Runner 2
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Leda era lì, immobile davanti al cancello alto del parco, le braccia lungo i fianchi, il cuore che batteva forte ma regolare, come se avesse accettato ormai da tempo ciò che stava per accadere. La camicetta bianca, senza maniche e priva di bottoni, le aderiva al busto grazie alla tensione esercitata dalla minigonna nera, cortissima e così stretta da sembrare una seconda pelle. Non portava nulla sotto. Nessun reggiseno, nessun tanga. Nulla a separare la pelle dalla notte.
Si chinò lentamente, sfiorando l’asfalto coi polpastrelli per sfilare le scarpe col tacco a spillo, le sollevò e le gettò con un gesto deciso oltre la cancellata. Il rumore secco dei tacchi contro il terreno silenzioso del parco sembrò amplificato nel buio. Fece un respiro profondo, poi si guardò attorno: nessuno.
Con un movimento agile, quasi fluido, si issò sul cancello. Le mani cercavano gli appigli più stabili mentre le gambe guadagnavano altezza. Nell'attimo in cui una coscia scavalcava la ringhiera, la gonna si alzò ulteriormente, rivelando tutto ciò che fino a quel momento la penombra e il pudore avevano appena mascherato. La brezza della sera, leggera ma decisa, le accarezzò l'interno delle cosce e salì come dita invisibili tra le pieghe più intime, provocandole un brivido netto, fisico.
Una volta dall'altra parte, atterrò leggera sull’erba umida, a piedi nudi. Si chinò a raccogliere subito le scarpe, le indossò con movimenti rapidi, quasi automatici, e tirò su la schiena, sentendo i tacchi affondare appena nella terra. Guardò l’orologio: le 22:01. Era già in ritardo.
Il ghiaietto del vialetto scricchiolava sotto i suoi passi mentre si avviava con decisione verso la panchina. Quella panchina. Quella indicata, poco visibile da fuori, schermata da un angolo di siepi e da una leggera ansa nel sentiero. Lì dentro, tutto sembrava ovattato, separato dal mondo. E il parco, a quell’ora chiuso, era come un recinto denso, silenzioso, in cui ogni ombra poteva essere un pericolo.
Il cuore prese a batterle più forte. Le gambe, ancora tese per lo scavalcamento, si muovevano ora per inerzia, ma dentro di lei era scoppiato un turbine. L’adrenalina si era messa in moto, la respirazione accelerava. Si chiedeva cosa stesse facendo. Perché non fosse rimasta a casa. Chi ci fosse dietro quel messaggio. Se l’avrebbe riconosciuto. Se era davvero sola. Se voleva davvero esserlo.
Man mano che si avvicinava alla panchina, qualcosa cominciò a prendere forma nell’oscurità. Tre cavalletti disposti con ordine quasi chirurgico, ciascuno sormontato da un grande diffusore bianco, simile a un ombrello da studio. La disposizione era precisa, studiata. Nulla lasciato al caso. Leda rallentò il passo, lo sguardo che scrutava ogni angolo, cercando un movimento, un respiro, un’ombra. Ma tutto sembrava immobile. Morto.
Arrivata dietro alla panchina, si fermò, il cuore ormai in subbuglio, le mani tremanti. Posò le dita sullo schienale, poi il ventre, lasciandosi andare in avanti con un gesto lento, misurato, come se quel legno potesse assorbirle i dubbi e la paura. Le braccia si allungarono sul bordo superiore, il volto abbassato, i capelli che cadevano ai lati come sipari.
Poi, senza un vero motivo, senza pensarci, sollevò lentamente la gamba destra, piegandola indietro fino a farle disegnare un arco morbido nell’aria. Il piede, ancora calzato nel tacco, rimase sospeso. Un gesto femminile, tenero, quasi cinematografico. Come nei film di un’altra epoca, quando il bacio era l’apice della tensione, non il punto di partenza.
In quell’istante, mentre restava ferma in quella posa assurda e delicata, la realtà la colpì con violenza.
Cosa stava facendo lì?
Cosa si aspettava che accadesse?
E loro, chiunque fossero, cosa volevano da lei?
Il messaggio era stato chiaro. Il tono era di comando. La minigonna. La camicetta senza bottoni. Nessun intimo. Erano istruzioni. Come si dà un ordine a una marionetta. E lei aveva obbedito.
Si chiese se fosse davvero ricatto, o se in fondo una parte di lei cercasse da tempo un’occasione per cedere. Per svestirsi non solo di vestiti, ma di regole, di morale, di equilibrio. Forse non era stata la paura a farle alzare la gamba. Forse era stato un impulso più oscuro, un bisogno di essere vista, desiderata, consumata.
Fu allora che accadde.
Una raffica di flash esplose tutt’intorno. Una, due, tre fonti di luce sincronizzate che squarciarono il buio come un lampo improvviso.
Leda sussultò, il respiro le si mozzò nel petto, la vista offuscata dall’intensità del bianco che aveva preso tutto. Si irrigidì per un istante, poi chiuse gli occhi, incapace di muoversi, come se quel gesto – quella posa – fosse diventato una gabbia da cui non poteva più uscire.
Il cuore in gola, la gamba sollevata che lentamente tornava a terra, come svuotata di forza. Leda si tirò su appena, restando appoggiata alla panchina, lo sguardo perso nel vuoto. Il panico le si stava insinuando dentro, come una morsa sottile che le stringeva le viscere. Tremava, ma non dal freddo.
Poi una voce.
Bassa. Decisa. Inconfondibile.
«Sei in ritardo. E i ritardi si pagano caro.»
Il tono era calmo, misurato. Proprio per questo ancora più spietato. Nessun urlo. Nessuna esitazione.
«Ora sali in piedi sulla panchina. E siediti sulla spalliera. Girata verso quell’albero. Accavalla le gambe.»
Lei rimase immobile per un istante. Un secondo eterno in cui il cervello lottava con il corpo. Ma poi obbedì. Le mani scivolarono sul legno, trovando un appoggio, e con un movimento incerto si issò in piedi sulla seduta. I tacchi suonavano un tonfo sordo contro il legno. Si voltò, incerta, verso l’albero indicato – una figura scura nella notte – e si sedette a cavalcioni della spalliera, piegandosi leggermente in avanti, accavallando le gambe come ordinato.
Fu in quell’istante, preciso come un meccanismo, che un’altra raffica di flash esplose. Quattro. Cinque. Una sequenza secca, implacabile.
Ogni scatto era un’esplosione, ogni lampo un pugno nel ventre.
Ogni click, un sussulto nelle viscere. Leda strinse le dita attorno al bordo della spalliera, lo stomaco contratto, il volto ancora rivolto verso quell’albero muto.
E poi la voce tornò.
Ancora più gelida. Più cruda.
«Ora apri le gambe. Tieni i piedi sul sedile della panchina. Fammi vedere cosa c’è lì in mezzo, troietta.»
Il sangue le rimbombava nelle tempie. Per un attimo ebbe la sensazione che le ginocchia non le avrebbero retto. Ma restò immobile. L’eco di quell’insulto rimbalzava nella sua testa, più assordante dei flash. Era sola. Eppure non lo era. Il corpo era sotto osservazione, dentro un obiettivo, ma il suo pensiero era intrappolato. Una parte di lei urlava di smettere, un’altra aspettava il prossimo comando.
Leda restò ferma, il respiro affannoso, il cuore ormai un tamburo dentro il petto. L’ordine era chiaro, inequivocabile. Tremava. Ma si mosse. Lentamente, quasi con timore reverenziale, divaricò le gambe, puntando i tacchi sul legno della panchina. Lo fece con movimenti misurati, trattenendo il fiato, come se bastasse un solo respiro a farle perdere l’equilibrio.
Si fermò quando le sembrò di aver raggiunto il limite. Quello che poteva tollerare. Quello che le sembrava ancora umano.
Ma la voce tornò. Secca.
«Apri di più.»
Un colpo secco alle sue ultime resistenze.
Leda deglutì, chiuse gli occhi un istante, poi ubbidì. Portò le ginocchia ancora più in fuori, fino a sentire la gonna che si tendeva al massimo, appena sopra la piega più intima. E fu in quell’esatto momento che la luce la investì di nuovo.
Non una raffica. Non un assalto.
Flash singoli. Lenti. Accecanti.
Uno. Due. Tre. Ogni scatto era chirurgico, perfetto. Come se chi scattava sapesse esattamente dove puntare. Come se avesse già visto tutto e volesse solo fissarlo in modo definitivo. Il tempo tra un lampo e l’altro era appena sufficiente per lasciarla vulnerabile, incapace di reagire, ma cosciente.
Ogni click era un colpo al ventre. Un messaggio al cervello. Un'impronta sulla pelle.
Poi la voce tornò. Ancora.
Bassa, eppure netta.
«Ora... sfilati la camicia dalla gonna. Voglio vedere anche il resto.»
Leda non rispose. Non poteva.
Sentiva le mani sudate, le dita che si chiudevano a pugno sulle cosce. Poi, lentamente, le portò al bordo della camicetta. La sentì aderente, trattenuta dalla minigonna come un sigillo. Eppure sapeva che bastava poco. Un gesto. E avrebbe ceduto tutto.
Le dita si mossero lentamente, incerte, mentre afferravano i bordi della camicetta dove era infilata nella minigonna. Bastò un piccolo strappo deciso, un movimento netto del polso, e il tessuto si liberò, sollevandosi. Un solo gesto, e i seni nudi apparvero sotto la luce diffusa del parco, inturgiditi non solo dal fresco della notte ma da quella tensione che saliva, ondata dopo ondata, attraverso la pelle.
Non fece in tempo a coprirsi, a esitare, a pensare.
Ripartirono i flash.
Non più caotici, non più spietati.
Ora sembravano orchestrati, ritmati, come un metronomo che scandiva il tempo di una trasformazione.
Ogni scatto era un faro puntato su di lei. Ogni immagine rubata, un frammento d’anima.
Eppure qualcosa, dentro Leda, iniziava a cambiare.
Il tremore si placò. Le spalle si raddrizzarono. La schiena si fece dritta, fiera.
Non più rannicchiata. Non più esposta con vergogna, ma esibita con una consapevolezza nuova, sorprendente persino per lei.
I seni tesi si alzavano e abbassavano con il respiro che si faceva profondo. Gli occhi, pur ancora lucidi, erano ora aperti. Fissi nel buio. Verso quella voce che la comandava. Che la dirigeva.
E sulle labbra, quasi inavvertito, si posò un accenno di sorriso.
Una curva leggera. Quasi un fremito.
Ogni click ora non era più una violenza, ma una carezza violenta, un colpo che non la spaventava, ma la eccitava.
Ogni scatto si infilava dentro di lei, nella sua intimità profonda, come se la luce stessa potesse toccarla dove nessuno era mai arrivato.
E lei reagiva.
Il corpo rispondeva. Il respiro mutava.
Quell’attenzione, quel controllo, non la schiacciavano più: la sollevavano, la nutrivano, la facevano sbocciare sotto gli occhi invisibili dell’obiettivo.
La voce giunse dal buio come un sussurro tagliente, affilato e preciso.
«Brava… vedo che ci stai prendendo gusto. Ora fammi vedere come ti tocchi il seno. Voglio che tu lo faccia per te. E per me.»
Leda tremò. Un brivido le attraversò la pelle, ma non era solo paura. C’era qualcosa di più profondo che la stava travolgendo, come un’onda che rompe gli argini. Un richiamo primordiale che non riusciva più a ignorare.
Chiuse gli occhi.
Un gesto lento, fluido, quasi delicato. La mano salì verso il petto, e le dita si posarono su di sé, leggere come una piuma. Era un gesto che conosceva, che aveva compiuto mille volte, ma lì, sotto quella luce intermittente, davanti a un occhio invisibile che la stava scrutando, assumeva un peso diverso. Era esibizione. Ma era anche liberazione.
Immaginò la sua stanza. Le lenzuola. Le pareti familiari. Un corpo vicino al suo, caldo, protettivo. Si rifugiò in quella fantasia mentre continuava a sfiorarsi, mentre cercava nel ricordo un riparo dalla tensione crescente.
Attraverso le palpebre chiuse, ogni flash le appariva come una fiamma rossa, un colpo improvviso che le scuoteva i pensieri. Il respiro si fece più profondo. Ogni impulso le parlava in una lingua antica, fatta di pelle, luce e battito.
E fu allora che, senza un vero ordine, come spinta da qualcosa che nasceva dentro di lei, portò l’altra mano più in basso. Un contatto fugace, istintivo. Bastò quello per percepirlo: il calore, l'umidità, la risposta del suo stesso corpo.
Il tempo sembrò fermarsi. Poi la voce tornò.
«Lo sapevo… che ti sarebbe piaciuto.»
I flash ripresero.
Non più in raffica.
Uno alla volta. Cadenzati. Spietatamente precisi.
Lei restava lì, seduta sulla spalliera della panchina, le gambe aperte, il busto nudo che si offriva alla luce. Non c’erano più barriere. Non resisteva più.
Ogni scatto non era più una violazione, ma una fiamma che la scaldava da dentro. Un sigillo su un desiderio mai davvero spento.
Sola. Esposta. Viva.
Il silenzio fu rotto ancora una volta dalla voce, più vicina, più sicura, come se avesse conquistato ogni centimetro della sua vulnerabilità.
«Sai in quanti ti stanno guardando adesso, Leda?»
Lei trattenne il respiro. Un brivido gelido le corse lungo la schiena.
«Sono più di duecento. E stanno pagando per questo. Per te. Ogni tuo gesto, ogni tuo respiro, sta facendo salire il contatore. Le foto? Andranno a ruba. Milano avrà una nuova stella… e sei tu.»
Il colpo non era fisico, ma le entrò dentro come un pugno al centro del petto.
Non era più un gioco tra lei e uno sconosciuto nel buio.
C’erano occhi. Tanti. Ovunque.
Lei, esposta. Senza nome. Ma non più senza volto.
«Non preoccuparti. La videocamera ha un software che ti protegge. Per ora. Se continuerai a collaborare, nessuno vedrà chi sei veramente. Ma se ti ribelli… allora sì. Allora tutti sapranno. Vedranno. Capiranno che tipo di donna sei.»
Leda non si mosse. Non disse nulla. Le mani ancora posate su di sé, il fiato corto, le guance roventi. Le parole si erano infilate nella mente come spine.
«Una donna che fa tutto questo... da sola. Senza essere costretta. Perché in fondo, lo desidera.»
Il cuore le martellava nel petto. Una parte di lei si vergognava. Un’altra, più profonda, non riusciva a ignorare il fuoco che le saliva dentro. Il senso di pericolo, di esposizione, di perdita di controllo, si mescolava a un’energia nuova, bruciante.
«Ora apri gli occhi… e prendi questo.»
La voce arrivò netta, improvvisa. Leda obbedì d’istinto, gli occhi ancora abbagliati dalle luci artificiali, spalancati verso il buio. Un attimo dopo, qualcosa volò nell’aria. Una sagoma scura, rapida. Allungò le mani e lo afferrò al volo, quasi senza pensarci, ancora col fiato sospeso.
Quando abbassò lo sguardo, lo riconobbe immediatamente.
Rimase immobile. Le dita attorno all’oggetto, il cuore come un tamburo impazzito nel petto. Il messaggio era chiarissimo. Non c’era spazio per interpretazioni.
La voce tornò, più cruda, più velenosa.
«Adesso usalo. Fallo davanti a tutti. Voglio che ti vedano. Tutti. Voglio che sappiano quanto lo vuoi. E se sarai brava… la prossima volta non sarà un oggetto.»
Il silenzio calò denso intorno a lei. Leda guardò l’oggetto tra le mani, come se contenesse la risposta a una domanda che non aveva mai avuto il coraggio di farsi. Era lì, seduta sulla spalliera, il corpo offerto alla luce, le mani tremanti. E in mezzo a tutto, quell’ordine. Crudo. Inaccettabile. Eppure… già compreso. Già interiorizzato.
Nel buio, non c’erano sguardi visibili, ma lei li sentiva. Li percepiva come un calore che la circondava, che la stringeva da ogni lato. Ogni secondo che passava la legava più saldamente a quella scena, a quel ruolo, a quella trasformazione.
E dentro di sé, in mezzo alla paura, all’umiliazione, al senso di pericolo, qualcosa di inconfessabile e profondo le sussurrava che no, non era del tutto costretta.
Che c’era una parte di lei – nascosta, repressa, oscura – che stava accettando. E che forse stava anche cominciando a desiderare di spingersi ancora oltre.
Leda alzò lo sguardo verso il punto da cui proveniva quella voce. Gli occhi pieni di terrore, la gola chiusa dal nodo dell’ansia.
«No… questo no. Ti prego…»
Le parole le uscirono spezzate, strozzate da un singhiozzo. Lacrime amare cominciarono a solcarle le guance, tracciando righe scure nel trucco ormai disfatto. Le mani stringevano l’oggetto con forza, le nocche bianche per la tensione, come se potesse spezzarlo solo stringendolo.
La risposta fu immediata, tagliente come un rasoio.
«Come vuoi. Allora tolgo il filtro. E poi vengo a prenderti io. Preferisci?»
Il mondo si fermò per un istante. Leda strabuzzò gli occhi, un singulto secco le fece vibrare le spalle. Nessuna via di fuga. Nessun appiglio.
E così, portò lentamente l’oggetto tra le gambe, la testa bassa, il volto coperto di lacrime. Il corpo teso come una corda tirata al massimo.
Lo fece. Senza forza. Senza dignità. Piangendo.
Ogni gesto era un paradosso: la mente che si spezzava, il corpo che reagiva. Le mani si muovevano meccaniche, veloci, come se sapessero da sole cosa fare. Le spalle scosse dai singhiozzi. La pelle bagnata, confusa tra pianto e sudore. Eppure, nel centro di quel disordine, un nucleo caldo prendeva forma, pulsando sotto le dita, rispondendo al tocco.
Il trucco colava sulle guance, la vergogna le bruciava dentro, ma qualcosa si accendeva, incontrollabile. Un impulso che non ascoltava più il dolore, ma solo se stesso.
Le lacrime continuarono a scendere, sempre più copiose.
Fino a che, impercettibilmente, i singhiozzi non cambiarono.
Non più pianto.
Ma sospiri.
Un respiro spezzato, uno dopo l’altro. Come onde che si rincorrono.
Un altro ritmo. Un’altra voce dentro di lei.
Una voce che non chiedeva più permesso.
Leda non sapeva più dove finiva il dolore e dove cominciava il piacere. Ma quando arrivò, fu come un’onda gigantesca, inarrestabile, che la travolse fino a lasciarla svuotata e tremante. Un piacere alto, assoluto, di quelli che non credeva nemmeno di poter contenere. Si abbandonò, vinta e attraversata.
Il corpo si lasciò cadere lentamente, scivolando dalla spalliera fino a sedersi sul legno freddo della panchina. Il petto si sollevava irregolare, il ventre ancora colmo, i muscoli tesi. Le lacrime scendevano ancora, ma ora mescolate a qualcosa di diverso: sollievo, forse. Confusione. Rilascio.
Chiuse gli occhi. Non aveva la forza di guardare.
Attorno a lei, il buio si era ripreso ogni cosa. Qualche foglia frusciava nel vento. Un lieve trambusto, lontano, indefinito. Ma non fece in tempo a chiedersi chi fosse. Il rumore cessò. Restarono solo i grilli. Solo il respiro. Solo lei.
Con un gesto lento, quasi rituale, estrasse da sé ciò che aveva accolto e, con un movimento deciso e preciso, lo lanciò nel cestino lì vicino, centrando l’apertura come un cestista esperto. Il rumore sordo della plastica contro il metallo chiuse il momento, come un punto alla fine di una frase.
Si alzò lentamente. Il corpo tremava. La camicetta aderiva ancora alla pelle come un involucro troppo sottile per contenerla. Non aveva nulla con cui asciugarsi, nulla con cui coprirsi, nulla da stringere se non le braccia incrociate sul petto.
Si avvicinò alla fontanella, chinandosi sotto il getto d’acqua per bagnarsi il viso, raccogliendo con le mani tremanti ciò che poteva. Le gocce freddissime le scivolarono sulle guance, sciogliendo il trucco rimasto, lavando via le ultime tracce visibili di ciò che era appena accaduto.
Poi, senza voltarsi, ripercorse il vialetto da cui era arrivata. I tacchi sul ghiaietto, il vento tra i capelli, il parco che tornava a essere solo un parco.
La notte non diceva più nulla.
Solo i suoi passi, e il ritorno.
Verso casa.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
Si chinò lentamente, sfiorando l’asfalto coi polpastrelli per sfilare le scarpe col tacco a spillo, le sollevò e le gettò con un gesto deciso oltre la cancellata. Il rumore secco dei tacchi contro il terreno silenzioso del parco sembrò amplificato nel buio. Fece un respiro profondo, poi si guardò attorno: nessuno.
Con un movimento agile, quasi fluido, si issò sul cancello. Le mani cercavano gli appigli più stabili mentre le gambe guadagnavano altezza. Nell'attimo in cui una coscia scavalcava la ringhiera, la gonna si alzò ulteriormente, rivelando tutto ciò che fino a quel momento la penombra e il pudore avevano appena mascherato. La brezza della sera, leggera ma decisa, le accarezzò l'interno delle cosce e salì come dita invisibili tra le pieghe più intime, provocandole un brivido netto, fisico.
Una volta dall'altra parte, atterrò leggera sull’erba umida, a piedi nudi. Si chinò a raccogliere subito le scarpe, le indossò con movimenti rapidi, quasi automatici, e tirò su la schiena, sentendo i tacchi affondare appena nella terra. Guardò l’orologio: le 22:01. Era già in ritardo.
Il ghiaietto del vialetto scricchiolava sotto i suoi passi mentre si avviava con decisione verso la panchina. Quella panchina. Quella indicata, poco visibile da fuori, schermata da un angolo di siepi e da una leggera ansa nel sentiero. Lì dentro, tutto sembrava ovattato, separato dal mondo. E il parco, a quell’ora chiuso, era come un recinto denso, silenzioso, in cui ogni ombra poteva essere un pericolo.
Il cuore prese a batterle più forte. Le gambe, ancora tese per lo scavalcamento, si muovevano ora per inerzia, ma dentro di lei era scoppiato un turbine. L’adrenalina si era messa in moto, la respirazione accelerava. Si chiedeva cosa stesse facendo. Perché non fosse rimasta a casa. Chi ci fosse dietro quel messaggio. Se l’avrebbe riconosciuto. Se era davvero sola. Se voleva davvero esserlo.
Man mano che si avvicinava alla panchina, qualcosa cominciò a prendere forma nell’oscurità. Tre cavalletti disposti con ordine quasi chirurgico, ciascuno sormontato da un grande diffusore bianco, simile a un ombrello da studio. La disposizione era precisa, studiata. Nulla lasciato al caso. Leda rallentò il passo, lo sguardo che scrutava ogni angolo, cercando un movimento, un respiro, un’ombra. Ma tutto sembrava immobile. Morto.
Arrivata dietro alla panchina, si fermò, il cuore ormai in subbuglio, le mani tremanti. Posò le dita sullo schienale, poi il ventre, lasciandosi andare in avanti con un gesto lento, misurato, come se quel legno potesse assorbirle i dubbi e la paura. Le braccia si allungarono sul bordo superiore, il volto abbassato, i capelli che cadevano ai lati come sipari.
Poi, senza un vero motivo, senza pensarci, sollevò lentamente la gamba destra, piegandola indietro fino a farle disegnare un arco morbido nell’aria. Il piede, ancora calzato nel tacco, rimase sospeso. Un gesto femminile, tenero, quasi cinematografico. Come nei film di un’altra epoca, quando il bacio era l’apice della tensione, non il punto di partenza.
In quell’istante, mentre restava ferma in quella posa assurda e delicata, la realtà la colpì con violenza.
Cosa stava facendo lì?
Cosa si aspettava che accadesse?
E loro, chiunque fossero, cosa volevano da lei?
Il messaggio era stato chiaro. Il tono era di comando. La minigonna. La camicetta senza bottoni. Nessun intimo. Erano istruzioni. Come si dà un ordine a una marionetta. E lei aveva obbedito.
Si chiese se fosse davvero ricatto, o se in fondo una parte di lei cercasse da tempo un’occasione per cedere. Per svestirsi non solo di vestiti, ma di regole, di morale, di equilibrio. Forse non era stata la paura a farle alzare la gamba. Forse era stato un impulso più oscuro, un bisogno di essere vista, desiderata, consumata.
Fu allora che accadde.
Una raffica di flash esplose tutt’intorno. Una, due, tre fonti di luce sincronizzate che squarciarono il buio come un lampo improvviso.
Leda sussultò, il respiro le si mozzò nel petto, la vista offuscata dall’intensità del bianco che aveva preso tutto. Si irrigidì per un istante, poi chiuse gli occhi, incapace di muoversi, come se quel gesto – quella posa – fosse diventato una gabbia da cui non poteva più uscire.
Il cuore in gola, la gamba sollevata che lentamente tornava a terra, come svuotata di forza. Leda si tirò su appena, restando appoggiata alla panchina, lo sguardo perso nel vuoto. Il panico le si stava insinuando dentro, come una morsa sottile che le stringeva le viscere. Tremava, ma non dal freddo.
Poi una voce.
Bassa. Decisa. Inconfondibile.
«Sei in ritardo. E i ritardi si pagano caro.»
Il tono era calmo, misurato. Proprio per questo ancora più spietato. Nessun urlo. Nessuna esitazione.
«Ora sali in piedi sulla panchina. E siediti sulla spalliera. Girata verso quell’albero. Accavalla le gambe.»
Lei rimase immobile per un istante. Un secondo eterno in cui il cervello lottava con il corpo. Ma poi obbedì. Le mani scivolarono sul legno, trovando un appoggio, e con un movimento incerto si issò in piedi sulla seduta. I tacchi suonavano un tonfo sordo contro il legno. Si voltò, incerta, verso l’albero indicato – una figura scura nella notte – e si sedette a cavalcioni della spalliera, piegandosi leggermente in avanti, accavallando le gambe come ordinato.
Fu in quell’istante, preciso come un meccanismo, che un’altra raffica di flash esplose. Quattro. Cinque. Una sequenza secca, implacabile.
Ogni scatto era un’esplosione, ogni lampo un pugno nel ventre.
Ogni click, un sussulto nelle viscere. Leda strinse le dita attorno al bordo della spalliera, lo stomaco contratto, il volto ancora rivolto verso quell’albero muto.
E poi la voce tornò.
Ancora più gelida. Più cruda.
«Ora apri le gambe. Tieni i piedi sul sedile della panchina. Fammi vedere cosa c’è lì in mezzo, troietta.»
Il sangue le rimbombava nelle tempie. Per un attimo ebbe la sensazione che le ginocchia non le avrebbero retto. Ma restò immobile. L’eco di quell’insulto rimbalzava nella sua testa, più assordante dei flash. Era sola. Eppure non lo era. Il corpo era sotto osservazione, dentro un obiettivo, ma il suo pensiero era intrappolato. Una parte di lei urlava di smettere, un’altra aspettava il prossimo comando.
Leda restò ferma, il respiro affannoso, il cuore ormai un tamburo dentro il petto. L’ordine era chiaro, inequivocabile. Tremava. Ma si mosse. Lentamente, quasi con timore reverenziale, divaricò le gambe, puntando i tacchi sul legno della panchina. Lo fece con movimenti misurati, trattenendo il fiato, come se bastasse un solo respiro a farle perdere l’equilibrio.
Si fermò quando le sembrò di aver raggiunto il limite. Quello che poteva tollerare. Quello che le sembrava ancora umano.
Ma la voce tornò. Secca.
«Apri di più.»
Un colpo secco alle sue ultime resistenze.
Leda deglutì, chiuse gli occhi un istante, poi ubbidì. Portò le ginocchia ancora più in fuori, fino a sentire la gonna che si tendeva al massimo, appena sopra la piega più intima. E fu in quell’esatto momento che la luce la investì di nuovo.
Non una raffica. Non un assalto.
Flash singoli. Lenti. Accecanti.
Uno. Due. Tre. Ogni scatto era chirurgico, perfetto. Come se chi scattava sapesse esattamente dove puntare. Come se avesse già visto tutto e volesse solo fissarlo in modo definitivo. Il tempo tra un lampo e l’altro era appena sufficiente per lasciarla vulnerabile, incapace di reagire, ma cosciente.
Ogni click era un colpo al ventre. Un messaggio al cervello. Un'impronta sulla pelle.
Poi la voce tornò. Ancora.
Bassa, eppure netta.
«Ora... sfilati la camicia dalla gonna. Voglio vedere anche il resto.»
Leda non rispose. Non poteva.
Sentiva le mani sudate, le dita che si chiudevano a pugno sulle cosce. Poi, lentamente, le portò al bordo della camicetta. La sentì aderente, trattenuta dalla minigonna come un sigillo. Eppure sapeva che bastava poco. Un gesto. E avrebbe ceduto tutto.
Le dita si mossero lentamente, incerte, mentre afferravano i bordi della camicetta dove era infilata nella minigonna. Bastò un piccolo strappo deciso, un movimento netto del polso, e il tessuto si liberò, sollevandosi. Un solo gesto, e i seni nudi apparvero sotto la luce diffusa del parco, inturgiditi non solo dal fresco della notte ma da quella tensione che saliva, ondata dopo ondata, attraverso la pelle.
Non fece in tempo a coprirsi, a esitare, a pensare.
Ripartirono i flash.
Non più caotici, non più spietati.
Ora sembravano orchestrati, ritmati, come un metronomo che scandiva il tempo di una trasformazione.
Ogni scatto era un faro puntato su di lei. Ogni immagine rubata, un frammento d’anima.
Eppure qualcosa, dentro Leda, iniziava a cambiare.
Il tremore si placò. Le spalle si raddrizzarono. La schiena si fece dritta, fiera.
Non più rannicchiata. Non più esposta con vergogna, ma esibita con una consapevolezza nuova, sorprendente persino per lei.
I seni tesi si alzavano e abbassavano con il respiro che si faceva profondo. Gli occhi, pur ancora lucidi, erano ora aperti. Fissi nel buio. Verso quella voce che la comandava. Che la dirigeva.
E sulle labbra, quasi inavvertito, si posò un accenno di sorriso.
Una curva leggera. Quasi un fremito.
Ogni click ora non era più una violenza, ma una carezza violenta, un colpo che non la spaventava, ma la eccitava.
Ogni scatto si infilava dentro di lei, nella sua intimità profonda, come se la luce stessa potesse toccarla dove nessuno era mai arrivato.
E lei reagiva.
Il corpo rispondeva. Il respiro mutava.
Quell’attenzione, quel controllo, non la schiacciavano più: la sollevavano, la nutrivano, la facevano sbocciare sotto gli occhi invisibili dell’obiettivo.
La voce giunse dal buio come un sussurro tagliente, affilato e preciso.
«Brava… vedo che ci stai prendendo gusto. Ora fammi vedere come ti tocchi il seno. Voglio che tu lo faccia per te. E per me.»
Leda tremò. Un brivido le attraversò la pelle, ma non era solo paura. C’era qualcosa di più profondo che la stava travolgendo, come un’onda che rompe gli argini. Un richiamo primordiale che non riusciva più a ignorare.
Chiuse gli occhi.
Un gesto lento, fluido, quasi delicato. La mano salì verso il petto, e le dita si posarono su di sé, leggere come una piuma. Era un gesto che conosceva, che aveva compiuto mille volte, ma lì, sotto quella luce intermittente, davanti a un occhio invisibile che la stava scrutando, assumeva un peso diverso. Era esibizione. Ma era anche liberazione.
Immaginò la sua stanza. Le lenzuola. Le pareti familiari. Un corpo vicino al suo, caldo, protettivo. Si rifugiò in quella fantasia mentre continuava a sfiorarsi, mentre cercava nel ricordo un riparo dalla tensione crescente.
Attraverso le palpebre chiuse, ogni flash le appariva come una fiamma rossa, un colpo improvviso che le scuoteva i pensieri. Il respiro si fece più profondo. Ogni impulso le parlava in una lingua antica, fatta di pelle, luce e battito.
E fu allora che, senza un vero ordine, come spinta da qualcosa che nasceva dentro di lei, portò l’altra mano più in basso. Un contatto fugace, istintivo. Bastò quello per percepirlo: il calore, l'umidità, la risposta del suo stesso corpo.
Il tempo sembrò fermarsi. Poi la voce tornò.
«Lo sapevo… che ti sarebbe piaciuto.»
I flash ripresero.
Non più in raffica.
Uno alla volta. Cadenzati. Spietatamente precisi.
Lei restava lì, seduta sulla spalliera della panchina, le gambe aperte, il busto nudo che si offriva alla luce. Non c’erano più barriere. Non resisteva più.
Ogni scatto non era più una violazione, ma una fiamma che la scaldava da dentro. Un sigillo su un desiderio mai davvero spento.
Sola. Esposta. Viva.
Il silenzio fu rotto ancora una volta dalla voce, più vicina, più sicura, come se avesse conquistato ogni centimetro della sua vulnerabilità.
«Sai in quanti ti stanno guardando adesso, Leda?»
Lei trattenne il respiro. Un brivido gelido le corse lungo la schiena.
«Sono più di duecento. E stanno pagando per questo. Per te. Ogni tuo gesto, ogni tuo respiro, sta facendo salire il contatore. Le foto? Andranno a ruba. Milano avrà una nuova stella… e sei tu.»
Il colpo non era fisico, ma le entrò dentro come un pugno al centro del petto.
Non era più un gioco tra lei e uno sconosciuto nel buio.
C’erano occhi. Tanti. Ovunque.
Lei, esposta. Senza nome. Ma non più senza volto.
«Non preoccuparti. La videocamera ha un software che ti protegge. Per ora. Se continuerai a collaborare, nessuno vedrà chi sei veramente. Ma se ti ribelli… allora sì. Allora tutti sapranno. Vedranno. Capiranno che tipo di donna sei.»
Leda non si mosse. Non disse nulla. Le mani ancora posate su di sé, il fiato corto, le guance roventi. Le parole si erano infilate nella mente come spine.
«Una donna che fa tutto questo... da sola. Senza essere costretta. Perché in fondo, lo desidera.»
Il cuore le martellava nel petto. Una parte di lei si vergognava. Un’altra, più profonda, non riusciva a ignorare il fuoco che le saliva dentro. Il senso di pericolo, di esposizione, di perdita di controllo, si mescolava a un’energia nuova, bruciante.
«Ora apri gli occhi… e prendi questo.»
La voce arrivò netta, improvvisa. Leda obbedì d’istinto, gli occhi ancora abbagliati dalle luci artificiali, spalancati verso il buio. Un attimo dopo, qualcosa volò nell’aria. Una sagoma scura, rapida. Allungò le mani e lo afferrò al volo, quasi senza pensarci, ancora col fiato sospeso.
Quando abbassò lo sguardo, lo riconobbe immediatamente.
Rimase immobile. Le dita attorno all’oggetto, il cuore come un tamburo impazzito nel petto. Il messaggio era chiarissimo. Non c’era spazio per interpretazioni.
La voce tornò, più cruda, più velenosa.
«Adesso usalo. Fallo davanti a tutti. Voglio che ti vedano. Tutti. Voglio che sappiano quanto lo vuoi. E se sarai brava… la prossima volta non sarà un oggetto.»
Il silenzio calò denso intorno a lei. Leda guardò l’oggetto tra le mani, come se contenesse la risposta a una domanda che non aveva mai avuto il coraggio di farsi. Era lì, seduta sulla spalliera, il corpo offerto alla luce, le mani tremanti. E in mezzo a tutto, quell’ordine. Crudo. Inaccettabile. Eppure… già compreso. Già interiorizzato.
Nel buio, non c’erano sguardi visibili, ma lei li sentiva. Li percepiva come un calore che la circondava, che la stringeva da ogni lato. Ogni secondo che passava la legava più saldamente a quella scena, a quel ruolo, a quella trasformazione.
E dentro di sé, in mezzo alla paura, all’umiliazione, al senso di pericolo, qualcosa di inconfessabile e profondo le sussurrava che no, non era del tutto costretta.
Che c’era una parte di lei – nascosta, repressa, oscura – che stava accettando. E che forse stava anche cominciando a desiderare di spingersi ancora oltre.
Leda alzò lo sguardo verso il punto da cui proveniva quella voce. Gli occhi pieni di terrore, la gola chiusa dal nodo dell’ansia.
«No… questo no. Ti prego…»
Le parole le uscirono spezzate, strozzate da un singhiozzo. Lacrime amare cominciarono a solcarle le guance, tracciando righe scure nel trucco ormai disfatto. Le mani stringevano l’oggetto con forza, le nocche bianche per la tensione, come se potesse spezzarlo solo stringendolo.
La risposta fu immediata, tagliente come un rasoio.
«Come vuoi. Allora tolgo il filtro. E poi vengo a prenderti io. Preferisci?»
Il mondo si fermò per un istante. Leda strabuzzò gli occhi, un singulto secco le fece vibrare le spalle. Nessuna via di fuga. Nessun appiglio.
E così, portò lentamente l’oggetto tra le gambe, la testa bassa, il volto coperto di lacrime. Il corpo teso come una corda tirata al massimo.
Lo fece. Senza forza. Senza dignità. Piangendo.
Ogni gesto era un paradosso: la mente che si spezzava, il corpo che reagiva. Le mani si muovevano meccaniche, veloci, come se sapessero da sole cosa fare. Le spalle scosse dai singhiozzi. La pelle bagnata, confusa tra pianto e sudore. Eppure, nel centro di quel disordine, un nucleo caldo prendeva forma, pulsando sotto le dita, rispondendo al tocco.
Il trucco colava sulle guance, la vergogna le bruciava dentro, ma qualcosa si accendeva, incontrollabile. Un impulso che non ascoltava più il dolore, ma solo se stesso.
Le lacrime continuarono a scendere, sempre più copiose.
Fino a che, impercettibilmente, i singhiozzi non cambiarono.
Non più pianto.
Ma sospiri.
Un respiro spezzato, uno dopo l’altro. Come onde che si rincorrono.
Un altro ritmo. Un’altra voce dentro di lei.
Una voce che non chiedeva più permesso.
Leda non sapeva più dove finiva il dolore e dove cominciava il piacere. Ma quando arrivò, fu come un’onda gigantesca, inarrestabile, che la travolse fino a lasciarla svuotata e tremante. Un piacere alto, assoluto, di quelli che non credeva nemmeno di poter contenere. Si abbandonò, vinta e attraversata.
Il corpo si lasciò cadere lentamente, scivolando dalla spalliera fino a sedersi sul legno freddo della panchina. Il petto si sollevava irregolare, il ventre ancora colmo, i muscoli tesi. Le lacrime scendevano ancora, ma ora mescolate a qualcosa di diverso: sollievo, forse. Confusione. Rilascio.
Chiuse gli occhi. Non aveva la forza di guardare.
Attorno a lei, il buio si era ripreso ogni cosa. Qualche foglia frusciava nel vento. Un lieve trambusto, lontano, indefinito. Ma non fece in tempo a chiedersi chi fosse. Il rumore cessò. Restarono solo i grilli. Solo il respiro. Solo lei.
Con un gesto lento, quasi rituale, estrasse da sé ciò che aveva accolto e, con un movimento deciso e preciso, lo lanciò nel cestino lì vicino, centrando l’apertura come un cestista esperto. Il rumore sordo della plastica contro il metallo chiuse il momento, come un punto alla fine di una frase.
Si alzò lentamente. Il corpo tremava. La camicetta aderiva ancora alla pelle come un involucro troppo sottile per contenerla. Non aveva nulla con cui asciugarsi, nulla con cui coprirsi, nulla da stringere se non le braccia incrociate sul petto.
Si avvicinò alla fontanella, chinandosi sotto il getto d’acqua per bagnarsi il viso, raccogliendo con le mani tremanti ciò che poteva. Le gocce freddissime le scivolarono sulle guance, sciogliendo il trucco rimasto, lavando via le ultime tracce visibili di ciò che era appena accaduto.
Poi, senza voltarsi, ripercorse il vialetto da cui era arrivata. I tacchi sul ghiaietto, il vento tra i capelli, il parco che tornava a essere solo un parco.
La notte non diceva più nulla.
Solo i suoi passi, e il ritorno.
Verso casa.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
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