Runner 6

di
genere
dominazione

La luce calda dell’imbrunire si stendeva sulle vie della città come un velo dorato, dipingendo ogni superficie con toni morbidi e profondi. Le ombre si allungavano lentamente, mentre l’aria conservava ancora quel tepore fragrante di un pomeriggio estivo appena concluso. Il traffico si era rarefatto, i rumori smorzati dal respiro lento del giorno che cedeva il passo alla sera.

Leda camminava da sola, i tacchi affusolati e vertiginosi delle sue Louboutin da dodici centimetri battevano con precisione ritmica sul marciapiede, un ticchettio elegante che sembrava scandire il tempo in modo tutto suo. Ogni passo era misurato, aggraziato, ma profondamente consapevole: non un’esibizione, piuttosto una dichiarazione silenziosa.

La minigonna in similpelle, nera come l’inchiostro e tesa come se fosse stata disegnata sul suo corpo, fasciava i fianchi e i glutei con audacia scolpita. Ogni movimento la faceva salire appena, e Leda, con un gesto istintivo e raffinato, la tirava giù con la punta delle dita, sfiorandola con grazia per celare quel bordo malizioso di pizzo delle autoreggenti che si ostinava a voler apparire. Un gesto che, ripetuto ogni pochi passi, attirava sguardi con la stessa forza di un magnete silenzioso.

La camicia in raso color avorio, lucida e perfettamente sciancrata, era interamente slacciata, lasciando intravedere – senza mostrare mai del tutto – la perfezione del suo décolleté. Nessun reggiseno. Solo pelle, movimenti morbidi, e quella collana in acciaio lavorato che le cadeva lungo la scollatura, ciondolando a ogni passo e fermandosi tra i seni come una linea guida per lo sguardo.

Il trucco era marcato ma studiato: eyeliner netto, ciglia lunghe e curate, un ombretto che esaltava l'azzurro liquido dei suoi occhi chiari. Le labbra, turgide, erano tinte di un rosso caldo, opaco ma profondo, che risaltava sotto la luce inclinata del sole calante. I capelli raccolti in una coda alta e tiratissima le mettevano in risalto il profilo fiero, il collo slanciato.

Attorno a lei, il mondo sembrava dilatarsi. Alcuni passanti fingevano disinteresse, abbassavano lo sguardo fingendo di guardare il cellulare, ma non riuscivano a non voltarsi quando Leda era ormai alle loro spalle. Un uomo sulla cinquantina rallentò il passo, si voltò due volte, poi si bloccò al semaforo solo per vederla allontanarsi, mordendosi il labbro. Una coppia di ventenni la incrociò, il ragazzo lanciò uno sguardo rapido e colpevole, subito punito dagli occhi di lei. Ma anche la ragazza la osservò, quasi ipnotizzata, attratta più dal portamento che dall’abbigliamento.

Due ragazzini appoggiati ai motorini smisero per un attimo di ridere e scherzare. Uno fischiò a bassa voce, l’altro abbassò gli occhiali da sole per vederla meglio. Un signore anziano, seduto su una panchina con un giornale in mano, seguì ogni passo con uno sguardo che mescolava stupore e malinconia.

E Leda camminava. Non accelerava, non rallentava. Non cercava di piacere. Sapeva di farlo. Sapeva di essere lì, in quel preciso momento, la donna che tutti avrebbero ricordato anche dopo averla solo intravista. E con ogni passo, il sole la accarezzava, tingendole la pelle di riflessi ambrati. Il suo profumo fresco e deciso, con note di agrumi e muschio bianco, si diffondeva nell’aria e sembrava lasciare una traccia invisibile, un’eco olfattiva che faceva voltare chiunque incrociasse il suo cammino.

Camminava con passo deciso, eppure dentro di sé ogni passo era un richiamo, un rintocco che riportava alla mente la sera prima. Non servivano immagini nitide, bastava una sensazione: il corpo crollato sul letto appena rientrata, la pelle calda, irritata, il battito irregolare. Aveva perso forza nel varcare la soglia di casa, come se tutta l’energia residua si fosse dissolta nell’aria una volta chiusa la porta dietro di sé.

Aveva dormito nuda, sfinita, senza neanche la lucidità di pulirsi. Il lenzuolo umido, l’odore acre e mescolato di più uomini ancora sulle sue cosce, sulle mani, tra i capelli. Al risveglio, quel profumo sgradevole l’aveva accolta come una ferita aperta. Una doccia. Lenta. Lunga. Necessaria. Non solo per il corpo, ma per la mente. Si era insaponata più volte, senza fretta, come a voler lavare via ogni traccia, ma anche ogni giustificazione. Aveva pianto un po’, sì, ma senza singhiozzi. Le lacrime erano scese come scivola il sudore quando non si ha più energia.

Poi, davanti allo specchio, nuda e gocciolante, aveva incrociato il suo stesso sguardo e si era fatta una sola domanda: perché non riesco a fermarmi?

Aveva preso il tablet. Nessun messaggio dai contatti più intimi, nessuna preoccupazione da chi avrebbe potuto percepire qualcosa. E lì, tra le notifiche, una nuova mail. Senza nome, senza oggetto. Solo il messaggio.

“Questa sera.
Via Fogazzaro, ore 21:15.
Non portare nulla.
L’abbigliamento deve renderti facile da usare.”

Una linea. Gelida. Spietata. Ineluttabile.
Non c’erano cuori, sorrisi, punti interrogativi.
Solo una constatazione. Una condizione.

Ed eccola lì, ora, nel quartiere in cui aveva vissuto per anni, a pochi minuti da casa, a camminare verso una zona industriale silenziosa e quasi deserta. L’asfalto liscio rifletteva i colori del tramonto. Capannoni chiusi, saracinesche abbassate, pali storti e segnali scoloriti. Ma lei – nel suo completo da sfida e da resa – era una presenza vibrante, fuori contesto, come un’opera d’arte dimenticata in un deposito.

“Facile da usare.” Le parole le rimbombavano nella mente, ora che ogni dettaglio del suo abbigliamento ne rifletteva il significato. La camicia aperta, la gonna troppo corta, le calze appena visibili, il tacco arrogante, l’assenza totale di protezione, persino simbolica.

Ma era lì, perché in fondo una parte di lei voleva esserci. Forse per capire fin dove poteva spingersi. O forse per ricordarsi che, pur essendo usata, era ancora padrona di un istinto che bruciava troppo forte per essere ignorato.

Camminava verso l’ignoto, verso l’ennesima prova, e forse, in quel momento, nessuna al mondo era più viva di lei.

Il quartiere sembrava svuotato del suo respiro abituale. Le voci si erano spente, il rumore del traffico si era dissolto oltre i capannoni, lasciando solo il suono nitido e sensuale dei tacchi a spillo di Leda che battevano con regolarità sul selciato. Il tramonto, basso e dorato, la seguiva come un riflettore divino, accarezzandole la schiena e incendiando d’ambra ogni curva esposta, ogni lembo lucido del suo corpo messo in scena.

Lo vide. In fondo alla strada, fermo come una sentinella, appoggiato a un palo dell’illuminazione. Era lui. Senza passamontagna questa volta, il volto finalmente scoperto, una figura apparentemente sicura ma già tradita da quella postura troppo immobile. Leda sorrise dentro. Lui non sapeva.

Studiò la traiettoria con lo sguardo, come un’artista che calcola l’impatto di ogni tratto sulla tela. Cambiò lato della strada, portando il sole alle sue spalle, per farsi avvolgere dalla luce calda del giorno che finiva. E poi lasciò andare tutto. Niente più finzioni, niente più pudore.

Non abbassò più la gonna. Anzi. Camminando accentuò il movimento dei fianchi, lasciando che ogni passo le sollevasse la minigonna in similpelle, tesa e lucida, incollata ai glutei come una seconda pelle. E proprio quei movimenti studiati, l’ondeggiare lento e controllato delle anche, fecero sì che l’orlo si sollevasse centimetro dopo centimetro, prima svelando chiaramente il bordo di pizzo delle autoreggenti, poi la morbidezza delle cosce nude, oltre la calza, poi ancora la pelle liscia e sensuale delle natiche, fino a scoprire – nei suoi ultimi metri di passerella – un microtanga nero, lucido come vinile, che brillava sotto il raggio radente del sole, aderente, sottile, provocatorio, indecente.

La camicetta sbottonata ondeggiava con lei, lasciando apparire sempre di più il seno nudo sotto, con i capezzoli tesi, evidenti, chiamati in causa da ogni colpo di vento, da ogni respiro. E mentre camminava, la collana lunga in acciaio ondeggiava tra i seni come un pendolo ipnotico, guidando gli sguardi là dove il pudore avrebbe imposto silenzio.

La coda alta, tesa e tirata, danzava morbida dietro di lei, seguendo il ritmo sensuale del suo corpo. I tacchi Louboutin le donavano qualche centimetro in più di autorità e uno slancio che rendeva la scena irreale, da cinema. Ogni centimetro di pelle, ogni dettaglio del suo abbigliamento gridava una sola cosa: sei tu che mi volevi usata, ma ora sono io che ti sto usando.

E lui, il carnefice della sera prima, ora era lì. Bocca leggermente aperta, occhi fissi, incapace di muoversi. Persino il respiro sembrava trattenuto. Il controllo che credeva di avere, dissolto in un istante, come neve al sole. Non era pronto per lei. Non così.

Leda lo sapeva. Lo vedeva. E godeva del potere che le saliva addosso come un’onda calda.
Gli fu davanti. Un metro scarso. Nessuna esitazione.

Si fermò, portando il peso su un fianco, il seno appena inclinato in avanti, e con un sorriso di pura superiorità, piegò la testa di lato e sussurrò, con una voce calda, ironica, pericolosa:

«Ciao, bellino.»

Lui si riscosse come da un sogno, chiuse la bocca con un colpo secco della mandibola e fece un mezzo passo avanti, il busto proteso, pronto ad appropriarsi di quella figura che, solo la sera prima, aveva usato come si usa un oggetto prezioso ma a portata di mano.

Ma il contatto non avvenne.

La mano di Leda, affusolata, ferma e decisa, gli si posò sul petto con forza contenuta ma innegabile.
Una barriera fisica, elegante e assoluta.
I suoi occhi erano fissi nei suoi. Nessun tremito, nessuna esitazione.

«Mi sta bene giocare,» disse, con voce bassa ma carica di un controllo freddo e calcolato, «ma dobbiamo dare un epilogo a questo gioco. Io non sono tua. Non sono una bambola da usare quando ti va. Non posso concedermi a tutte le tue perversioni come e quando vuoi.»

Lui sorrise.
Un ghigno storto, sprezzante, come se le sue parole fossero un siparietto già scritto, già sentito.
«Non ricordi più le tue foto?» disse, inclinando la testa di lato. «A viso scoperto. Nuda. Sorridente. Sottomessa. Vuoi che comincino a girare sul web? Sai quanto durerebbe la tua reputazione? Mezz’ora?»

Leda non mosse un muscolo. La sua mano era ancora lì, tra loro. Ma ora premeva un po’ di più.

«No,» rispose con calma, «non voglio. Ma sono pronta a rischiare. La pubblica gogna non mi spaventa quanto una vita vissuta da schiava inconsapevole. Senza accordo, senza confini, non ci sarà nessuna obbedienza. Né oggi, né domani.»

Silenzio.
Un secondo lungo come una vertigine.
Poi fu lui a parlare.

«Stiamo trattando, quindi?»
Un guizzo di sfida, ancora convinto di poter girare la partita a suo favore.

Leda inclinò appena il mento, le labbra si curvarono in un sorriso sottile, enigmatico.
Aveva già la risposta pronta. Una frase sentita anni prima pronunciata da John Milton ne "l'avvocato del diavolo", tornata alla mente come un lampo nel momento esatto in cui serviva.

«Sempre.»
Il tono era secco. Implacabile.
La risposta di chi ha scelto, non di chi cede.

E per un istante, fu lui ad arretrare.
Solo un passo. Ma bastò.

Leda lo osservava con la stessa intensità di chi sa di trovarsi davanti a un bivio. Non era paura, non era neppure sottomissione: era consapevolezza. Di sé, dell’altro, di quel desiderio oscuro che le bruciava sotto la pelle e che ora trovava una forma, una cornice, un limite entro cui esplodere. Una perversione organizzata, canalizzata, contrattata.

L’uomo la fissava. Il respiro più veloce, il petto appena sollevato.
Era evidente quanto fosse eccitato. Lo tradiva la voce roca, l’impercettibile tremito della mandibola, lo sguardo che ogni tanto scendeva ai seni appena coperti, al bordo lucido del tanga che si affacciava sfacciato sotto l’orlo della minigonna, al gesto lento con cui Leda ancora teneva la mano contro il suo petto.

«Va bene, bellina, ci sto», disse infine.
E fu come se nell’aria si rompesse qualcosa di invisibile. Un’onda, una frattura, un cambio di assetto.

«Questa sera sarai a mia completa disposizione fino all’ora delle streghe. Poi richiederò i tuoi servizi per altre tre volte. Poi sarai libera. Ma fino ad allora, ti voglio mia. Quando ti contatterò, avrai quarantotto ore per darmi disponibilità. Nessun incontro durerà più di sei ore. Niente sorprese, niente fughe. Ma…»

Fece un passo più vicino. La sua voce si abbassò, divenne quasi carezzevole nella sua minaccia.

«In quelle ore, in quelle notti, dovrai comportarti come se fossi tu ad avermi cercato. Come se ogni mio ordine fosse un tuo desiderio, ogni atto un dono che vuoi offrire. Dovrai dare tutta te stessa. Senza limiti. Senza remore. Senza ripensamenti. Dovrai essere una forza della natura, qualcosa che travolge, seduce, devasta. Non ti fermerai mai. Sarai fiamma pura. E solo il tuo interlocutore avrà il diritto di dire “basta”.»

Un ultimo sguardo. Non di sfida, ma di invito.

«Ci stai, Leda?»

Leda teneva ancora la mano poggiata sul petto dell’uomo, ferma, decisa. La distanza tra i loro corpi era minima, ma in quel piccolo spazio si giocava tutta la partita. I suoi occhi, chiari e intensi, erano fissi nei suoi. Leggeva l’eccitazione che lo divorava, la tensione nei muscoli delle braccia, il modo in cui il respiro si era fatto affannoso, irregolare. Lo stava consumando senza neanche toccarlo davvero.

«Solo un’altra volta dopo questa,» sussurrò. «Poi, potrai solo proporre. E sarò io a decidere se, quando, e per chi.»

Lui accennò un ghigno, ma non trovò la voce. La ragazza lo stava soggiogando. Con il corpo, con il tono, con la calma assoluta di chi conosce il potere che ha addosso.

Fu lei a muoversi. Lentamente.
La mano scese dal petto verso l’addome, scivolando con leggerezza. Un tocco morbido, quasi distratto, che però incendiava ogni centimetro. Scese ancora, trovandolo già teso, palpitante. Gli occhi dell’uomo si velarono per un istante. Cedimento. Il primo.

Leda sorrise appena. Si avvicinò, fino a sfiorare con il viso la sua guancia. Non lo guardava più negli occhi, ora lo respirava, lo sfiorava con il fiato, con la pelle. La lingua tracciò un piccolo solco sul lobo del suo orecchio, lentissima. Poi la voce, sussurrata tra labbra e fiato caldo:

«Oppure…»
Un’altra carezza, ancora più lenta, più esplicita.
«…ti lascio qui. A fissarmi il sedere mentre mi allontano. Tutto ingrifato. A sognare per settimane cosa avresti potuto farmi.»

Il corpo dell’uomo si irrigidì, poi tremò appena. Un tremore vero, viscerale, che nulla aveva a che vedere con la volontà. Era stato sconfitto. Totalmente. Ogni pretesa, ogni minaccia, ogni ricatto. Disinnescati con una carezza e tre frasi sussurrate.

«Va bene… ci sto,» disse infine, quasi con rabbia, ma più con frustrazione. Non era stato lui a vincere.
Fu in quel momento che si slacciò i pantaloni con movimenti veloci, istintivi, e li lasciò cadere sui fianchi, con l’orgoglio esposto e teso.
«Adesso vai giù,» ordinò. «Sai bene cosa devi fare.»

Leda lo guardò per un lungo istante. Lo sguardo stupito era solo apparente. In realtà, stava valutando. Analizzando. Dominando anche il silenzio.

«Qui?» chiese, con voce teatrale, e un sopracciglio sollevato. «In mezzo alla strada? Potrebbero riconoscermi.»

Lui rispose subito, cercando di non tremare:
«Questo è l’accordo. Altrimenti ancheggia pure via… e sogna che cosa ti sei persa.»

Si guardò intorno. Strada deserta. Nessuno affacciato.
Poi si voltò verso di lui, e con una lentezza sensuale si abbassò, non per cedere… ma per marchiare la sua vittoria sul campo del desiderio.

Si inginocchiò con lentezza, quasi con solennità, come se il gesto avesse un significato più grande del semplice atto. La coda alta oscillava appena, seguendo il movimento fluido del corpo, mentre le sue mani si posarono con sicurezza sulle cosce dell’uomo. Il suo volto si avvicinò a lui con la calma predatoria di chi sa esattamente come abbattere la preda: senza violenza, senza fretta… solo precisione.

Lo accolse con grazia, con arte, con quel talento oscuro che si nutre di ogni reazione, di ogni spasmo involontario.
L’uomo gemette piano, cercò di restare in piedi con dignità, ma ogni secondo che passava lo svuotava di volontà, di equilibrio, di lucidità.

E mentre lei lo divorava un centimetro alla volta, qualcosa si mosse attorno a loro.

Una macchina girò l’angolo e rallentò.
Il conducente, un uomo solo, abbassò la radio e lo sguardo, impietrito sul volante. Il suo piede rimase sul freno, la testa appena girata, incredulo davanti a quella visione sul ciglio della strada: una donna inginocchiata davanti a un uomo, in piena luce del tramonto, bellissima, in minigonna lucida e camicia svolazzante, con la testa che si muoveva lentamente e senza vergogna.

Non era volgarità. Era rituale.
E quello spettatore casuale rimase lì, intrappolato nel momento, come se qualcosa di proibito ma magnetico lo avesse incatenato.

Un secondo passante arrivò sul marciapiede opposto, si fermò per leggere qualcosa sul telefono, alzò lo sguardo, vide… e si bloccò. Lo smartphone gli cadde quasi dalle mani. Fece un mezzo passo indietro, come se non fosse sicuro di dover assistere o scappare. Ma non si mosse. Restò. Immobile.

Leda lo sapeva. Aveva percepito tutto. Ma non cambiò ritmo, non si fermò. Anzi, il sapere di essere osservata la accese di più. La dominava, la scena. La plasmava. L’uomo davanti a lei tremava. Ogni respiro diventava più corto, più urgente.

E poi, inevitabilmente, accadde.
Lo sentì cedere. Tutto il corpo. Le gambe, il ventre, le mani.
Rimase lì, con lei.
Fino all’ultimo spasmo.
Fino a quando non fu più in grado di reggersi in piedi.

Lei allora si alzò, e solo in quel momento guardò negli occhi chi stava passando lentamente con l’auto, senza fretta, senza fretta… solo confusione e desiderio.
Un lampo di sfida le attraversò lo sguardo.

Si voltò infine verso di lui. Il maschio. Il dominatore della sera prima.
Ora piegato, vulnerabile, incapace di parlare.

Leda gli sistemò la camicia, come se fosse stato un amante da accompagnare fuori da un hotel. Poi, con voce calma, profonda, lo guardò e disse:

«E adesso?»

Un soffio. Un veleno dolce.
Un promemoria.
“Sono tua fino a mezzanotte, ricordalo. E adesso? Che te ne fai di me?”

Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-06-11
4 1 1
visite
1 0
voti
valutazione
7.9
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Runner 5

racconto sucessivo

Runner 7
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.