. Un segnale muto, ma definitivo: il tempo era finito.
Leda si staccò lentamente da Alessio, le mani ancora leggere sulle sue spalle, il corpo che vibrava di un calore che non era solo fisico.
Lui le porse un foglietto piegato in due, stringendole la mano mentre glielo affidava.
— Se vuoi… al di fuori di qui. Posso pagare. Ma vorrei vederti.
Lo disse senza vergogna. Né con presunzione.
Solo desiderio. Sincero, semplice, quasi vulnerabile.

Leda non rispose. Non con parole, almeno.
Gli regalò un sorriso breve, enigmatico. Poi uscì.

Nel backstage l’attendeva l’uomo.
L’aguzzino, come lo aveva soprannominato da tempo.
Non le parlò subito.
Aprì una cartelletta nera, le mostrò una chiavetta USB.
— Questa è l’unica copia. Tutto il resto è stato cancellato. Come da accordi.
Gliela porse, e per la prima volta, la guardò con un accenno di rispetto.

Leda la prese, la strinse in mano. Nessuna scenata. Nessuna gratitudine.
Solo un cenno.
E se ne andò.

La strada verso casa le sembrò diversa quella sera.
Il vento era caldo.
Le gambe ancora un po’ molli.
Le luci delle vetrine sfocate dagli occhi ancora carichi di sensazioni.

Entrò nel suo appartamento, tolse le scarpe, lasciò la chiavetta sul tavolo, e si versò da bere. Gin, ancora. Questa volta freddo. Solitario.

Si sedette sul divano. E si guardò le mani.
Le stesse mani che avevano accarezzato, stretto, guidato.
Le stesse mani che avevano preso il controllo, e poi lo avevano lasciato.

Ripensò a tutto.
All’inizio. Al primo messaggio.
Alla paura.
All’ansia di essere vista, giudicata, forse usata.
Alla vergogna. Quella segreta, quella che punge mentre ci si eccita.

E poi al palco.
Agli sguardi.
Alla libertà che, contro ogni logica, era esplosa proprio in mezzo alla sua esposizione più totale.

Non si sentiva sporca.
Non si sentiva vittima.
Non si sentiva nemmeno padrona.

Ma qualcosa era cambiato.

Si accarezzò lentamente una coscia, sopra la calza a rete ancora indossata.
Non per eccitarsi. Ma per sentire la pelle. Il corpo. Se stessa.

Era andata fino in fondo.
Aveva ballato.
Aveva dominato.
Aveva ceduto.
Aveva goduto.
E ora era libera.

Libera di scegliere, la prossima volta.
Libera di accettare, o rifiutare.
Libera di vivere il proprio piacere senza più filtri, se lo voleva.

Sorrise, lentamente.
Non perché fosse tutto finito.
Ma perché, finalmente, qualcosa in lei era cominciato.
scritto il
2025-06-17
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