Runner 7
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Lui si ricompose con movimenti lenti, ma non meccanici. Ogni gesto era teatrale, volutamente esagerato. Si sistemò i pantaloni, lisciò la camicia con la mano e si voltò verso di lei con un sorriso compiaciuto, quasi ironico. Poi, con una gentilezza inattesa – quasi beffarda nella sua forma perfetta – le porse il braccio.
«E adesso passeggiamo», disse, con tono pacato e sornione. «Come una coppietta. O come se fossi il tuo pappone… e tu la mia protetta.»
Leda alzò un sopracciglio, sorpresa dal gesto cavalleresco e dal tono che sembrava voler ridicolizzare ogni limite, ogni decenza. Ma prese il suo braccio, lasciandosi condurre. Per un istante, parvero davvero una coppia: perfetti nella simmetria, complici nel ritmo, eleganti nella scena assurda che stavano creando. Lei fece per tirare giù l’orlo della minigonna, istintivamente, come già tante volte prima, ma fu subito fermata dalla sua voce.
«No. Lasciala così com’è.»
Il tono era calmo, gentile… ma definitivo.
«Voglio che ti si vedano i glutei. La curva bassa. Il perizoma. Voglio che chiunque ci incroci capisca che sei in autoreggenti, che sei disponibile. Voglio che ti osservino e si chiedano quanto costa passare un’ora con te. E se qualcuno dovesse avere il coraggio di fermarsi e chiedertelo… beh, risponderò io. Perché questa sera tu sei mia.»
Leda non disse nulla.
Non c’era più spazio per le reazioni stupite: la tensione era diventata parte integrante del respiro, della postura, del modo in cui si lasciava condurre.
Ma una cosa la notava chiaramente: non c’era fretta. Non c’era frenesia.
«Stai tranquilla,» aggiunse lui, mentre il rumore dei tacchi di lei si fondeva col suono regolare dei suoi passi, «non ho intenzione di cederti. Non ancora. Ho ancora tante belle cosette da farti… e da farti fare. Ma tutte saranno solo per me. Stasera sei solo mia.»
Camminavano così, in mezzo alla zona industriale che cominciava a vivere le sue prime ombre della notte, come due figure uscite da un sogno perverso: lei, un’opera d’arte ambulante, nuda a metà e fiera, lui, il regista invisibile, l’uomo che l’aveva accesa e che ora non voleva spegnerla. Non subito.
I passi riecheggiavano ora su un terreno più duro, disordinato, punteggiato da pezzi di asfalto spaccato e chiazze d’erba selvatica. La zona si era fatta più viva, inaspettatamente.
Non affollata, ma popolata. Persone che correvano, auricolari nelle orecchie, lo sguardo fisso davanti a sé.
Un paio di senzatetto si erano accampati in un angolo, riparandosi con cartoni e bottiglie mezza vuote. Poco più in là, alcuni camion parcheggiati con le tendine tirate, silenziosi ma vivi: si intuivano figure che dormivano all’interno, con le radio accese a basso volume, qualche risata soffocata da dietro i finestrini.
Poi, sulla destra, una recinzione bassa e arrugginita, il cancello aperto, storto e cigolante al vento.
Era un vecchio deposito in disuso, forse un tempo una piccola officina. Ora solo silenzio, ombre e pareti scrostate dal tempo. Lui la guidò all’interno, la mano sempre ferma sul suo braccio, non con forza, ma con quell’autorità che Leda non riusciva più a separare dall’eccitazione.
Giunti all'interno, la portò vicino alla rete di ferro, dove la luce dei lampioni vicini arrivava in modo intermittente, a tratti tremolante.
«Mettiti così,» ordinò, con voce bassa.
E lei obbedì. Non perché costretta, ma perché ogni fibra del suo corpo lo stava aspettando.
Si girò, mise le mani sulla rete, si piegò leggermente in avanti, la fronte vicina al metallo freddo, lo sguardo tra le maglie arrugginite verso il mondo esterno, dove chiunque, passando, avrebbe potuto vederla.
Lui si mise dietro. Con lentezza, fece scivolare i lembi della camicia che ancora erano infilati nella minigonna, li fece passare dietro la schiena nuda, li tirò, li annodò.
La stoffa tese le braccia di lei verso dietro, spalancandole la camicia.
I seni nudi si svelarono alla notte.
Tesi. Liberi. Esposti.
Il metallo della recinzione freddo contro la pelle.
La luce gialla del lampione li accarezzava a tratti, rivelandone la forma, i capezzoli duri, la pelle arrossata dalla tensione. Bastava che qualcuno guardasse dentro.
Bastava che un camionista scostasse la tendina.
Bastava che uno di quei corridori rallentasse lo sguardo.
Lei era lì. Aperta. Scoperta.
E ancora non era successo nulla.
Ma tutto stava già accadendo.
Lui si avvicinò, sfiorandola con il respiro, col corpo, con l’odore della pelle calda.
Le mani sfiorarono le sue anche.
«Adesso ti faccio divertire,» sussurrò, con un ghigno che non chiedeva il permesso.
Le mani di lui si posarono lente sul retro delle cosce di Leda, risalendo con pazienza lungo la curva perfetta che la minigonna lasciava ormai scoperta senza remore. Quando la sollevò del tutto, scoprendo il tanga nero che incorniciava la sensualità della ragazza, Leda trattenne il fiato. Non per pudore. Perché sapeva cosa stava per arrivare.
La sua pelle vibrò quando sentì la mano di lui scivolare tra le sue gambe, come un’onda calda che cercava casa. Le dita esplorarono prima con lentezza, poi con precisione crescente, trovandola già pronta, ma non ancora al culmine.
«Non sei bagnata,» sussurrò con un ghigno, «ma ti ci porto io…»
E iniziò.
Un movimento lento, profondo, calibrato. Due dita, ma la consapevolezza di chi sapeva esattamente dove e come toccarla. Ogni affondo era una carezza e una presa. Ogni gesto, una firma sulla sua pelle.
Leda si aggrappò con più forza alla rete metallica, la fronte sfiorava il ferro.
Il respiro cambiò. Più corto. Più pieno.
La sensazione di essere lì, completamente esposta, la trasformava.
Era nuda, aperta, legata con i lembi della sua stessa camicetta. E stava provando un piacere che le saliva alla testa come una vertigine lenta, travolgente.
Cominciò a mugolare.
Non gemeva come per chiedere.
Mugolava come una creatura che sta per esplodere.
I suoi suoni si fusero con l’ambiente, con il metallo che vibrava, con la città che viveva al margine.
E qualcuno, poco lontano, sentì.
Un uomo malvestito, rannicchiato sotto un muretto, aprì gli occhi sentendo quei versi liquidi, profondi. Si alzò con lentezza, si avvicinò, attratto da un istinto primitivo e incuriosito. Raggiunse la recinzione, sbucando dalla penombra.
E Leda, tutta concentrata sulle dita che la stavano portando verso l’orlo del mondo, non se ne accorse subito.
Solo quando sentì un respiro diverso, ruvido, a pochi centimetri da sé, e delle mani nuove che sfioravano il suo ventre… aprì gli occhi di colpo.
Lo vide.
Un uomo qualunque. Uno sconosciuto. Sporco, trasandato.
Che la guardava. Che stava godendo della sua vista.
E in quell’istante, l’istinto si fuse col delirio.
Quello sguardo sporco. Quella realtà assurda. Le dita di lui sempre più profonde, più decise, più veloci. Il piacere arrivò come un’onda che non aveva chiesto il permesso.
Un orgasmo improvviso, sconvolgente, che le fece piegare le gambe.
Le mancò il fiato. Le mani tremarono sulla rete. Stava per cadere.
Ma lui era lì.
Dietro di lei.
L’aguzzino, il suo carnefice gentile.
La prese, la tenne, la sostenne… e continuò, infilandosi ancora di più dentro di lei.
Come se l’avesse voluta travolgere fino all’ultima scossa.
Leda era un corpo sciolto, spezzato dal piacere, sospeso tra umiliazione e gloria, tra sottomissione e dominio.
Il suo respiro, ancora strozzato, si sciolse in un singhiozzo di piacere.
Ancora scossa dalle onde dell’orgasmo, il corpo tremava lievemente, il respiro corto, ma non aveva il tempo di recuperare. La situazione evolveva, le sfuggiva, ma in un modo perversamente perfetto.
Il senzatetto non si era allontanato.
Anzi, aveva preso coraggio, forse leggendo nel corpo di lei l’assenso che nessuno aveva dato a voce. Le sue mani, per quanto ruvide e segnate dalla strada, si muovevano con una strana gentilezza: palpavano i seni tesi con lentezza, quasi con rispetto, come se stesse toccando qualcosa che non aveva mai creduto di poter sfiorare.
Leda non riusciva a staccare lo sguardo da lui. La sua immagine contrastava violentemente con la delicatezza del tocco. Era sporco, malconcio, con gli occhi cerchiati di stanchezza e desiderio, eppure c’era un’umanità cruda e disarmante in quel gesto. Il contrasto tra ciò che vedeva e ciò che sentiva amplificava tutto. Ogni stimolo. Ogni brivido.
Dietro di lei, il suo padrone – l’uomo che l’aveva trascinata in quell’inferno dorato – non rimase a guardare.
La afferrò con decisione per i fianchi, e senza annunciare nulla, la fece sua di nuovo.
Non fu lento, non fu gentile.
I colpi arrivarono duri, profondi, senza tregua, come se volesse scolpire il piacere nel suo ventre con forza, non con dolcezza.
Leda fu travolta.
Non c’era più una direzione.
Davanti a sé, un uomo che la osservava mentre la toccava come se fosse un dono.
Dietro, l’impeto del maschio che la prendeva come se volesse cancellare ogni altro pensiero.
E intorno a loro, il mondo.
Scorse qualcosa.
Una tendina che si scostava.
Un’altra ancora.
Luci che tremavano dietro i vetri.
Occhi nascosti che assistevano, silenziosi, rapiti.
Stava offrendo uno spettacolo a tutta la via, e non c’era più imbarazzo.
Solo calore.
Solo piacere.
Solo una vertigine continua che si stava trasformando in un’esplosione nuova, incontrollabile.
Leda era in mezzo a due fuochi.
Davanti a sé, le mani dell’uomo sporco e sconosciuto continuavano a esplorare il suo corpo come se ne avesse ricevuto il diritto. Palpavano con lentezza, con una strana forma di devozione, come se stesse toccando un corpo che non credeva reale.
Eppure le sue dita non tremavano: erano sicure, attente, presenti.
Lei lo fissava, gli occhi semiaperti, annebbiati. Il contrasto tra il volto scavato di quell’uomo e il piacere che stava ricevendo era accecante.
Poi vide il suo sguardo abbassarsi.
Il braccio sinistro, che non era in vista fino a quel momento, si muoveva con un ritmo proprio, nascosto tra le pieghe del giubbotto.
Non serviva altro per capire.
Leda sentì un brivido improvviso, viscerale, violento.
La consapevolezza che quell’uomo si stesse toccando davanti a lei, mentre le sue mani si stringevano ai suoi seni, era più di quanto potesse reggere in quello stato. Il senso di dominio si mescolava all’umiliazione, alla voglia, all’osceno, al sublime.
Dietro di lei, le spinte del suo aguzzino si facevano sempre più feroci, profonde, feroci.
Le affondava dentro come se volesse consumarla, segnarla, inciderla.
E in quell’istante, il piacere si trasformò in vertigine.
Intorno, le cabine si illuminavano.
Le tendine si scostavano, impercettibili.
Occhi nascosti dietro le ombre.
Camionisti insonni che avevano interrotto il loro riposo, attratti da qualcosa che non si può ignorare.
E Leda sapeva.
Sapeva che stavano guardando.
Sapeva cosa stava diventando.
Lo stava scegliendo.
Il corpo le si tese. Le mani strinsero la rete, la voce le uscì in un gemito soffocato, profondo.
Una scossa attraversò il suo ventre come una scintilla.
Non era un semplice piacere: era l’abbandono assoluto.
L’urlo di Leda squarciò la notte.
Non fu un grido di protesta, né un richiamo. Fu una liberazione totale, animale, sciolta da ogni vincolo, da ogni pudore, da ogni voce interiore che avesse mai sussurrato di nascondersi.
Il suono si diffuse come un’onda viva, tra le mura scrostate del deposito, tra i camion parcheggiati, tra le finestre socchiuse, raggiungendo chiunque avesse già gli occhi puntati su di lei.
Il suo aguzzino, ancora nel pieno del possesso, nel momento di massima intensità, cme un fulmine uscì da lei e altrettanto velocemente si insinuò nel suo antro segreto.
Lei lo capì nell’istante in cui l’urlo si strozzò nella gola.
Il piacere lasciò il posto a un dolore cupo, profondo, che non spegneva nulla, anzi… accendeva qualcosa di ancora più primitivo.
Non fu un rifiuto. Non fu resistenza.
Fu un passaggio. Una soglia oltre la quale il piacere cambiava forma.
Il suo corpo tremò, ma non si spezzò.
Accolse. Reagì. Cercò.
I muscoli si tendevano, la pelle bruciava, ma il desiderio cresceva.
Era una corrente che non si interrompeva mai. Una fame che si alimentava nel pieno della sazietà.
Gli occhi di Leda, lucidi e sbarrati, si posarono ancora una volta sulla figura davanti a lei. Il senzatetto era ancora lì.
Il suo sguardo era fisso sul corpo nudo della ragazza, sul ventre che si contraeva, sui seni scoperti e tesi.
Il suo gesto era diventato più rapido, più urgente, più disperato, come se ogni secondo senza sfogo fosse un tormento insopportabile.
Ritrasse la mano dal seno per potersi meglio dedicare al culmine del suo piacere, aumentò ulteriormente il ritmo e avvicinò il suo membro eretto e paonazzo alla rete e al corpo della ragazza.
E fu un attimo.
Il suo volto si contrasse.
Un singhiozzo trattenuto nel petto.
Un sospiro violento.
Leda sentì un calore liquido e improvviso colpirle la pelle del seno, poi il ventre.
Gocce tiepide, sporche, irregolari, profumate, dense.
Lo vide. Sentì tutto.
Il volto dell’uomo, sfatto dal piacere, come se stesse restituendo alla vita l’ultima stilla di sé.
E nello stesso momento, dietro di lei, il corpo dell’uomo che la possedeva fremette, spinse ancora una volta con forza, e poi si irrigidì.
Un respiro trattenuto.
Un’ultima spinta.
Il culmine e il suo intestino venne invaso dal suo sodomizzatore mentre questi urlava il suo piacere appellandola con epiteti irripetibili.
Leda non resistette.
Cedette ancora.
Non gridò stavolta.
Non pianse.
Il piacere fu un’implosione, un’onda che la avvolse da dentro, facendole tremare le cosce, cedere le ginocchia, stringere i denti per non dissolversi in mille pezzi.
Era un corpo attraversato da più volontà, eppure tutto il piacere era suo.
Il senzatetto, con un ghigno tra il compiaciuto e l’incredulo, si allontanò barcollando, come se avesse ricevuto più di quanto la notte potesse promettergli. Si voltò una volta sola, quasi per assicurarsi che quella visione non fosse stata un sogno o un’allucinazione. Poi scomparve tra le ombre della recinzione, lasciando solo l’eco del suo respiro affannato e del suo piacere disordinato.
Il silenzio tornò per un istante, spezzato solo dal rumore sordo del respiro di Leda e dalle ultime contrazioni che ancora percorrevano le sue cosce.
Il suo aguzzino uscì da lei con un gesto lento, deciso, come se volesse marcare la fine di qualcosa che però non si stava affatto concludendo.
Le mise le mani sui fianchi e la fece voltare, con delicatezza quasi sorprendente, e rimase un momento ad osservarla.
La luce dei lampioni, ormai più intensa che calda, disegnava sul suo corpo le tracce di quanto era appena accaduto.
Il seno, ancora scoperto, era bagnato, non solo di sudore. Piccole gocce scivolavano sul ventre, lungo l’ombelico, rallentando sulla pelle ancora calda di piacere.
La guardò negli occhi, e non c’era solo possesso.
C’era affetto, quasi devozione.
La bocca si piegò in un mezzo sorriso.
«Sei sempre coperta del piacere dei tuoi amanti…»
Poi indicò un vecchio rubinetto arrugginito sul fianco della struttura.
«Vieni.»
Leda lo seguì, non parlò. Ogni muscolo del suo corpo ancora vibrava, ma non era sfinimento. Era una pienezza totale. Il corpo rispondeva ancora al piacere, ancora all’eco degli atti, come un tamburo che vibra dopo il colpo.
Lui aprì il rubinetto con un colpo secco. L’acqua scese fredda, limpida.
Inumidì le mani, le portò al suo petto.
Non per pulirla subito, ma per accarezzarla.
Passò le dita sul seno, raccogliendo le tracce, ma non resistette: la palpò con forza, affondando nel morbido con un gesto possessivo, lento, quasi adorante.
Poi le lavò il ventre, salì fino al collo, con tocchi più teneri, più lenti.
«Sei una cavalla di razza,» disse, con tono quasi sognante. «Potresti guadagnare tutti i soldi che vuoi… semplicemente godendo dei tuoi maschi.»
Leda sollevò lo sguardo, lo fissò con una calma piena di fuoco.
Il volto ancora arrossato, i capelli incollati dalla fatica, ma gli occhi… erano chiari, fermi, vivi.
«Non mi interessano i soldi,» rispose, piano.
«Mi interessa solo godere a pieno di tutto quello che la vita mi può offrire.»
Lui rimase in silenzio. Perché non c’era nulla da aggiungere.
Prese la camicia ancora appesa al suo corpo come un velo, gliela riabbottonò con lentezza, scivolando lungo le curve bagnate, ma non la strinse fino in cima.
Poi la reinfilò dentro la minigonna tirata giù in modo sommario, con un gesto maschile, ruvido, quasi come a sigillarla.
Ma l’acqua ancora presente sul suo petto aveva reso il tessuto del raso trasparente.
Non del tutto. Ma quanto bastava perché il seno, ancora teso e leggermente eretto, emergesse sotto la camicia come un’ombra viva, più visibile di quando era stato scoperto del tutto.
Era uno spettacolo nuovo. Più elegante, più ambiguo, più provocante.
Leda lo sentiva. Sentiva il tessuto fresco contro la pelle calda, il peso della camicia aderente, l’effetto che quel corpo ancora palpitante poteva avere su chiunque fosse lì a guardare.
E ancora una volta, si sentì divina.
Non come una dea lontana. Ma come una forza che travolge, che brucia, che segna.
E lui la osservava come si guarda qualcosa che non si potrà mai davvero possedere.
Solo vivere. E ricordare.
Lui la prese per le spalle.
Non con forza, ma con urgenza.
Un gesto improvviso, come se non volesse lasciarla andare.
E la baciò.
Non fu un bacio dolce.
Fu un bacio feroce, assetato, profondo.
Carico di tutto ciò che avevano fatto e di tutto ciò che non avevano detto.
Le sue labbra cercavano le sue, la lingua affondava tra quelle pieghe rosse ancora intrise di respiro e potere.
Un bacio che non chiedeva perdono, che non prometteva nulla.
Solo lussuria allo stato puro.
Quando si staccò, Leda non disse nulla.
Si liberò dalla sua presa con un solo gesto fluido, leggero.
Un cenno della mano.
Come a dire: è finita. Ora basta.
E si voltò.
Camminò via con passo calmo, fiero.
La camicetta, ancora trasparente, lasciava trasparire chiaramente i contorni del seno.
La minigonna, scivolata verso l’alto ad ogni passo, scopriva la base rotonda dei glutei.
Ogni dettaglio era un richiamo. Ogni curva un addio.
Sapeva che c’erano occhi su di lei.
Li sentiva sulla schiena, sulle gambe, sul ventre.
Dai camion, dalle finestre, dai margini della strada.
Occhi che non osavano parlare.
Occhi che tacevano per non spezzare il mistero.
Nessuno si azzardò a fermarla.
Né un fischio. Né una parola.
Solo silenzio.
Arrivò a casa e chiuse la porta dietro di sé con un piccolo sospiro.
Il silenzio era diverso. Pieno. Risonante.
Non pensò neanche di accendere la luce.
Andò dritta in bagno, si spogliò lentamente, lasciando che ogni pezzo di stoffa cadesse con il suo peso, con la sua storia addosso.
Poi aprì l’acqua.
Calda, avvolgente, quasi materna.
Quando il primo getto colpì la pelle, Leda chiuse gli occhi.
Non fu solo sollievo.
Fu catarsi.
L’acqua scendeva, lavava via tutto: il sudore, le tracce degli altri, il profumo dell’asfalto, la voce roca del suo aguzzino, le mani degli sconosciuti.
Ma non cancellava il piacere.
Quello restava.
Era inciso nei muscoli, nella memoria dei nervi, nel profondo del ventre.
E proprio lì, sotto il getto bollente, un pensiero prese forma.
Anche lui ha ceduto.
Anche lui si è perso in me. Nei miei occhi. Nel mio corpo. Nella mia foga erotica.
Lui come tutti quelli che ci hanno provato, che mi hanno avuta. Anche solo chi ha scritto qualcosa su di me, è caduto nel mio tranello.
Io sono unica.
E inarrivabile.
Per tutti… ma per nessuno.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
«E adesso passeggiamo», disse, con tono pacato e sornione. «Come una coppietta. O come se fossi il tuo pappone… e tu la mia protetta.»
Leda alzò un sopracciglio, sorpresa dal gesto cavalleresco e dal tono che sembrava voler ridicolizzare ogni limite, ogni decenza. Ma prese il suo braccio, lasciandosi condurre. Per un istante, parvero davvero una coppia: perfetti nella simmetria, complici nel ritmo, eleganti nella scena assurda che stavano creando. Lei fece per tirare giù l’orlo della minigonna, istintivamente, come già tante volte prima, ma fu subito fermata dalla sua voce.
«No. Lasciala così com’è.»
Il tono era calmo, gentile… ma definitivo.
«Voglio che ti si vedano i glutei. La curva bassa. Il perizoma. Voglio che chiunque ci incroci capisca che sei in autoreggenti, che sei disponibile. Voglio che ti osservino e si chiedano quanto costa passare un’ora con te. E se qualcuno dovesse avere il coraggio di fermarsi e chiedertelo… beh, risponderò io. Perché questa sera tu sei mia.»
Leda non disse nulla.
Non c’era più spazio per le reazioni stupite: la tensione era diventata parte integrante del respiro, della postura, del modo in cui si lasciava condurre.
Ma una cosa la notava chiaramente: non c’era fretta. Non c’era frenesia.
«Stai tranquilla,» aggiunse lui, mentre il rumore dei tacchi di lei si fondeva col suono regolare dei suoi passi, «non ho intenzione di cederti. Non ancora. Ho ancora tante belle cosette da farti… e da farti fare. Ma tutte saranno solo per me. Stasera sei solo mia.»
Camminavano così, in mezzo alla zona industriale che cominciava a vivere le sue prime ombre della notte, come due figure uscite da un sogno perverso: lei, un’opera d’arte ambulante, nuda a metà e fiera, lui, il regista invisibile, l’uomo che l’aveva accesa e che ora non voleva spegnerla. Non subito.
I passi riecheggiavano ora su un terreno più duro, disordinato, punteggiato da pezzi di asfalto spaccato e chiazze d’erba selvatica. La zona si era fatta più viva, inaspettatamente.
Non affollata, ma popolata. Persone che correvano, auricolari nelle orecchie, lo sguardo fisso davanti a sé.
Un paio di senzatetto si erano accampati in un angolo, riparandosi con cartoni e bottiglie mezza vuote. Poco più in là, alcuni camion parcheggiati con le tendine tirate, silenziosi ma vivi: si intuivano figure che dormivano all’interno, con le radio accese a basso volume, qualche risata soffocata da dietro i finestrini.
Poi, sulla destra, una recinzione bassa e arrugginita, il cancello aperto, storto e cigolante al vento.
Era un vecchio deposito in disuso, forse un tempo una piccola officina. Ora solo silenzio, ombre e pareti scrostate dal tempo. Lui la guidò all’interno, la mano sempre ferma sul suo braccio, non con forza, ma con quell’autorità che Leda non riusciva più a separare dall’eccitazione.
Giunti all'interno, la portò vicino alla rete di ferro, dove la luce dei lampioni vicini arrivava in modo intermittente, a tratti tremolante.
«Mettiti così,» ordinò, con voce bassa.
E lei obbedì. Non perché costretta, ma perché ogni fibra del suo corpo lo stava aspettando.
Si girò, mise le mani sulla rete, si piegò leggermente in avanti, la fronte vicina al metallo freddo, lo sguardo tra le maglie arrugginite verso il mondo esterno, dove chiunque, passando, avrebbe potuto vederla.
Lui si mise dietro. Con lentezza, fece scivolare i lembi della camicia che ancora erano infilati nella minigonna, li fece passare dietro la schiena nuda, li tirò, li annodò.
La stoffa tese le braccia di lei verso dietro, spalancandole la camicia.
I seni nudi si svelarono alla notte.
Tesi. Liberi. Esposti.
Il metallo della recinzione freddo contro la pelle.
La luce gialla del lampione li accarezzava a tratti, rivelandone la forma, i capezzoli duri, la pelle arrossata dalla tensione. Bastava che qualcuno guardasse dentro.
Bastava che un camionista scostasse la tendina.
Bastava che uno di quei corridori rallentasse lo sguardo.
Lei era lì. Aperta. Scoperta.
E ancora non era successo nulla.
Ma tutto stava già accadendo.
Lui si avvicinò, sfiorandola con il respiro, col corpo, con l’odore della pelle calda.
Le mani sfiorarono le sue anche.
«Adesso ti faccio divertire,» sussurrò, con un ghigno che non chiedeva il permesso.
Le mani di lui si posarono lente sul retro delle cosce di Leda, risalendo con pazienza lungo la curva perfetta che la minigonna lasciava ormai scoperta senza remore. Quando la sollevò del tutto, scoprendo il tanga nero che incorniciava la sensualità della ragazza, Leda trattenne il fiato. Non per pudore. Perché sapeva cosa stava per arrivare.
La sua pelle vibrò quando sentì la mano di lui scivolare tra le sue gambe, come un’onda calda che cercava casa. Le dita esplorarono prima con lentezza, poi con precisione crescente, trovandola già pronta, ma non ancora al culmine.
«Non sei bagnata,» sussurrò con un ghigno, «ma ti ci porto io…»
E iniziò.
Un movimento lento, profondo, calibrato. Due dita, ma la consapevolezza di chi sapeva esattamente dove e come toccarla. Ogni affondo era una carezza e una presa. Ogni gesto, una firma sulla sua pelle.
Leda si aggrappò con più forza alla rete metallica, la fronte sfiorava il ferro.
Il respiro cambiò. Più corto. Più pieno.
La sensazione di essere lì, completamente esposta, la trasformava.
Era nuda, aperta, legata con i lembi della sua stessa camicetta. E stava provando un piacere che le saliva alla testa come una vertigine lenta, travolgente.
Cominciò a mugolare.
Non gemeva come per chiedere.
Mugolava come una creatura che sta per esplodere.
I suoi suoni si fusero con l’ambiente, con il metallo che vibrava, con la città che viveva al margine.
E qualcuno, poco lontano, sentì.
Un uomo malvestito, rannicchiato sotto un muretto, aprì gli occhi sentendo quei versi liquidi, profondi. Si alzò con lentezza, si avvicinò, attratto da un istinto primitivo e incuriosito. Raggiunse la recinzione, sbucando dalla penombra.
E Leda, tutta concentrata sulle dita che la stavano portando verso l’orlo del mondo, non se ne accorse subito.
Solo quando sentì un respiro diverso, ruvido, a pochi centimetri da sé, e delle mani nuove che sfioravano il suo ventre… aprì gli occhi di colpo.
Lo vide.
Un uomo qualunque. Uno sconosciuto. Sporco, trasandato.
Che la guardava. Che stava godendo della sua vista.
E in quell’istante, l’istinto si fuse col delirio.
Quello sguardo sporco. Quella realtà assurda. Le dita di lui sempre più profonde, più decise, più veloci. Il piacere arrivò come un’onda che non aveva chiesto il permesso.
Un orgasmo improvviso, sconvolgente, che le fece piegare le gambe.
Le mancò il fiato. Le mani tremarono sulla rete. Stava per cadere.
Ma lui era lì.
Dietro di lei.
L’aguzzino, il suo carnefice gentile.
La prese, la tenne, la sostenne… e continuò, infilandosi ancora di più dentro di lei.
Come se l’avesse voluta travolgere fino all’ultima scossa.
Leda era un corpo sciolto, spezzato dal piacere, sospeso tra umiliazione e gloria, tra sottomissione e dominio.
Il suo respiro, ancora strozzato, si sciolse in un singhiozzo di piacere.
Ancora scossa dalle onde dell’orgasmo, il corpo tremava lievemente, il respiro corto, ma non aveva il tempo di recuperare. La situazione evolveva, le sfuggiva, ma in un modo perversamente perfetto.
Il senzatetto non si era allontanato.
Anzi, aveva preso coraggio, forse leggendo nel corpo di lei l’assenso che nessuno aveva dato a voce. Le sue mani, per quanto ruvide e segnate dalla strada, si muovevano con una strana gentilezza: palpavano i seni tesi con lentezza, quasi con rispetto, come se stesse toccando qualcosa che non aveva mai creduto di poter sfiorare.
Leda non riusciva a staccare lo sguardo da lui. La sua immagine contrastava violentemente con la delicatezza del tocco. Era sporco, malconcio, con gli occhi cerchiati di stanchezza e desiderio, eppure c’era un’umanità cruda e disarmante in quel gesto. Il contrasto tra ciò che vedeva e ciò che sentiva amplificava tutto. Ogni stimolo. Ogni brivido.
Dietro di lei, il suo padrone – l’uomo che l’aveva trascinata in quell’inferno dorato – non rimase a guardare.
La afferrò con decisione per i fianchi, e senza annunciare nulla, la fece sua di nuovo.
Non fu lento, non fu gentile.
I colpi arrivarono duri, profondi, senza tregua, come se volesse scolpire il piacere nel suo ventre con forza, non con dolcezza.
Leda fu travolta.
Non c’era più una direzione.
Davanti a sé, un uomo che la osservava mentre la toccava come se fosse un dono.
Dietro, l’impeto del maschio che la prendeva come se volesse cancellare ogni altro pensiero.
E intorno a loro, il mondo.
Scorse qualcosa.
Una tendina che si scostava.
Un’altra ancora.
Luci che tremavano dietro i vetri.
Occhi nascosti che assistevano, silenziosi, rapiti.
Stava offrendo uno spettacolo a tutta la via, e non c’era più imbarazzo.
Solo calore.
Solo piacere.
Solo una vertigine continua che si stava trasformando in un’esplosione nuova, incontrollabile.
Leda era in mezzo a due fuochi.
Davanti a sé, le mani dell’uomo sporco e sconosciuto continuavano a esplorare il suo corpo come se ne avesse ricevuto il diritto. Palpavano con lentezza, con una strana forma di devozione, come se stesse toccando un corpo che non credeva reale.
Eppure le sue dita non tremavano: erano sicure, attente, presenti.
Lei lo fissava, gli occhi semiaperti, annebbiati. Il contrasto tra il volto scavato di quell’uomo e il piacere che stava ricevendo era accecante.
Poi vide il suo sguardo abbassarsi.
Il braccio sinistro, che non era in vista fino a quel momento, si muoveva con un ritmo proprio, nascosto tra le pieghe del giubbotto.
Non serviva altro per capire.
Leda sentì un brivido improvviso, viscerale, violento.
La consapevolezza che quell’uomo si stesse toccando davanti a lei, mentre le sue mani si stringevano ai suoi seni, era più di quanto potesse reggere in quello stato. Il senso di dominio si mescolava all’umiliazione, alla voglia, all’osceno, al sublime.
Dietro di lei, le spinte del suo aguzzino si facevano sempre più feroci, profonde, feroci.
Le affondava dentro come se volesse consumarla, segnarla, inciderla.
E in quell’istante, il piacere si trasformò in vertigine.
Intorno, le cabine si illuminavano.
Le tendine si scostavano, impercettibili.
Occhi nascosti dietro le ombre.
Camionisti insonni che avevano interrotto il loro riposo, attratti da qualcosa che non si può ignorare.
E Leda sapeva.
Sapeva che stavano guardando.
Sapeva cosa stava diventando.
Lo stava scegliendo.
Il corpo le si tese. Le mani strinsero la rete, la voce le uscì in un gemito soffocato, profondo.
Una scossa attraversò il suo ventre come una scintilla.
Non era un semplice piacere: era l’abbandono assoluto.
L’urlo di Leda squarciò la notte.
Non fu un grido di protesta, né un richiamo. Fu una liberazione totale, animale, sciolta da ogni vincolo, da ogni pudore, da ogni voce interiore che avesse mai sussurrato di nascondersi.
Il suono si diffuse come un’onda viva, tra le mura scrostate del deposito, tra i camion parcheggiati, tra le finestre socchiuse, raggiungendo chiunque avesse già gli occhi puntati su di lei.
Il suo aguzzino, ancora nel pieno del possesso, nel momento di massima intensità, cme un fulmine uscì da lei e altrettanto velocemente si insinuò nel suo antro segreto.
Lei lo capì nell’istante in cui l’urlo si strozzò nella gola.
Il piacere lasciò il posto a un dolore cupo, profondo, che non spegneva nulla, anzi… accendeva qualcosa di ancora più primitivo.
Non fu un rifiuto. Non fu resistenza.
Fu un passaggio. Una soglia oltre la quale il piacere cambiava forma.
Il suo corpo tremò, ma non si spezzò.
Accolse. Reagì. Cercò.
I muscoli si tendevano, la pelle bruciava, ma il desiderio cresceva.
Era una corrente che non si interrompeva mai. Una fame che si alimentava nel pieno della sazietà.
Gli occhi di Leda, lucidi e sbarrati, si posarono ancora una volta sulla figura davanti a lei. Il senzatetto era ancora lì.
Il suo sguardo era fisso sul corpo nudo della ragazza, sul ventre che si contraeva, sui seni scoperti e tesi.
Il suo gesto era diventato più rapido, più urgente, più disperato, come se ogni secondo senza sfogo fosse un tormento insopportabile.
Ritrasse la mano dal seno per potersi meglio dedicare al culmine del suo piacere, aumentò ulteriormente il ritmo e avvicinò il suo membro eretto e paonazzo alla rete e al corpo della ragazza.
E fu un attimo.
Il suo volto si contrasse.
Un singhiozzo trattenuto nel petto.
Un sospiro violento.
Leda sentì un calore liquido e improvviso colpirle la pelle del seno, poi il ventre.
Gocce tiepide, sporche, irregolari, profumate, dense.
Lo vide. Sentì tutto.
Il volto dell’uomo, sfatto dal piacere, come se stesse restituendo alla vita l’ultima stilla di sé.
E nello stesso momento, dietro di lei, il corpo dell’uomo che la possedeva fremette, spinse ancora una volta con forza, e poi si irrigidì.
Un respiro trattenuto.
Un’ultima spinta.
Il culmine e il suo intestino venne invaso dal suo sodomizzatore mentre questi urlava il suo piacere appellandola con epiteti irripetibili.
Leda non resistette.
Cedette ancora.
Non gridò stavolta.
Non pianse.
Il piacere fu un’implosione, un’onda che la avvolse da dentro, facendole tremare le cosce, cedere le ginocchia, stringere i denti per non dissolversi in mille pezzi.
Era un corpo attraversato da più volontà, eppure tutto il piacere era suo.
Il senzatetto, con un ghigno tra il compiaciuto e l’incredulo, si allontanò barcollando, come se avesse ricevuto più di quanto la notte potesse promettergli. Si voltò una volta sola, quasi per assicurarsi che quella visione non fosse stata un sogno o un’allucinazione. Poi scomparve tra le ombre della recinzione, lasciando solo l’eco del suo respiro affannato e del suo piacere disordinato.
Il silenzio tornò per un istante, spezzato solo dal rumore sordo del respiro di Leda e dalle ultime contrazioni che ancora percorrevano le sue cosce.
Il suo aguzzino uscì da lei con un gesto lento, deciso, come se volesse marcare la fine di qualcosa che però non si stava affatto concludendo.
Le mise le mani sui fianchi e la fece voltare, con delicatezza quasi sorprendente, e rimase un momento ad osservarla.
La luce dei lampioni, ormai più intensa che calda, disegnava sul suo corpo le tracce di quanto era appena accaduto.
Il seno, ancora scoperto, era bagnato, non solo di sudore. Piccole gocce scivolavano sul ventre, lungo l’ombelico, rallentando sulla pelle ancora calda di piacere.
La guardò negli occhi, e non c’era solo possesso.
C’era affetto, quasi devozione.
La bocca si piegò in un mezzo sorriso.
«Sei sempre coperta del piacere dei tuoi amanti…»
Poi indicò un vecchio rubinetto arrugginito sul fianco della struttura.
«Vieni.»
Leda lo seguì, non parlò. Ogni muscolo del suo corpo ancora vibrava, ma non era sfinimento. Era una pienezza totale. Il corpo rispondeva ancora al piacere, ancora all’eco degli atti, come un tamburo che vibra dopo il colpo.
Lui aprì il rubinetto con un colpo secco. L’acqua scese fredda, limpida.
Inumidì le mani, le portò al suo petto.
Non per pulirla subito, ma per accarezzarla.
Passò le dita sul seno, raccogliendo le tracce, ma non resistette: la palpò con forza, affondando nel morbido con un gesto possessivo, lento, quasi adorante.
Poi le lavò il ventre, salì fino al collo, con tocchi più teneri, più lenti.
«Sei una cavalla di razza,» disse, con tono quasi sognante. «Potresti guadagnare tutti i soldi che vuoi… semplicemente godendo dei tuoi maschi.»
Leda sollevò lo sguardo, lo fissò con una calma piena di fuoco.
Il volto ancora arrossato, i capelli incollati dalla fatica, ma gli occhi… erano chiari, fermi, vivi.
«Non mi interessano i soldi,» rispose, piano.
«Mi interessa solo godere a pieno di tutto quello che la vita mi può offrire.»
Lui rimase in silenzio. Perché non c’era nulla da aggiungere.
Prese la camicia ancora appesa al suo corpo come un velo, gliela riabbottonò con lentezza, scivolando lungo le curve bagnate, ma non la strinse fino in cima.
Poi la reinfilò dentro la minigonna tirata giù in modo sommario, con un gesto maschile, ruvido, quasi come a sigillarla.
Ma l’acqua ancora presente sul suo petto aveva reso il tessuto del raso trasparente.
Non del tutto. Ma quanto bastava perché il seno, ancora teso e leggermente eretto, emergesse sotto la camicia come un’ombra viva, più visibile di quando era stato scoperto del tutto.
Era uno spettacolo nuovo. Più elegante, più ambiguo, più provocante.
Leda lo sentiva. Sentiva il tessuto fresco contro la pelle calda, il peso della camicia aderente, l’effetto che quel corpo ancora palpitante poteva avere su chiunque fosse lì a guardare.
E ancora una volta, si sentì divina.
Non come una dea lontana. Ma come una forza che travolge, che brucia, che segna.
E lui la osservava come si guarda qualcosa che non si potrà mai davvero possedere.
Solo vivere. E ricordare.
Lui la prese per le spalle.
Non con forza, ma con urgenza.
Un gesto improvviso, come se non volesse lasciarla andare.
E la baciò.
Non fu un bacio dolce.
Fu un bacio feroce, assetato, profondo.
Carico di tutto ciò che avevano fatto e di tutto ciò che non avevano detto.
Le sue labbra cercavano le sue, la lingua affondava tra quelle pieghe rosse ancora intrise di respiro e potere.
Un bacio che non chiedeva perdono, che non prometteva nulla.
Solo lussuria allo stato puro.
Quando si staccò, Leda non disse nulla.
Si liberò dalla sua presa con un solo gesto fluido, leggero.
Un cenno della mano.
Come a dire: è finita. Ora basta.
E si voltò.
Camminò via con passo calmo, fiero.
La camicetta, ancora trasparente, lasciava trasparire chiaramente i contorni del seno.
La minigonna, scivolata verso l’alto ad ogni passo, scopriva la base rotonda dei glutei.
Ogni dettaglio era un richiamo. Ogni curva un addio.
Sapeva che c’erano occhi su di lei.
Li sentiva sulla schiena, sulle gambe, sul ventre.
Dai camion, dalle finestre, dai margini della strada.
Occhi che non osavano parlare.
Occhi che tacevano per non spezzare il mistero.
Nessuno si azzardò a fermarla.
Né un fischio. Né una parola.
Solo silenzio.
Arrivò a casa e chiuse la porta dietro di sé con un piccolo sospiro.
Il silenzio era diverso. Pieno. Risonante.
Non pensò neanche di accendere la luce.
Andò dritta in bagno, si spogliò lentamente, lasciando che ogni pezzo di stoffa cadesse con il suo peso, con la sua storia addosso.
Poi aprì l’acqua.
Calda, avvolgente, quasi materna.
Quando il primo getto colpì la pelle, Leda chiuse gli occhi.
Non fu solo sollievo.
Fu catarsi.
L’acqua scendeva, lavava via tutto: il sudore, le tracce degli altri, il profumo dell’asfalto, la voce roca del suo aguzzino, le mani degli sconosciuti.
Ma non cancellava il piacere.
Quello restava.
Era inciso nei muscoli, nella memoria dei nervi, nel profondo del ventre.
E proprio lì, sotto il getto bollente, un pensiero prese forma.
Anche lui ha ceduto.
Anche lui si è perso in me. Nei miei occhi. Nel mio corpo. Nella mia foga erotica.
Lui come tutti quelli che ci hanno provato, che mi hanno avuta. Anche solo chi ha scritto qualcosa su di me, è caduto nel mio tranello.
Io sono unica.
E inarrivabile.
Per tutti… ma per nessuno.
Spero che vi stia piacendo. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
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