Il primo comando

di
genere
dominazione


Roma, la Città Eterna, non è solo pietra e storia sepolta sotto strati di tempo; è un amante capriccioso che ti sussurra all'orecchio all'alba, con il suo respiro umido di Tevere e il suo cuore pulsante di clacson lontani.
Ogni mattina, quando il sole di novembre si insinua pigro tra i tetti di Trastevere, come un ladro che ruba le ombre ai vicoli stretti, io mi immergo in quel caos con la certezza di un uomo che sa domare le tempeste.

Mi chiamo Daniele, ho trentasette anni, e il mio corpo è il mio primo alleato in questa danza quotidiana: capelli neri, con fili ribelli che sfidano il pettine come se avessero una volontà propria, una barba curata che mi incornicia la mascella squadrata, conferendomi quell'aria di lupo urbano – feroce, ma con un velo di eleganza.
Il mio fisico è possente, forgiato da un rituale implacabile: ore in palestra dove i pesi diventano estensioni delle mie braccia, grugniti che echeggiano come preghiere pagane; nuoto in piscine olimpioniche che mi ingoiano e mi sputano rigenerato, l'acqua che scivola sulla pelle tesa dei pettorali e degli addominali scolpiti; corsa sul Lungotevere all'alba, quando il fiume è un nastro d'argento e i miei polmoni bruciano per l'aria fredda, ricordandomi che il dolore è solo un preludio al controllo. Mi alleno tutti i giorni, perché in quel sudore trovo la mappa del mio impero interiore: un regno dove ogni muscolo è un ordine, ogni battito un comando.

E così, puntuale come il rintocco delle campane di Santa Maria in Trastevere, mi dirigo verso "La Bottega del Caffè", quel minuscolo bar incuneato tra un'edicola ingiallita dal tempo e un'enoteca che versa vini come confessioni sussurrate. Il locale è un reliquiario di odori familiari: il caffè tostato che si mescola al vapore della macchina, il dolce appiccicoso dei cornetti appena sfornati, l'umidità del selciato che filtra dalle porte aperte. Tavolini di ferro battuto, graffiati dalle mani di generazioni di avventori, sedie impagliate che scricchiolano sotto il peso di storie non dette. Entro spingendo la porta con una spalla, e l'aria calda mi avvolge come un abbraccio proibito, carica di promesse non ancora pronunciate.

Lì, dietro il bancone di legno scheggiato, c'è lei: Elena. Trent'anni
I suoi capelli castani cadono in onde morbide, quasi selvagge, legate in una coda disordinata che lascia sfuggire ciocche ribelli sul collo pallido, come se implorassero di essere liberate. Gli occhi sono verdi, del verde profondo del muschio che ricopre le rovine antiche lungo il Palatino – intensi, capaci di catturare la luce del mattino e rifletterla in lampi di vulnerabilità.

Il suo corpo è un'armonia snella e invitante, curve discrete che sussurrano piuttosto che gridare: seni pieni che tendono la camicetta bianca in modo innocente, quasi casuale, fianchi che si allargano in una promessa di morbidezza sotto la gonna nera al ginocchio, gambe lunghe e pallide che terminano in scarpe basse consumate dal pavé romano, segnate da graffi invisibili di una routine che la consuma piano. Le sue mani sono piccole, con dita affusolate segnate da vene azzurre, unghie corte e curate ma con quel tocco di imperfezione – una scheggiatura qui, un callo lì – che tradisce ore passate a sfregare tazze e a impastare sogni.
Mentalmente, è un enigma avvolto in un velo di quiete apparente: una donna dal passo misurato, dal sorriso che si accende e si spegne come una candela al vento, con un'intelligenza che traspare nei gesti precisi, negli sguardi persi nel vuoto quando il locale si svuota, come se la sua mente vagasse in labirinti privati di desideri repressi e rimpianti non detti. Sposata, con un anello d'oro che luccica al dito come un sigillo su un contratto dimenticato.

La prima mattina che la noto davvero – o almeno, quella in cui decido che il gioco può iniziare – è un martedì qualunque, uno di quei giorni in cui Roma si sveglia con un sospiro stanco. Il locale è semideserto: un paio di operai al fondo che borbottano sul calcio, il ronzio della macchina del caffè come un mantra ipnotico. Entro, e i miei occhi la cercano istintivamente, trovandola curva sul bancone a lucidare una tazzina con un panno umido. Alza lo sguardo, e per un istante i nostri occhi si agganciano: i suoi si spalancano appena, un rossore lieve che le sale alle guance come il primo sorso di vino rosso. "Buongiorno," dico, con una voce profonda e calda, posando le chiavi sul bancone con un tintinnio deliberato. "Un espresso, per favore. Doppio, oggi – ho una giornata che mi aspetta con i denti affilati."

Lei annuisce, un sorriso timido che le incurva le labbra piene, e si muove verso la macchina con una grazia fluida, i fianchi che ondeggiano impercettibilmente. "Subito, signore," risponde, la voce morbida, con quell'accento romano che arrotola le vocali come seta. Mentre il caffè gorgoglia, io mi appoggio al bancone, i muscoli delle braccia che si tendono sotto la camicia grigia, e la osservo senza fretta. "Sa, questo posto ha qualcosa di magico," dico, rompendo il silenzio con una nota di sincerità. "Non è solo il caffè – è come se le pareti assorbissero le storie di chi passa. Lei quante ne ha viste, qui dietro?"

Si volta, sorpresa, la tazzina fumante in mano, e i suoi occhi verdi incontrano i miei con una curiosità nuova. Il rossore si approfondisce, ma non distoglie lo sguardo. "Tante," ammette, posando l'espresso davanti a me con un gesto preciso. "Storie di amori nati su un cornetto, di litigi finiti in lacrime. Ma la maggior parte... solo gente di fretta, che entra ed esce senza notare niente." Le sue dita sfiorano il piattino, un tocco esitante, e io vedo il modo in cui il suo respiro si accorcia appena, come se le mie parole l'avessero sfiorata come una brezza inattesa.

Prendo la tazzina, le nostre mani a un soffio di distanza, e sorseggio piano, assaporando l'amaro che mi scalda la gola. "Beh, io ho notato lei," dico, con un sorriso che le illumina il viso. "Dal primo giorno che sono entrato. Ha un modo di muoversi... come se danzasse con il caos. Mi piace." Lei ride, una risata leggera, che riempie il locale come un raggio di sole filtrato dalle tende. "Grazie, signor...?" "Daniele," correggo, tendendole la mano. Le sue dita si intrecciano alle mie – calde, morbide, con un tremito lieve che tradisce un'emozione fresca. "Piacere, Elena." Stringo piano, trasmettendo calore, sicurezza, e la vedo rilassarsi, le spalle che si abbassano impercettibilmente. "Tornerò domani, Elena. Per vedere se il caffè è sempre così... magico."

Esco nel vicolo, il sole che mi scalda la schiena, e sento già il primo filo teso: una connessione fragile, ma reale, come il primo nodo di una rete.

La seconda mattina arrivo con una pioggerella fina, quel tipo di pioggia romana che bagna senza inzuppare, lasciando l'aria profumata di terra umida e basilico dai balconi vicini. Entro composto, l'impermeabile che stilla gocce sul pavimento, e il locale è un bozzolo caldo, con il vapore che sale dal bancone come nebbia incantata. Elena è lì, i capelli umidi che le incollano ciocche alla fronte, un grembiule legato stretto sui fianchi. Alza lo sguardo, e il suo sorriso è più pronto, più luminoso. "Buongiorno, Daniele," dice, anticipandomi, e nella sua voce c'è una nota di familiarità che mi fa accelerare il polso.

"Buongiorno a te, mia salvatrice dal maltempo," rispondo, scuotendo l'acqua dall'impermeabile con una risata. Mi siedo su uno sgabello alto, i muscoli delle cosce che si tendono contro i pantaloni, e lei prepara l'espresso senza che io debba chiederlo. "Hai l'aria di chi ha già conquistato la giornata," commenta, versando l'acqua con un gorgoglio ritmico. Io inclino la testa, studiandola: il modo in cui le sue labbra si incurvano mentre parla, il collo elegante che si tende quando ride piano a una mia battuta sul traffico. "Con una come te dietro il bancone, è facile. Dimmi, Elena, qual è il tuo rituale per affrontare la pioggia? Qualcosa di segreto, solo per mattine come questa?"

Lei posa la tazzina, le mani che si appoggiano al bancone, e i suoi occhi verdi si accendono di una scintilla giocosa. "Un tè caldo con limone, se posso rubarmene un momento. E... sogno. Penso a posti lontani, tipo quelle spiagge esotiche dove il mare è turchese e la sabbia brucia sotto i piedi nudi, senza folla, solo il vento che sa di sale e libertà."
Le sue parole escono fluide, come se il mio interesse l'avesse sciolta, e io annuisco, sorseggiando l'espresso bollente. "Sembra perfetto. Io corro, sotto la pioggia o no. Mi fa sentire vivo, come se potessi divorare il mondo un passo alla volta." Parliamo per dieci minuti – del mare che ci lega entrambi all'infanzia, di come Roma sia una prigione dorata ma irresistibile – e le sue risate riempiono lo spazio tra noi, genuine, con un suono che vibra nell'aria come una corda pizzicata.
Prima di andar via, le sfioro il dorso della mano con le dita – un tocco casuale, elettrico, che le fa trattenere il fiato per un secondo. "Grazie per il sogno, Elena. Mi ha reso la pioggia... poetica." Lei arrossisce, ma i suoi occhi mi seguono fino alla porta, luminosi, affamati di quel calore condiviso.

Il terzo giorno è soleggiato, un'esplosione di luce che rimbalza sui sampietrini come monete d'oro. Entro fresco dalla mia routine mattutina, la camicia impeccabile che segue le linee dei miei muscoli, e lei è lì, con un'aria più rilassata, i capelli sciolti per metà che le incorniciano il viso come un'aureola ribelle. "Daniele! Sembri pronto a scalare il Campidoglio," dice, ridendo, e il suono è come un invito, caldo e avvolgente. Prepara il caffè con movimenti fluidi, ma rallenta, come se volesse prolungare il momento.

"Una battaglia contro me stesso, come sempre," replico, sedendomi con calma. "E tu? Hai quel sorriso che dice 'oggi è una buona giornata'. Cos'è il segreto?" Lei appoggia i gomiti sul bancone, chinandosi leggermente – un gesto che le fa tendere la camicetta sui seni, un dettaglio che assaporo in silenzio – e risponde: "Il tuo arrivo, forse. Rende le sette e mezza meno... solitarie." Le sue parole sono un ponte, e io lo attraverso con cura: "Allora siamo in due. Dimmi di più su quei sogni di spiagge lontane. Che fai, lì da sola? Cammini scalza sulla sabbia, o ti lasci cullare dalle onde che arrivano da oceani dimenticati?"

Parliamo a lungo, il locale che si riempie piano ma noi siamo in una bolla: lei descrive il sale sulla pelle, il tramonto che tinge il mare di fuoco; io racconto di nuotate all'alba in piscine che mi avvolgono come un abbraccio liquido, di come l'acqua mi liberi i pensieri e mi renda invincibile. Le sue mani gesticolano animate, sfiorando le mie sul bancone, e ogni contatto è una scintilla – un brivido che le fa mordere il labbro, un rossore che le colora le guance. "Sembri uno che non si ferma mai," dice alla fine, con un sospiro ammirato. "E tu sembri una che merita di non fermarsi mai," ribatto, alzandomi con lentezza, torreggiando su di lei per un istante che carica l'aria di elettricità. "A domani, Elena. Continua a sognare – per entrambi."

Le mattine successive si fondono in un crescendo irresistibile, come il Tevere che si gonfia dopo giorni di pioggia, ogni interazione un'onda che erode le distanze. La quarta: porto un mazzo di fiori selvatici, colti da un'aiuola dimenticata – margherite e papaveri rossi che contrastano con il suo grembiule. "Per la donna che illumina le mie mattine," dico, e lei li prende con mani tremanti, premendoli al petto come un talismano, gli occhi lucidi di un'emozione che non nomina. "Daniele, non dovevi... sono bellissimi." Parliamo di giardini nascosti a Roma, di come i fiori siano ribelli contro il cemento; le sue risate echeggiano, il corpo che si apre verso di me, le ginocchia che sfiorano le mie sotto il bancone in un contatto casuale ma infuocato.

La quinta: piove di nuovo, e le racconto della mia palestra, mimando un movimento con le braccia – muscoli che si flettono, un'ombra di potenza che danza nella luce fioca – e lei osserva, ipnotizzata, le dita che tracciano cerchi invisibili sul legno. "Deve essere liberatorio," mormora, e io annuisco: "Lo è. Dovresti provarlo, un giorno. Con me." Il dialogo si infittisce: sogni di viaggi, di cene sotto le stelle al Gianicolo, di musica che riempie le notti romane. Lei confida di amare il jazz, di ballare da sola in cucina quando nessuno guarda; io descrivo corse al chiaro di luna lungo sentieri isolati, e l'aria tra noi crepita di possibilità non dette, i suoi sguardi che si attardano sulle mie labbra, sul collo, con una fame velata.

Sesta mattina: il sole alto, il locale affollato ma noi isolati in un angolo. Le porto un libro – poesie di Ungaretti "Per i tuoi sogni," dico, e lei lo sfoglia con dita reverenti, leggendo ad alta voce una strofa sul silenzio che urla. "È perfetto," sussurra, la voce rotta da un'emozione cruda, e i nostri volti si avvicinano mentre discutiamo versi – il suo respiro sul mio, caldo e dolce di cannella. "Mi fai sentire... viva," ammette, e io le sfioro una ciocca di capelli, un tocco che la fa rabbrividire visibilmente, le pupille dilatate. "Perché lo sei, Elena. Sempre."

Settima mattina, e la confidenza è un fuoco covato: saluti che sono carezze verbali. "Hai dormito bene?" chiedo, e lei annuisce, raccontando di una notte insonne con il jazz in cuffia. Parliamo ore – o così sembra, in quel flusso temporale sospeso – di paure e desideri: lei di perdersi nei vicoli di Roma, io di conquistare il silenzio interiore. Le mie mani coprono le sue sul bancone, un gesto possessivo ma gentile, e lei non ritrae, stringendo invece, il polso che accelera sotto il mio pollice. L'aria è densa, elettrica, ogni parola un filo che ci lega più stretto, ogni sguardo una promessa di tempeste future.

È lì, in quella settima mattina, che il momento arriva. Il locale si svuota per un istante, il sole che filtra sul bancone. "Elena," dico, la voce bassa come un giuramento, " Dammi il tuo numero. Solo per mandarti un pensiero, una buona giornata... o un verso che ti faccia sorridere." Lei esita, ma solo per un battito – gli occhi che guizzano nei miei, un sorriso che sboccia lento – poi scribacchia il numero su un tovagliolo, le dita che tremano di eccitazione. "Eccolo. Ma... prometti di usarlo bene?" Io le do il mio, intrecciando le dita alle sue in un nodo che sa di destino. "Promesso. Sei troppo preziosa per sprecarlo."

Sorseggio l'espresso, il calore che mi scende in gola come lava, e tiro fuori il telefono. Digito rapido, il cuore che batte con un ritmo primordiale, e il messaggio parte: "Adesso vai in bagno. Fai una foto alle mutande. Mandamela. Poi torna qui e salutami con un bel sorriso. Altrimenti domani cambio bar"

Lei controlla il telefono un istante dopo, e il mondo sembra fermarsi: le guance che avvampano in un rosso profondo, gli occhi che si spalancano in un misto di shock e desiderio crudo.
Le labbra si schiudono in un ansito silenzioso, il corpo che si irrigidisce per un secondo eterno.

Guarda lo schermo, poi me, poi di nuovo lo schermo – le dita che stringono il telefono come se scottasse, un'esitazione che le fa mordere il labbro inferiore fino a farne sbiancare la pelle. "Daniele... io..." balbetta, la voce un filo spezzato, gli occhi che guizzano verso la porta del bagno e poi di nuovo su di me, imploranti un ripensamento che non arriva.
Il rossore le invade il collo, le mani che tremano visibilmente mentre appoggia il telefono sul bancone, come se volesse allontanarlo da sé. Per un momento eterno, resta lì immobile, il respiro corto e irregolare, lo sguardo che danza tra il desiderio di obbedire e il vortice di dubbi che le annebbia gli occhi verdi – un conflitto che le fa torcere le dita nel grembiule, un passo falso verso il bagno seguito da un'indietreggiata, come se le gambe non la sostenessero. "È... è troppo," sussurra, quasi a se stessa, ma poi i miei occhi la inchiodano, calmi e inesorabili, e qualcosa in lei cede: un sospiro profondo, un cenno del capo quasi impercettibile.

Con un movimento fluido ma incerto, quasi ipnotico, guarda intorno al locale ormai tranquillo – il vecchio al fondo che sfoglia un giornale, ignaro – e mormora di nuovo: "Torno subito." Sparisce dietro la tenda del bagno, i passi lenti, esitanti, come se ogni fibra del suo corpo lottasse contro l'impulso, ma alla fine, vinta dalla corrente che ho creato tra noi.

Aspetto, il tempo dilatato come in un sogno febbrile, il mio corpo teso – muscoli che guizzano sotto la camicia, il respiro controllato ma profondo. Il telefono vibra, un suono che riecheggia come un tuono interiore. La foto arriva: intima, audace – pizzo nero, come immaginavo, un atto di resa pura, illuminato dalla luce fioca del bagno, che cattura la una sinfonia proibita. Un brivido mi percorre la spina dorsale, elettrico, primordiale, e io sorrido – un sorriso di trionfo assoluto, che sa di vittoria antica come Roma stessa.

Lei riemerge dopo un'eternità compressa in minuti, le guance ancora accese di quel rossore tormentato, ma con un passo rinnovato, un bagliore negli occhi verdi che parla di scoperte profonde, di una battaglia interiore vinta a fatica.
Si avvicina al bancone, e il suo sorriso è un capolavoro: luminoso, complice, con un velo di malizia che le incurva le labbra piene, come se avesse appena assaggiato il frutto della conoscenza. "Buona giornata, Daniele," dice, la voce un sussurro roco, carico di sottintesi, e le sue dita sfiorano le mie in un addio che è una promessa.

Esco nel sole accecante di Trastevere, il telefono caldo in tasca come un talismano, il corpo percorso da un'energia selvaggia. Lei ha obbedito, dopo quell'indecisione che ha reso il suo atto ancora più dolce, più mio. Ha ceduto al primo comando, non per paura, ma per il fuoco che ho acceso in lei, mattinata dopo mattinata.

È irrimediabilmente mia.

scritto il
2025-11-03
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