Il sesto comando

di
genere
dominazione


Roma mi aveva sempre offerto rifugio nelle sue ombre eterne, ma quella sera di novembre, mentre camminavo per le strade bagnate di pioggia del quartiere Monti, sentivo un'inquietudine che non riuscivo a scrollarmi di dosso. L'aria era carica dell'odore di terra umida misto al fumo di camini lontani, i colori smorzati dal crepuscolo: il grigio piombo dei sampietrini lucidi sotto i piedi, il rosso sbiadito delle facciate dei palazzi antichi, illuminati dai lampioni arancioni che proiettavano riflessi danzanti sulle pozzanghere.
I suoni erano attutiti – il gocciolio ritmico della pioggia dai tetti, il mormorio di voci da una trattoria vicina, il lontano rombo di un autobus su Via Nazionale. E gli odori: quel profumo acre di foglie marce mescolato al basilico e al pomodoro che sfuggiva dalle finestre aperte, un reminder che la vita pulsava anche sotto la pioggia.

Ero diretto da Francesca, la mia preda più ostinata, quella che con la sua ribellione mi teneva sveglio la notte. Ma stavolta, il mio comando era diverso: volevo spingermi oltre, testare i limiti, ma non sospettavo che lei avrebbe testato i miei.

Francesca mi aveva evitato per giorni, la sua furia ribelle che ribolliva nei messaggi sporadici: Ma io sapevo che sarebbe tornata; la sua psicologia era un labirinto che avevo mappato – orgoglio ferreo contro un desiderio masochistico di sottomissione. La convinsi con la solita subdola miscela: promesse di piacere miste a minacce velate. "Incontriamoci stasera al Colosseo," le scrissi. "Indossa solo un cappotto, niente sotto. Cammina tra le rovine antiche, sentendoti esposta al mondo, e pensami." La sua risposta arrivò dopo ore: "Sei un mostro. Ma verrò, solo per dimostrarti che non mi spezzi." La sua ribellione era come un afrodisiaco; mi eccitava sapere che combatteva, ma cedeva.

Ci incontrammo al Foro Romano, sotto l'arco di Tito, illuminato da luci soffuse che proiettavano ombre lunghe sulle colonne millenarie. L'odore di pietra antica e muschio umido saturava l'aria, i colori notturni un contrasto di bianco marmo contro il nero del cielo piovoso, i suoni ridotti al nostro respiro e al distante ululato del vento. Francesca arrivò avvolta in un trench nero, i capelli castani sciolti e bagnati dalla pioggia leggera, gli occhi verdi che bruciavano di sfida. "Hai obbedito?" chiesi, avvicinandomi. Lei annuì, ma con un ghigno: "Sì, stronzo. Niente sotto, come hai comandato. Ma non pensare che questo mi umili. Ti uso per il mio piacere, non il contrario." Slacciò il cappotto quel tanto da mostrarmi: pelle nuda, seni pieni che tremavano al freddo, il sesso esposto con un ciuffo curato. La sua ribellione verbale contrastava con il corpo traditore; mi spinse contro una colonna, baciandomi con rabbia, le mani che artigliavano la mia camicia.

La portai in un vicolo nascosto vicino, tra le rovine, dove l'odore di edera e terra ci avvolgeva. La spinsi contro il muro freddo, il cappotto che si apriva completamente. Le mie mani esplorarono: seni maturi, capezzoli turgidi che pizzicai forte, facendola ansimare: "Bastardo!" Ma inarcò la schiena, spingendosi contro di me. Le alzai una gamba, esponendola all'aria notturna, e entrai piano, sentendo il suo calore vellutato avvolgermi, le pareti strette e bagnate che si contraevano in una morsa calda. Pompai lento all'inizio, il mio bacino che sfregava contro il suo clitoride gonfio, i suoni umidi che echeggiavano nel vicolo deserto. "Dimmi che ti piace," comandai, mordicchiandole il collo. "Fottiti," rispose, ma gemette più forte, le unghie che graffiavano la mia schiena. Accelerai, affondi profondi che la facevano tremare, il mio membro venoso che sfregava contro le sue pareti sensibili, le palle che sbattevano contro la sua pelle scivolosa. Sudavamo nonostante il freddo, l'odore di sesso misto alla pioggia. Le misi una mano tra le gambe, sfregando il clitoride: "Vieni per me, sei mia, sempre." Ed esplose, urlando piano nel mio orecchio, le pareti che pulsavano intorno a me in spasmi violenti, i suoi succhi che colavano lungo le mie cosce. Venni anch'io, inondandola.

Ma fu dopo, mentre ci rivestivamo nel vicolo, che la crepa emerse. Francesca, ancora ansimante, mi guardò con occhi curiosi, non più solo ribelli. "Perché fai così, Daniele? Questo bisogno di comandare... da dove viene? Sembri un uomo che nasconde qualcosa." Le sue parole mi colpirono come un pugno nello stomaco. Flashback improvvisi: io a vent'anni, innamorato perso di Sofia, una donna di 35, direttrice di azienda come Francesca, che mi aveva introdotto al dominio con carezze e comandi, facendomi sentire vivo per la prima volta. Ma poi, l'abbandono: "Sei troppo debole per me," mi aveva detto, lasciandomi spezzato, con un vuoto che avevo riempito con conquiste seriali, usando il controllo come armatura contro l'amore. Non potevo amare; significava vulnerabilità, dolore.

"Non sono affari tuoi," risposi duro a Francesca, ma la voce tremò, tradendomi. Lei insistette, subdola come me: "Ah, sì? Sembri spaventato. Elena mi ha detto che eviti relazioni vere. Paura di essere lasciato, eh?" La sua ribellione si era spostata dal fisico all'emotivo, e mi ferì. La spinsi via, furioso: "Taci! Non sai niente!" Ma dentro, il punto debole pulsava: quel terrore di connessione reale, di calore autentico oltre il sesso. Per la prima volta, dubitai del mio gioco.

Tornai a casa solo, le strade di Roma che ora sembravano opprimenti, l'odore di pioggia che mi soffocava. Francesca mi aveva scalfito. Ma non potevo fermarmi; il dominio era l'unica cosa che mi teneva vivo. O almeno, così credevo.
scritto il
2025-11-24
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