Le mutandine bianche di Jomari

di
genere
feticismo

Era una di quelle sere in cui il silenzio è pieno. Nessuna musica, nessuna fretta. Solo il battito del sangue e lo sguardo di Jomari, appoggiata al muro, con la gonna che sfiorava appena le sue cosce. Lo sguardo divertito, cattivo. Il tipo di donna che sa esattamente cosa sta per fare… e gode a fartelo capire un secondo prima.

«Sai come si riconosce un uomo interessante?» chiese, sfiorandosi il labbro con un dito. «Da come guarda le mutandine di una donna senza toglierle.»

Sollevò la gonna lentamente. Lo fece con grazia, ma anche con la crudeltà di chi sa di avere in mano l’arma.

Bianche. Aderenti. Umide.

«Queste… le hai notate, vero?»

Annuii, incapace di distogliere lo sguardo.

Lei si avvicinò, il passo lento, ipnotico. Mi sentivo il cuore rimbombare nelle tempie. Si fermò a un soffio da me, il respiro caldo che mi sfiorava le labbra.

«Non le cambio da stamattina. Ho pensato a te tre volte. Una… mi sono venuta addosso.»

Poi prese la mia mano e la spinse tra le sue cosce.

«Tocca. Senti quanto sono bagnata.»

Le mutandine erano fradicie. La sua fica pulsava sotto il tessuto, calda, viva. Un odore intenso e salato saliva dalle sue cosce, un profumo di sesso che mi entrava nel naso e nel cervello.

Senza dire una parola, si sfilò lentamente le mutandine e me le porse.

«Non dire nulla. Annusale.»

Le presi tra le dita. Erano intrise, il cotone zuppo del suo godimento. Le portai al naso. Il profumo mi colpì dritto allo stomaco, mi fece pulsare il cazzo duro nei pantaloni. Era tutto reale. E lei… rideva piano.

«Adesso fammi sentire come cazzo mi vuoi.»

Mi abbassai davanti a lei, spingendola piano contro il muro. Le gambe si aprirono da sole, docili e provocanti, mentre la mia lingua affondava nella sua fica aperta e tremante. Era già tutta liquida, pronta, il sapore crudo e irresistibile. Leccavo a fondo, con ritmo, e lei si aggrappava al muro con le mani, la testa rovesciata, gemiti che si facevano sempre più sporchi.

«Sì… così, Angelo… continua… voglio venire sulla tua lingua…»

Le afferrai le cosce, spingendo la bocca ancora più in fondo. La sua fica si contorceva sotto la lingua, un vulcano di piacere, e quando venne la prima volta, lo fece con un urlo, i muscoli che si stringevano su di me e le cosce che mi schiacciavano il viso.

Non mi fermai. La girai. La spinsi in avanti, a quattro zampe sul pavimento. Il culo rotondo e perfetto, la figa ancora aperta e bagnata, pronta. Me la offrì senza pudore, senza chiedere, solo con la voce roca e spezzata:

«Scopami forte. Fammi male se vuoi. Ma non fermarti.»

Tirai fuori il cazzo, duro da scoppiare, e la penetrai con una spinta secca. Gridò. Era stretta, calda, grondante. Iniziai a scoparla con forza, le mani sui fianchi, il suono dei nostri corpi che si sbattevano sporco e ritmico.

«Dio, che fica… ti sento stringere tutto…»
«È tutta tua, Angelo… riempimi… fammi venire ancora…»

La sua voce era una litania di gemiti e bestemmie dolci. Scopavo come se fossi in trance. Ogni colpo più profondo. Il mio cazzo affondava, la sua fica lo succhiava come se non volesse lasciarlo uscire più.

Venni vicino. Lo sentivo. Ma non volevo finire.

La voltai di scatto, la presi in braccio, la sollevai sul tavolo. Le gambe spalancate, la figa lucida e gonfia che mi chiamava. La presi di nuovo, questa volta più lento, più sporco. La guardavo mentre la scopavo, e lei rideva, mordeva le labbra, sussurrava:

«Fammi venire col tuo cazzo dentro… voglio sentire tutto, voglio goderci insieme…»

E quando venne di nuovo, il corpo spezzato dagli spasmi, io la seguii, esplodendo dentro di lei con un gemito animalesco, tutto il piacere che avevo dentro sparato nel suo ventre caldo.

Ci fermammo così. Sudati. Le sue mutandine ancora tra le mie dita. Il profumo ancora nell’aria.
Lei mi guardò, con gli occhi lucidi e la bocca aperta come dopo un tuffo profondo.

«Se domani non riesco a chiudere le gambe… è colpa tua.»
«Allora ti vengo a leccare anche domani.»

Jomari rise. Di quella risata bassa, piena. Poi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio:

«Quelle mutandine… tienile. Domani me le rimetto. Ma solo se poi me le togli tu.»



Epilogo — La doccia

L’acqua scorreva calda, lenta, come se volesse lavare via il peccato. Ma certi peccati non si lavano: si assorbono, si portano dentro. Jomari entrò nella doccia nuda, ancora spettinata, con i segni delle mie mani sulle cosce e la mia sborra che le colava piano lungo l’interno gambe.

Mi guardò. Non disse nulla. Mi prese per i fianchi e mi trascinò sotto il getto con sé.

Le gocce battevano sui nostri corpi intrecciati. La pelle scivolava sulla pelle. Il profumo del sapone si mescolava a quello del nostro sesso. Le sue mani mi insaponavano piano, scendendo lungo il petto, fino ai fianchi, fino a stringermi di nuovo il cazzo.

«Ancora duro…» sussurrò.

Sorrisi. «Merito tuo.»

Si inginocchiò sotto l’acqua, con i capelli che si incollavano al viso, le gocce che le scendevano sui seni. Il mio cazzo tra le sue labbra, di nuovo. Ma stavolta fu lento. Un rituale. Mi succhiava guardandomi negli occhi, le mani sulle mie cosce, mentre l’acqua ci avvolgeva in un silenzio sacro.

Quando si alzò, le passai il sapone lungo la schiena, poi tra le chiappe. La sua fica era ancora calda, umida anche sotto l’acqua. Le accarezzai piano il clitoride, sentendola sussultare.

«Se mi tocchi ancora così… vengo un’altra volta.»

«Allora fammi compagnia.»

La presi lì, sotto il getto. Lei si appoggiò con le mani contro il muro, e la penetrai di nuovo, stavolta senza fretta. Solo noi. Acqua, pelle, cazzo e cuore. Il piacere era più lento, ma più profondo. Ogni spinta era un bacio. Ogni respiro, una promessa.

Venimmo ancora. Stretti. Silenziosi. Come due corpi che si erano cercati da sempre.

Alla fine, restammo lì, sotto il getto che si faceva tiepido. Lei si girò, poggiò la fronte sulla mia e disse, quasi ridendo:

«Non so se è stata una scopata o un battesimo.»

«Forse tutte e due. Ma ti giuro una cosa.»

«Cosa?»

«Domani non ti restituisco le mutandine.»
scritto il
2025-07-03
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