Princy

di
genere
masturbazione

Il sole era già alto, eppure l’aria conservava ancora la freschezza del mattino. Princy camminava lentamente nel giardino, l’erba tagliata corta le massaggiava la pianta dei piedi ad ogni passo. Era lì da un paio di settimane, e si era immersa fin da subito in quella routine che sapeva di libertà, di ritorno all’essenziale. Aveva rivisto gente del posto, si era mossa tra mercatini e sentieri, ma in quel momento non aveva bisogno di altro se non di sé stessa.
Indossava solo una camicia bianca, sottile, lasciata abbottonata in modo svogliato, come se anche l’idea di chiudersi dentro un abito fosse troppo. Quando si chinò per raccogliere un fiore di campo, la stoffa si sollevò appena, mostrando i glutei perfetti, scolpiti dall’allenamento e accarezzati dalla luce obliqua del sole. Si lasciò andare sedendosi proprio lì, sull’erba ancora umida. Le gambe si piegarono con naturalezza, una sotto di sé, l’altra distesa, e il tessuto della camicia scivolò ancor di più, aprendosi sul ventre nudo.
Chiuse gli occhi. L’odore del prato, della terra e del sole le entrava nei polmoni. Un filo d’erba le solleticava l’interno coscia, e lì, nel silenzio del giardino, anche quel contatto lieve, quasi infantile, la fece sorridere appena, accennando a un fremito che le percorse il basso ventre. Non c’era niente di costruito in quel momento. Era sola, vera, e libera. Senza aspettative né doveri.
Restò così per qualche minuto, lasciando che i pensieri si sciogliessero nella luce e nel verde. Poi aprì gli occhi, si distese brevemente sulla schiena stirandosi come una gatta, e si rialzò con movimenti lenti ma decisi.
Era tempo di rimettere in moto il corpo. Una corsa le avrebbe fatto bene. Si sistemò meglio la camicia, raccolse i capelli con un elastico sottile che aveva al polso e si diresse verso casa. Sapeva già cosa avrebbe indossato: poco, come sempre, ma perfetto per sentire ogni muscolo lavorare sotto la pelle.
Mentre correva, il paesaggio le scivolava accanto come un quadro in movimento: colline dolci, campi dorati, strade deserte e il sole che batteva pieno sulle sue spalle scoperte. Il tessuto lucido dei pantaloncini le aderiva sempre di più, si faceva sentire lì dove la pelle era più sensibile, umida, viva. Ogni falcata faceva scivolare la stoffa sulle sue labbra, accarezzandole, risvegliandole qualcosa di noto e primitivo.
Un ricordo emerse, netto.
Non era un’estate in particolare, né un evento davvero importante, ma qualcosa che il suo corpo non aveva mai dimenticato. Una sera in cui indossava un vestitino impalpabile color crema, senza nulla sotto. Il tessuto leggero sfiorava appena le curve, lasciando intravedere più che coprire. Si muoveva sulla pista da ballo con disinvoltura, sudata e sorridente, tra la musica e le luci basse.
Poi lui. L’aveva raggiunta da dietro, e non c’era stato bisogno di parole. Ballarono stretti, lui premeva contro di lei, duro, evidente. Lei si lasciava guidare, le natiche che si muovevano contro il suo bacino, una danza sfacciata, consenziente, carica di tensione. Le mani di lui si erano fatte audaci, l’avevano stretta ai fianchi, poi alle cosce, accarezzata tra le gambe sopra il vestito sottile. Non c’erano più confini tra i loro corpi.
Si erano baciati con foga, a lungo, come se dovessero divorarsi. Le lingue intrecciate, le mani che si esploravano senza vergogna. Lei gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio, lui aveva annuito, e in pochi minuti si erano ritrovati nella sua camera, con la porta chiusa e la musica lontana.
Lei lo guardò negli occhi, poi si voltò senza dire nulla, sollevò il vestito da dietro e gli offrì sé stessa. Non davanti, non nel modo più ovvio. Ma lì, dove non entrava quasi mai nessuno. Dove lo sentì spingere con lentezza, poi con forza, mentre le mani di lui stringevano le sue anche e la bocca le morsicava il collo. Ogni colpo era profondo, pieno, e il piacere saliva come un’onda fitta. Lei ansimava, mordeva le labbra, si lasciava andare completamente, lasciandogli il controllo. Venne per prima, ma lui la seguì subito dopo, dentro di lei, con un gemito basso e feroce.
Ora, correndo, Princy sentiva quel ricordo scorrere nelle gambe, nel ventre, in fondo al respiro. Il sudore tra le scapole, l’aria che le sferzava le cosce nude, lo sfregare costante del pantaloncino contro la sua carne sensibile. Non era solo memoria: era desiderio che riaffiorava, fisico, prepotente, vivo.
Il passo si era fatto più lento, quasi misurato. Non era più corsa, era una danza sottile con sé stessa, con il proprio desiderio. Princy sentiva il tessuto teso dei pantaloncini muoversi ritmicamente contro la parte più sensibile e umida del suo corpo. Ma quell’umidità non aveva nulla a che fare col sudore. Era il segno tangibile di un bisogno diverso, più profondo, che ora non faceva nulla per reprimere.
La mente, ormai libera, la riportò a un altro episodio. Un’altra sera, un’altra Princy. O forse no, era sempre lei, solo più incerta. Ricordava la piazza del paese, le luci calde dei lampioni, e quei due ragazzi che l’avevano invitata a bere con loro. Erano amici d’infanzia, o forse conoscenti di lungo corso, non aveva importanza. Le chiacchiere erano state leggere, poi sfacciate, poi esplicitamente cariche.
Lei si era lasciata andare. Aveva bevuto, riso, accavallato le gambe mostrando senza mostrare. Aveva notato i loro sguardi, i sospiri trattenuti, e con una sicurezza appena appresa — o forse solo mimata — si era alzata e aveva accettato di farsi accompagnare in macchina.
All’interno dell’abitacolo, l’aria era densa, elettrica. Nessuno parlava più. I due ragazzi si erano sbottonati i jeans con gesti decisi, quasi coordinati, e avevano liberato i loro membri, già duri, pulsanti. Princy si era sentita stringere dentro, sorpresa dalla loro sfrontatezza, ma non spaventata. Solo viva.
Con calma, si era spostata verso uno di loro. Le sue labbra, calde e morbide, si erano posate sulla pelle tesa, accogliendolo lentamente, profondamente. Le mani di lui tremavano sulle sue cosce nude. Poi, quando l’altro si era avvicinato, si era voltata verso di lui, alternando, accarezzando, baciando con avidità crescente.
Era un gioco di bocche e mani, di lingue e respiri, uno scambio continuo, fluido, pieno. Sentiva la loro eccitazione crescere, le parole rotte, le mani che le accarezzavano i capelli e il viso. Si lasciava usare, e allo stesso tempo conduceva. Era lei a scegliere, a decidere i tempi, i movimenti, i sospiri.
Alla fine, erano venuti quasi insieme, uno le aveva sfiorato il viso con un gemito strozzato, l’altro si era lasciato andare tra le sue labbra con una scossa profonda. E lei li aveva guardati, fiera e lucida, sentendosi improvvisamente piena. Non di loro. Di sé.
La strada si era fatta più stretta, costeggiata ora da un filare di alberi allineati con precisione lungo il margine del campo. Il sole filtrava tra le fronde, proiettando sull’asfalto disegni in continuo movimento. Princy rallentò fino quasi a fermarsi, il fiato sempre più corto, ma non per la fatica. Era qualcos’altro, qualcosa che le bruciava sotto la pelle, che le palpitava dentro.
Si avvicinò a uno di quegli alberi, giovane e flessuoso, e vi poggiò la mano destra per sostenersi. La corteccia era tiepida, viva, come se anche lui avesse capito. Chiuse gli occhi. L’altra mano scivolò senza esitazioni dentro i pantaloncini lucidi. Le dita attraversarono il calore umido che l’aveva accompagnata per tutto il tragitto, e incontrarono sé stessa. Gonfia, tesa, bagnata.
Non c’era spazio per il pensiero, solo per il gesto.
Cominciò a muoversi lenta, poi più decisa. Il polso seguiva il ritmo del battito, la respirazione diventava più irregolare, la fronte si corrugava. Il corpo la tradiva, o forse no: forse finalmente la assecondava. Le ginocchia tremavano, il sudore le colava tra i seni, la bocca semiaperta lasciava passare un sussurro, un gemito, poi un altro. Bastarono pochi minuti, pochi sfregamenti profondi e precisi, perché l’onda salisse.
Quando venne, il piacere la prese tutta insieme, come un colpo secco nel petto. Fu un gemito lungo, poi un urlo vero, trattenuto fino ad allora, che le uscì dalla gola come una liberazione, come un richiamo selvaggio al cielo e alla terra.
Rimase lì, ansimando, attaccata all’albero, le dita ancora tra le gambe. Poi si voltò, vi poggiò la schiena e scivolò leggermente con le spalle contro il tronco, cercando di rallentare il cuore, di ritrovare il respiro. Tirò fuori lentamente la mano dai pantaloncini, la osservò con occhi ancora socchiusi, lucida, bagnata. La portò al naso. Inspirò a fondo. Poi sfiorò con la lingua le dita. Il sapore era pieno, salato, vivo. Suo.
Il pensiero scivolò alto, oltre il campo, oltre gli alberi.
Chissà se, prima della fine di quella vacanza, qualcuno avrebbe avuto il privilegio di assaggiarla davvero. Di sentirla dal vivo. Così com’era: selvaggia, ardente, viva.
Ma per ora, bastava a sé stessa.

Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-07-01
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